Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 24 luglio 2010

Interventi sul libro “Liberi dalla civiltà”


Con questi tre interventi di Marcello, di Gaetano/Elisa e di Gianfranco, la redazione del blog vuole sollecitare qualche ulteriore riflessione sul libro di Enrico, presentato nel POST Liberi dalla civiltà (nei limiti del possibile). Solo per praticità abbiamo evitato la forma del “dialogo-botta-e-risposta” che avrebbe reso necessario uno scambio di moltissime mail fra cinque persone prima della definizione di un testo “condiviso”. Quindi, in questo post abbiamo raccolto alcune “domande/riflessioni” e in un post successivo raccoglieremo le risposte di Enrico.


INTERVENTO DI MARCELLO

Caro Enrico,

anch’io non posso che complimentarmi per il lavoro che hai svolto con “Liberi dalla civiltà”. Concordo con te sulla sviluppo degenerativo di questa civiltà e non sto a ripetere nemmeno per sommi capi l’analisi da te prodotta, anche perché la verifica delle conseguenze che stiamo vivendo è immediata e quotidiana.

Mi rimangono però alcuni dubbi.

Il primo mi è nato dal tuo richiamo pressoché costante alla civiltà e quindi dal tuo dare per scontato che l’alternativa a questa civilizzazione sia la non-civilizzazione, perché questa è l’unica. E’ sicuramente unica per quello che ci è dato vivere ora, ma è l’unica possibile?


Non credo che questo dubbio sia puramente speculativo perché si tiene bene con altri due. E’ infatti praticamente fuori discussione che l’uomo agricoltore rappresenti una degenerazione rispetto all’uomo raccoglitore-cacciatore, e anche qui non sto a ripetere le implicazioni culturali, politiche, economiche, e prima ancora psicologiche ed emotive (in una parola, sull’intera vita umana) che si possono leggere nella tua peraltro godibilissima trattazione. Non sono però sicuro che il movimento degenerativo:


  1. sia iniziato con l’agricoltura;
  2. se è iniziato con l’agricoltura, perché è iniziato.
Il vaglio delle ipotesi mi ha portato ad alcune riflessioni che possono aprirsi anche oltre il tema dell’incivilimento. Da profano, provo a spiegarmi meglio.

Parto dal punto 2.

A pag. 39 un boscimane, un nostro co-evo non-civilizzato, interrogato risponde: “Perché mai dovremmo dedicarci alla coltivazione finché ci sono sulla terra tante noci di mongongo?”.

Sono d’accordo con il boscimane, il quale nell’ipotetico punto di svolta dalla non-civiltà alla civiltà avrebbe potuto trovarsi in queste situazioni alternative:

a) essere diventato più stupido, e fare tutta la fatica per ottenere cose che potrebbe ottenere gratis, e innescare il processo degenerativo per pura idiozia o per errore;

b) essere diventato più cattivo, e fare quella fatica per creare surplus, quindi arricchirsi, quindi avere più potere, quindi poter sfruttare e dominare gli altri e poi tutto il resto, per lucida malafede;

c) essere quello di sempre ma con pochissime noci di mongongo.


Trovo che (a) non sia realistica. Possibile all’interno della variabilità individuale, ma praticamente impossibile a livello collettivo a meno di ipotizzare una involuzione dell’intelligenza umana. Anche se personalmente non ho difficoltà a mettere in dubbio i dogmi darwiniani ed accettare anche momenti involutivi, credo che l’uomo, come elemento naturale, agisca complessivamente all’interno del sistema di minima spesa di tutta la natura.

(b) ha quasi lo stesso problema di (a): cioè perché evolvono tutti verso una maggiore cattiveria? Per la verità non sarebbe da escludere un altro piano di esistenza per l’umanità: un piano dell’anima o della mente collettiva, collegato ma non coincidente né deducibile dal piano evolutivo (darwiniano o no, non importa) dei corpi; cioè l’anima o la mente non sono prodotti di una parte del corpo (cervello?), ma hanno un’esistenza propria e il corpo è solo l’interfaccia verso il mondo fisico. In questo caso, sarebbe l’agricoltura (e poi questa civiltà) ad essere l’effetto causato dalla condizione umana (degenerata rispetto alla condizione ideale non-civilizzata) e non viceversa.

