Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

giovedì 29 luglio 2010

Note di Enrico sui commenti al suo libro “Liberi dalla civiltà”


In questo POST riportiamo le risposte di Enrico agli interventi di Marcello, Gaetano, Elisa e Gianfranco che, assieme, costituiscono il recente POST Interventi sul libro “Liberi dalla civiltà”. Alcune evidenti sintonie hanno reso possibile l’interesse del blog per il libro di Enrico; tuttavia, sia gli interventi di Marcello, Gaetano, Elisa e Gianfranco, sia queste risposte di Enrico evidenziano anche significative diversità di vedute. La discussione su questi temi potrebbe quindi protrarsi a lungo, ma preferiamo concedere l’ultima parola ad Enrico e lasciare quindi aperte le questioni esaminate per tornare nei prossimi post ai "più consueti" temi del blog.

(Marcello, Gaetano, Elisa e Gianfranco)



SULL’INTERVENTO DI MARCELLO

Caro Marcello,

ti ringrazio di cuore per i complimenti che mi hai rivolto. È sempre una bella soddisfazione risultare comprensibili e “interessanti”. Che rimangano dubbi o problematiche aperte sulle questioni da me affrontate in LIBERI DALLA CIVILTA' è pacifico (il mio libro non ha certo la pretesa di rispondere ad ogni quesito possibile), e dunque mi stimola l'idea di dibattere a proposito di tali questioni. Vorrei però fare chiarezza su una cosa che ritengo importante. A me, come persona, non sono mai piaciute (e non interessano tuttora) le pure speculazioni teoriche, gli intellettualismi, i cerebralismi e, soprattutto, non vorrei che i lettori potessero pensare che il mio libro fosse intriso di questa retorica o la incoraggiasse. Con questo non voglio dire che il tuo intervento dia credito a questa mia preoccupazione, ma siccome è facilissimo cadere in equivoci e fraintendimenti (tanto più se si fa uso di parole), vorrei solo evitare che il lettore che si approcciasse per la prima volta a questo blog senza aver letto il mio libro pensasse che LIBERI DALLA CIVILTA' si inserisse in quella categoria di saggi colmi di considerazioni pleonastiche e di questioni di pura “lana caprina”.


Consentimi dunque di fare la precisazione che segue. Per quanto nel mio libro abbia cercato di tenere aperto lo sguardo ad ogni possibile prospettiva d'indagine (una critica organica alla civilizzazione lo imponeva), e per quanto abbia dunque trattato di filosofia, di psicologia, di antropologia, di biologia, di medicina, ecc., LIBERI DALLA CIVILTA' non è un libro di filosofia, né di psicologia, né di antropologia, ecc. Non è insomma un libro “specialistico”, ma un libro che mi sono sforzato di rendere il più possibile semplice e comprensibile. Un libro che mi piace definire “divulgativo”, il cui scopo, cioè, non è quello di fare sfoggio di sapienza, ma di consentire, a chiunque avrà il desiderio e il buon cuore di leggerlo, di poter trovare qualche spunto per accrescere la propria consapevolezza critica verso il mondo lugubre che ci sta uccidendo. La mia unica aspirazione, infatti, è quella di veder diffusa una sempre più decisa volontà di “resistenza” alla civiltà: resistenza cioè verso quella pratica di devastazione a tutto tondo che ci viene ogni giorno presentata come la quintessenza della libertà e della felicità.


Come hai puntualmente notato, del resto, io parlo sempre di civiltà e non di nostra civiltà; e parlo di civiltà perché mi riferisco alla civiltà e non al nostro costume Occidentale. Mi riferisco, cioè, a quel processo che si è sviluppato circa diecimila anni fa con la nascita dell'agricoltura e che, ovunque è sorto (e si è espanso nel mondo), lo ha fatto reggendosi su alcune caratteristiche indefettibili. Se guardiamo alla storia civilizzata, qualunque sia stata la diversa connotazione di costume che la civiltà ha assunto nel tempo e nello spazio (dalle antiche società Mesopotamiche a quella Occidentale moderna), essa è sempre stata caratterizzata dalla presenza di un unico minimo comune denominatore: il distacco dell’Individuo dalla Natura e l’affermazione di un dominio del primo sulla seconda. È per questo che l'agricoltura è considerata (anche convenzionalmente) l'atto di nascita della civiltà.


Con l'agricoltura, infatti, l'essere umano realizza fattivamente questa separazione: inizia cioè a concepirsi non più come un “Io” connesso a tutto il resto, ma come un “Io” separato dal mondo e dominante verso di esso. Con l'agricoltura, insomma, la natura cessa di essere un “soggetto” e diventa un “oggetto”: un qualcosa di diverso dall'Umanità e destinato ad essere sottomesso da questa (sottomesso = messo sotto, messo a frutto).