Rimane (c). Se le noci di mongongo che crescono spontaneamente non bastano più per tutti, le alternative alla morte per fame sarebbero state la competizione e il conflitto per assicurarsi le noci a scapito di altri o iniziare a coltivarle, innescando comunque un movimento degenerativo.

Inoltre rimane sempre in piedi la domanda, “perché se la natura è in armonia, poi la rompe e non produce più noci a sufficienza”?


Trovo quindi che il “problema agricoltura-innesco incivilimento mortale” fotografi una situazione già mutata, cioè siamo già al sintomo (uno dei primi) e non alla causa della malattia di questa civiltà.

Credo che tutta la faccenda si possa sintetizzare con “l’uomo cacciatore-raccoglitore è in armonia con la natura e poi non lo è più”.


Quindi o è cambiato l’uomo, e se era in armonia con la natura, è cambiato per motivi “extra-naturali”, cioè lungo un altro piano dell’esistenza, come accennato in precedenza.


O è cambiata la natura, nel senso che non c’erano più tante noci mongongo, e allora l’uomo si è adattato. Esattamente come il bimbo naturalmente in armonia con il mondo, trovandosi poi in un mondo non proprio bellissimo, fa quello che può: nevrotizza. E via con il circolo vizioso.


A questo punto, caro Enrico, concordo con te nel ritenere questa civiltà come la meglio possibile e inevitabile sia solo una fantasia che ci serve da alibi.

Inevitabile in effetti, ma solo allora, e oggi modificabile.

Esattamente come le nostre nevrosi e paure infondate (di adulti) sono una risposta (quasi automatica, di bambino) non più adeguata ad un problema che (oggi) non costituisce più un pericolo.

Come io oggi sono quello che sono di buono anche grazie a ciò che di male (subito o fatto) c’è stato nella mia vita, vedo nell’incivilimento un cammino, soffertissimo, di autocoscienza dell’umanità.

Non me ne rallegro, ma credo che una certa “compassione” per la nostra umanità bambina ci possa aiutare ad evitare le trappole del “ribellismo” o la fuga nell’adorazione del mito del “buon selvaggio” per cercare le motivazioni interiori ad un cambiamento reale nella vita reale.


Ma rimaniamo sul problema dell’equilibrio che si rompe.

L’equilibrio, inteso in senso vitale, non può essere inteso come assenza di perturbazioni, perché questo corrisponde alla morte. Come non lo è la presenza contemporanea di due perturbazioni di segno opposto che si annullano, perché questa è stasi, cioè ancora morte.

Cioè la vita avanza in un susseguirsi di perturbazioni di segno diverso, a volte parzialmente sovrapposte (cioè che agiscono contemporaneamente) ma mai a somma zero. In ogni istante la vita è sempre sbilanciata in un qualche verso, poi magari interviene una correzione, ma raggiunta la parità il processo non si arresta. Anche a livello elettrochimico, nelle cellule, non si raggiunge mai il completo equilibrio, pena la fine delle funzioni vitali: se la differenza di potenziale elettrico tra l’interno e l’esterno della membrana cellulare si annulla gli elementi nutritivi non possono entrare e le tossine essere espulse. Questo vale sia nel mondo microscopico che in quello macroscopico: se tutte le masse gravitazionali dell’universo fossero in equilibrio la Terra smetterebbe di girare attorno al Sole. E’ lo stress della vita perché la vita è stress, senza con questo avanzare nessuna teorizzazione che veda lo stress come “il pepe necessario” per una “vita eccitante e stimolante”, perché in questi casi (tipo un lavoro frenetico) di solito si tratta di una giustificazione razionalizzante per una serie di stress evitabili (esistono lavori non frenetici) che per qualche motivo più profondo non si vuole affrontare (vedi POST Competizione, superbia, capitalismo e demenza sociale). L’idea dell’equilibrio è anche l’idea della Giustizia, cioè della Parità, ma la somma zero nel tempo finito non c’è mai, che è esattamente quello che sperimentiamo nell’arco di una vita, o nel corso storico di un secolo o di un millennio. Su tempi molto lunghi intravediamo con più facilità movimenti di compensazione, come dissesti idrogeologici, crisi economiche ecc. e questo ci suggerisce che la parità sia possibile solo nel tempo eternamente lungo. Questa, di fatto, è l’idea del karma, che prevede azioni, reazioni, compensazioni che hanno fine solo quando l’individualità personale (uomo) o l’individualità collettiva (umanità) escono dal ciclo delle rinascite (di vite finite) e vivono nel piano senza tempo (dove il tempo non fluisce, cioè infinitamente lungo).


Questo per ribadire che la situazione agognata di equilibrio dove tutto funziona “come dovrebbe” è probabilmente un miraggio nel futuro e un mito nel passato.

E ancora una volta, non per giustificare la situazione attuale e rassegnarsi ad essa. L’ampiezza della “degenerazione” raggiunta è grandissima, però intravedo in questo qualcosa di triste ma fisiologico.


Per chiarire quale fisiologia intendo, provo a fare un passo a lato dell’idea di equilibrio, cioè verso quella di evoluzione, mantenendo il punto cardine che il susseguirsi di perturbazioni di segno opposto suggerisca come il fenomeno base sia l’oscillazione e che la vita risulti dalla somma di più movimenti oscillanti.

Dal libro, ma non sono riuscito a capirlo con chiarezza, mi pare che la tua idea di evoluzione sia lineare. Anche se si ritiene che ci sia una involuzione col progredire della civiltà, si ritiene comunque che ci sia un movimento dal primitivo al moderno.

Cioè che prima dei primitivi ci fossero altri uomini (più) primitivi o, in accordo con Darwin, addirittura altri animali (ancora) non umani, (che sono in effetti i più armoniosi per eccellenza), e che quindi ci sia una transizione dai più ai meno felici, linearmente.

Purtroppo i segnali dell’archeologia, un po’ meno standard, ma “non troppo alternativa” sono di altro tipo.

Sia nelle caratteristiche fisiche degli umani, che del loro progresso culturale e tecnico.


Un esempio per tutti:

Sono state trovate diverse mappe sicuramente autentiche del ‘400 e inizio ‘500, probabilmente copiate da altri originali più antichi, che riportano le coste di terre allora ufficialmente ancora “non scoperte”, con un dettaglio e una tecnica incompatibili con le conoscenze dell’epoca. Per un primo studio delle fonti, consiglio la lettura del libro di G. Hancock, Civiltà sommerse (Ed. Corbaccio, 2002), di cui riporto un brano (pag. 9):


OTTAVA SQUADRIGLIA DI RICOGNIZIONE TECNICA (COMANDO STRATEGICO AEREO) AERONAUTICA DEGLI STATI UNITI


Base aerea di Westover Massachusetts

6 luglio 1960

SOGGETTO: II mappamondo dell'ammiraglio Piri Reis

A: Professor Charles H. Hapgood,

Keene College,

Keene, New Hampshire


Egregio Professor Hapgood,

la Sua richiesta di valutazione di alcune singolari caratteristiche del mappamondo di Piri Reis del 1513 da parte di questo organo, è stata accolta.

L'ipotesi che la parte inferiore della carta rappresenti la Costa Principessa Martha della Terra della Regina Maud e la Penisola Antartica è ragionevole. A nostro avviso è l’interpretazione più lo­gica della carta e con tutta probabilità quella corretta.

II dettaglio geografico mostrato nella parte inferiore della carta concorda in modo straordinario con il profilo sismico effettuato sulla superficie della cappa di ghiaccio dalla Spedizione Antartica Svedese-Britannica del 1949.

Nel tentativo di trovare questa spiegazione è opportuno ricordare i fondamentali fatti storici e geologici:


1 La carta di Piri Reis, che è un documento autentico, e in nessun modo una beffa, fu realizzata a Costantinopoli nell'anno 1513 d.C.


2 Essa mette in risalto la costa occidentale dell'Africa, la costa orientale del Sud America e la costa settentrionale dell'Antartico.


3 Piri Reis non poteva aver acquisito le informazioni necessarie su quest'ultima regione dagli esploratori contemporanei, poiché l'Antartico fu scoperto soltanto nel 1818, più di trecento anni dopo che egli disegnò la carta.


4 La costa della Terra della Regina Maud sgombra dai ghiacci che appare nella carta rappresenta un enigma colossale, in quanto le documentazioni geologiche confermano che la data ultima in cui sarebbe stato possibile rilevarla e cartografarla in condizioni di disgelo è il 4000 a.C.


5 Non è possibile individuare la data prima in cui sarebbe stato possibile realizzare un'impresa del genere, ma a quanto pare il litorale della Terra della Regina Maud è rimasto in condizioni stabili di disgelo per almeno novemila anni prima che l'avanzata della cappa di ghiaccio lo inghiottisse completamente.


6 La storia non conosce alcuna civiltà che avesse la capacità o il bisogno di rilevare quella linea di costa nel periodo in questione, ossia tra il 13.000 e il 4000 a.C.


In altre parole, il vero enigma di questa carta del 1513. non è tanto il fatto che includa un continente scoperto solo nel 1818, quanto che rappresenti parte della linea costiera di quello stesso continente in condizioni di disgelo, le quali ebbero fine seimila anni fa e non si sono più ripresentate.

Come si può spiegare questo fatto? Piri Reis ci dà diligentemente la risposta in una serie di annotazioni scritte di suo pugno sulla carta geografica stessa. Ci informa che non fu lui a effettuare i rilevamenti e i disegni cartografici originari. Al contrario ammette che il suo ruolo è stato solo quello di compilatore e,

«Ciò sta a indicare che la linea costiera era stata rilevata prima che fosse ricoperta dalla cappa di ghiaccio. Al presente la cappa di ghiaccio in quella regione è spessa circa un chilometro e mezzo.

Non sappiamo assolutamente come si possano conciliare i dati riportati sulla carta in questione con il presunto livello delle conoscenze geografiche nel 1513.


HAROLD Z. OHLMEYER

Tenente colonnello, AERONAUTICA STATUNITENSE, Comandante


A dispetto del tono misurato, la lettera di Ohlmeyer è una bomba. Se la Terra della Regina Maud fu rilevata prima che fosse coperta dai ghiacci, i lavori cartografici originari devono risalire a tempi remotissimi. A quando, esattamente?

La tradizione scientifica vuole che la cappa di ghiaccio dell'Antartico, nella sua attuale estensione e forma, abbia milioni di anni. A un esame più attento, questa opinione rivela un grave vizio, talmente grave che non siamo tenuti a supporre che la carta geografica disegnata dall'ammiraglio Piri Reis riproduca la Terra della Regina Maud così come appariva milioni di anni fa. La migliore documentazione recente indica che la Terra della Regina Maud e le vicine regioni mostrate sulla carta attraversarono un lungo periodo senza ghiacci che forse si concluse definitivamente solo circa seimila anni fa. Questa documentazione, su cui torneremo nel prossimo capitolo, ci esonera dal gravoso compito di spiegare chi (o che cosa) fosse in possesso della tecnologia necessaria per realizzare un accurato rilevamento geografico dell'Antartico nell'anno, poniamo, duemilioni di anni fa, molto tempo prima delle origini della nostra stessa specie. Ma poiché la rappresentazione cartografica è un'attività complessa e civilizzata, ci troviamo d'altro canto obbligati a spiegare come sia stato possibile realizzare un'impresa simile anche solo seimila anni fa, una data che precede di molto gli albori delle prime vere civiltà riconosciute dagli storici.>>


Posto che nel ‘400 non è saputo che ci fosse nessuna tecnologia per rilevare le coste in quel modo, soprattutto di un continente che ancora non si sapeva che esistesse, le soluzioni sono due:

  1. la presenza di una civiltà parallela a quella del ‘400 di cui non sappiamo niente e che ha sviluppato una tecnologia poderosissima, di cui non è rimasto niente;
  2. prima della nostra civiltà ne esisteva un’altra con capacità paragonabili alle nostre di oggi, di cui non è rimasto niente.

La (1) non è molto probabile, ma poco importa. Queste riflessioni ci portano a considerare sia la possibilità di civiltà alternative estinte (e dovrebbe funzionare da monito e incoraggiamento per intraprendere i cambiamenti nella nostra) sia che i primi-tivi non siano davvero i primi.


Fritjof Capra, in un libro (Il punto di svolta, Feltrinelli, 2003) che tu stesso metti nella bibliografia del tuo, coerentemente con la sua visione olistica, sostiene (e non è solo un’intuizione personale, come ormai si comincia a capire anche in sede più “ufficiale”) che la linea evolutiva non è lineare. Capra insiste molto sul non-lineare, con momenti di ascesa e caduta, praticamente per ogni aspetto dell’universo, nel lunghissimo, lungo, medio e breve termine.

Alcuni aspetti declinanti vengono poi ripresi, in risalita, e via così: cioè parla, ma meno esplicitamente, di linea oscillatoria.

Non arriva a parlare di ciclicità, cosa che invece fanno i Veda: la nostra epoca sarebbe “il punto di svolta” dal kali-yuga (caduta, degenerativo) al satia-yuga (ascesa, rigenerativo). Gli yuga durano eoni di tempo e si ripetono. All’interno di ogni yuga ci sono altri movimenti oscillanti di periodo più breve che riguardano altri aspetti del creato, e all’interno altre oscillazioni per altre caratteristiche “più brevi” e via così innestando.


Non interessa ora disquisire se queste ripetizioni cicliche siano identiche come in una “dejà vu” oppure no, ma stabilire che trovare un inizio è molto difficile, se non impossibile. Farebbe comodo in effetti, perché trovare il responsabile colpevole dell’incivilimento che ci fa soffrire, almeno ci consolerebbe un po’.


Anche la civiltà vedica (non quella indù cui fai riferimento tu, ma quella degli antichissimi saggi Rishi) sembrerebbe essere stata in equilibrio, addirittura in armonia con le più sottili energie dell’universo e poi non lo è più stata (ed è diventata quella indù).

Si parla di una scienza della vita, l’Ayurveda (e di tutta una tecnologia che oggi chiameremmo medica, per i preparati, le diagnosi e le terapie), che non curava le malattie, ma preservava la salute.

Si parla di una agricoltura (eccoci!), Vriksha Ayurveda, in cui i vegetali venivano colti recitando un mantra, perché la connessione mentale dell’uomo con la natura era fondamentale.

Si parla però anche di una aviazione, di navi volanti, di terribili esplosioni, di devastazioni (per alcune fonti vedere http://www.hinduwisdom.info/Vimanas.htm#References%20from%20Ancient%20Literature).


Mi rendo conto che mi sto addentrando in terreno minato anche dalle fantasticherie new-age, ma la suggestione dell’umanità che ciclicamente perde e ritrova armonia è in sè armonica. La perdita dell’equilibrio è intrinseca all’equilibrio dinamico, cioè è vitale.

Non voglio buttarla sul fatalismo, anche se l’idea di karma (che mi affascina e su cui mi propongo di ritornare) offre la possibilità di coniugare l’inevitabilità della degenerazione e della distruzione dell’universo con la libertà di generare e costruire del singolo individuo.


Caro Enrico, arrivo al dunque: gli approfondimenti possibili del tuo lavoro mi sembrano i seguenti:

a) nella NOSTRA storia evolutiva resta da chiarire perché si è passati da una situazione di “equilibrio felice” ad una situazione di “involuzione infelice” avviata con l’utilizzazione di un PARTICOLARE tipo di agricoltura;

b) possiamo collocare questa involuzione particolare (quella degli ultimi 10.000 anni) in un contesto più ampio, SIA perché probabilmente essa è solo un’appendice di una storia più grande, SIA per non restare ancorati a dicotomie (del tipo “bei tempi-brutti tempi”) o a ribellioni inconcludenti (del tipo “non voto se non si presentano gli aborigeni”).


Detto questo resta utile la comprensione dell’intreccio fra i tanti piani di questa civiltà e resta confermato che il fotovoltaico è preferibile al petrolio, che la riduzione dei consumi è migliore del fotovoltaico, ecc. e che una de-crescita e una de-civilizzazione non sono sinonimi di nuovo imbarbarimento ma, al contrario, di recupero di umanità.


INTERVENTO DI GAETANO E DI ELISA

Caro Enrico,

proveremo a fare qualche riflessione sull’uso personale che si può fare di un libro come il tuo, che è stato pensato e scritto in modo intelligente e sentito. Non ci proponiamo di polemizzare, dato che sei molto equilibrato nell’esposizione e cauto nelle conclusioni, ma vorremmo evidenziare due possibili “linee” di pensiero che potrebbero svilupparsi dalle tue pagine: una a nostro avviso ragionevole e costruttiva ed una inconcludente, pseudo-progressista e snob. Nessun invito quindi a “correggerti” ma a puntualizzare e “prevenire” eventuali usi “impropri” del tuo lavoro.


La “nostra” civiltà si è sviluppata in un certo modo ed è arrivata a questo punto. Possiamo rimpiangere l’arco e le frecce, ma siamo qui a diecimila anni dall’opzione “agricoltura sì/agricoltura no” e siamo alle prese con ben altre opzioni. La lettura di pagine che dimostrano in modo convincente che non abbiamo davvero guadagnato un tubo ad avere più medicine e un fisico indebolito o ad avere aeroplani e non avere una meta, ci riporta comunque alle scelte di ogni giorno da farsi con il nostro fisico rattrappito e con la pubblicità delle Agenzie Viaggi.


Il pericolo di un uso poco saggio del tuo contributo è di tradurlo in “ideologia”, cioè in uno schema di idee sballate anche se più “umane” di quelle “padane” o consumiste. Il rischio è, cioè, quello di avviare una lotta personale “per la primitivizzazione”. Per intenderci, non vediamo niente di male nel fare delle vacanze in campagna anziché a New York o nell’andare in bici anziché in auto o nel gestire un “orto sinergico” senza usare zappa e concime. PURCHE’ queste cose siano intese come giochi (nel senso bello del termine), e non come “impegno”. La società non cambia affatto se io ho un orto rivoluzionario. Cambia di più se tutti fanno la raccolta differenziata e soprattutto se si riduce sensibilmente il traffico aereo (che costituisce una delle maggiori fonti di inquinamento del pianeta e di cui non parla nessuno). E’ più raccomandabile un altro uso del libro: un uso “critico” e mirato a comprendere meglio l’intreccio fra economia e cultura nel nostro mondo, accettando che comunque questo è il nostro mondo e che è nostro compito cambiarlo nei limiti del possibile.


A noi non piacciono i “rivoluzionari dello spirito” troppo schizzinosi verso la politica per fare qualcosa di concreto. “Quelli che … -direbbe Jannacci- la rivoluzione parte dal quotidiano” … e giù a sorridere al tramonto, a bruciare incensini, a declamare testi poetici raccolti in confezione-regalo e a sentirsi molto “spirituali” e “liberi dai compromessi”. Il risultato, in questi casi sta nel fatto che i fascisti continuano il loro lavoro e l’opposizione (o quel che resta) ha persino meno voti. Abbiamo già i “rivoluzionari interiori” che pensano solo alla loro fottuta kundalini e quelli “esteriori” dell’ultima ora che mandano tutti a fanculo dato che destra e sinistra “sono uguali” (idea falsa, perché destra e sinistra sono cose diverse anche se i partiti di destra e di sinistra possono essersi avvicinati: cfr. il POST Destra e sinistra come categorie politiche ed etiche). Il mondo, in questa condizione attuale, non migliorerebbe sicuramente con altri “rivoluzionari primitivisti” che con snobismo disimpegnato e con lo sguardo di chi la sa lunga pensano in pratica ai fatti loro (cosa legittima) credendo però di attuare una nuova modalità di “impegno”.


L’impegno vero è quello che produce risultati per chi ne ha più bisogno e che produce risultati, magari minimi, da oggi. Ora, trattare con rispetto i bambini non equivale a fare politica, ma almeno produce risultati significativi (un’intera vita migliore per loro e migliori intrecci fra le loro vite e altre vite), ma girare in bicicletta è solo un passatempo e NON un impegno ecologico, almeno finché non cambia il tipo di produzione e di commercializzazione delle auto nel paese e nel pianeta. Tu hai il merito di non istigare a questo vizio mentale del “grande rifiuto”, ma le tue affermazioni sul “non accontentarsi del meno peggio” meriterebbero qualche approfondimento. Se concorderai con la nostra pignola puntualizzazione ne saremo felici e se dissentirai, temo che resteremo della nostra idea.


INTERVENTO DI GIANFRANCO

Caro Enrico,

penso di non essere la persona più adatta per approfondimenti relativi all’origine della civiltà o di questa civiltà. Sicuramente l’intreccio che tu sottolinei fra economia (nel senso di tutti i modi di produzione e non solo dei più recenti) e cultura (nel senso più ampio e non solo “ideologico” del termine) è illuminante, oltre che inquietante. Soprattutto, i riferimenti che fai a popolazioni rimaste ai margini di questa folle linea di sviluppo e quindi tuttora ancorate al modo di vivere degli antichi raccoglitori-cacciatori sono intriganti. E sollecitano interrogativi sul motivo per cui diecimila anni fa siamo stati così fessi da rinunciare ad un paradiso terrestre. Le varie teorie che hai citato per rispondere alla mia ultima domanda non mi sembrano convincenti e mi spiace non avere una teoria di rincalzo basata su dati archeologici o geologici.


L’unico terreno sul quale ho delle certezze ragionevoli è costituito dal lato soggettivo della nostra condivisa follia. Su tale versante, è chiaro che quando facciamo scelte distruttive agiamo per paura di sentire e in particolare, per paura di sentire dolore. L’idea secondo cui “se non ci controlliamo cadiamo in tentazione e nel peccato” è una fesseria dei preti, perché quando facciamo del male in realtà ci stiamo controllando. La nostra distruttività “originaria” non esiste, con buona pace dei papi, di Freud e di tanti altri. In pratica facciamo cose distruttive perché continuiamo a scappare da noi stessi, così come fanno i bambini quando sono soli a dover gestire della sofferenza.


Quando con i nostri atteggiamenti caratteriali rifiutiamo una buona socialità abbiamo già rifiutato noi stessi per “salvarci” (cioè per dissociarci) da emozioni profonde e “scomode”. La persona rigida “che non vuol chiedere mai” continua ad evitare il dolore (antico e devastante) di chiedere e di sentirsi squalificata. Poi magari si costruisce una mitologia letteraria o filosofica della misantropia ma, di fatto, continua ad evitare le esperienze che nell’infanzia risultavano ingestibili. Al contrario, la persona “bisognosa” che chiede favori a tutti, anche quando potrebbe arrangiarsi, continua ad evitare l’esperienza di chiedere cose importanti (sul piano affettivo) nel modo in cui nell’infanzia decise di sostituire quelle richieste con stupidi capricci più facilmente accettati perché di tipo “pratico”.


Come ho cercato di chiarire nel POST Evoluzione biologica e irrazionalità, la nostra infanzia è troppo lunga per non includere esperienze dolorose e per non essere contrassegnata da forme inadeguate di accudimento da parte dei genitori. In pratica, la lupa più squinternata, nei pochi mesi in cui deve accudire i piccoli lo fa dignitosamente, mentre la femmina umana più responsabile, nell’arco di anni fa inevitabilmente degli errori con il suo cucciolo d’uomo. Io tendo quindi a pensare che nei tempi antichi la civilizzazione sia sorta a partire da quell’avidità, irrazionalità che si radica nella paura del contatto emotivo. In altre parole penso che gli umani abbiano rinunciato alla loro armonia con la natura gradualmente, cioè diventando sempre più rigidi, distaccati e irrazionali (“corazzati”) e diventando quindi “sensibili” al fascino del potere, del controllo, del dominio. Probabilmente, se fino ad un certo momento i nostri antenati hanno vissuto sostanzialmente bene, con qualche limitazione, da un certo momento in poi hanno manifestato più limitazioni e hanno tradotto a livello pratico-organizzativo-sociale tali cambiamenti interiori. Inevitabilmente hanno poi subito anche gli effetti di tutto ciò e razionalizzato la distruzione della loro vita quotidiana e della natura in cui erano immersi.


Oggi chi non vuole mantenere il contatto con situazioni dolorose si rincoglionisce con la carriera o con gli alcolici. Prima che inventassero le carriere e gli alcolici, qualcuno ha probabilmente deciso di rincoglionirsi arando un campo e piantando le tende in modo definitivo. L’idea non è facilmente dimostrabile, ma mi sembra più ragionevole di quelle degli studiosi che hai elencato.


Detto questo, quali che siano le ragioni dell’iniziale svolta, dobbiamo accettare che i vasi sono già rotti e dobbiamo lavorare sui cocci per fare ciò che è possibile oggi.

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