Sono le cose che si usano, non le persone. E quando ci troviamo ad usare i soggetti (cosa che accade sempre più spesso nel mondo moderno) è perché la nostra mentalità civilizzata ci ha insegnato a concepire anche i soggetti come fossero oggetti (oggettivazione). L'oggettivazione della Natura, dunque, è il fondamento stesso della civiltà: della nostra come di quella Tolteca; della nostra come di quella della Egiziana; della nostra come di quella dell'Antica Cina, Polinesiana, Persiana, Greca, Romana, Maya, ecc. Se vogliamo indagare la fonte della crisi del nostro tempo, è coi valori di questo processo reificante che chiamiamo civiltà che dobbiamo prendercela, non con i singoli costumi Occidentali piuttosto che con quelli islamici, indocinesi, o curdi.


Ciò che ci sta trascinando verso la distruzione del mondo non è la nostra civiltà, ma la civiltà. Finché l'essere umano ha vissuto in armonia con l'ambiente naturale considerandosi parte integrante di quel tutto inscindibile che la nostra mentalità reificante chiama “Natura”, non ci sono stati né arbitrio né smanie di conquista. Perché non è la fame che fa sorgere la guerra se il tessuto relazionale della comunità è improntato al mutuo appoggio, alla vicinanza e all'aiuto reciproco. Quale madre non dividerebbe con il proprio bambino l'unico tozzo di pane? Quale amante non farebbe altrettanto con il proprio caro? Certo, nel mondo “dell'arraffa-arraffa”, del “piglia tutto e fregatene degli altri”, del “sii furbo e fai i tuoi interessi personalistici” un unico pezzo di pane farebbe scaturire una guerra infinita. E siccome noi viviamo immersi nella mentalità economica “dell'arraffa-arraffa”, del “piglia tutto e fregatene degli altri”, del “sii furbo e fai i tuoi interessi personalistici”, non riusciamo più nemmeno a concepire che ci sia un altro modo non-civilizzato di vivere. Tanto più, poi, se si comincia ad agitare lo spauracchio della “morte” (per fame). Anche la minaccia della morte, però, non è in grado di incrinare nemmeno minimamente la sensibilità di chi, vivendo nella Natura, sa bene che la Morte fa parte della Vita. Siamo noi, ancora una volta, che vivendo inscatolati in un'esistenza artificiale che sublima la perdita di ogni contatto con il reale attraverso l'illusione della liberazione dal dolore (medicina), dall'invecchiamento (tecnologia), dalla fine della vita (religione), temiamo la morte come degli ossessi. E per evitarla saremmo disposti anche ad uccidere...


La civiltà ci ha reso talmente dipendenti dal nostro rovinoso stile di vita che non riusciamo più a disintossicarcene. Questo è il problema. La civiltà è drogante; e noi, che viviamo appunto drogati dalle pseudo-comodità del mondo civile, sappiamo bene quanto sia difficile disintossicarci da queste abitudini. La civiltà è drogante perché ogni passo che noi facciamo lungo il suo percorso di domesticazione, ne diventiamo sempre più dipendenti. Cento anni fa la luce elettrica non esisteva; oggi nessuno potrebbe farne a meno. E quando fra cinquant'anni tutto dipenderà dal funzionamento delle centrali nucleari saremo disposti a credere allo stesso inganno che ci costringe anche oggi alla catena: vale a dire credere che il nucleare sia indispensabile alla nostra vita. Il nucleare, come l'elettricità o la macchina, non è indispensabile alla nostra vita. È indispensabile alla civiltà: a questo enorme e infaticabile processo autoinglobante che sta portando tutti verso la distruzione di tutto.


È questa presa di coscienza che mi sembra importante, non cosa significhi “equilibrio della natura” o se l'idea di evoluzione sia lineare o meno...


D'altra parte, anche in queste considerazioni puramente teoriche, il condizionamento civilizzato che subiamo ogni giorno, silenziosamente, è fin troppo evidente. Il concetto di “linearità”, per esempio, è un concetto tipicamente geometrico, e dunque civilizzato. In natura nulla è lineare; figuriamoci se può esserlo un processo. Nella storia sappiamo bene che diverse popolazioni di raccolta e caccia che si sono dedicate all'agricoltura sono poi tornate alla stato nomade. Questi particolari, però, non incidono su quella che potremmo definire una valutazione generale, la quale ci dice che il processo di civilizzazione è un processo tendenzialmente unidirezionale, condizionante, spinto verso l'autodistruzione.


Lo stesso vale per il concetto di “equilibrio”. È solo la nostra mentalità scientista che lo vede come sinonimo di “perfezione”. Quando dico che la vita paleolitica è stata in equilibrio armonico con la natura per almeno due milioni di anni, non voglio dire che la vita primitiva fosse un Eden. C'erano senz'altro dei problemi, e immagino che fossero anche tanti. Ma erano problemi rapportati alla capacità che gli umani hanno di affrontarli e (sperare di) risolverli. Messi di fronte ad un leopardo ci si può sempre nascondere (se si sa correre in fretta), si può sempre tentare di salire su di un albero (se ci si sa arrampicare), si può anche affrontarlo (se si è forti della propria prestanza fisica e del proprio corpo). Naturalmente si può fallire nell'intento di salvarsi, ma non si è totalmente in balìa del pericolo. Oggi, invece, i problemi che ci sono gettati addosso dal mondo artificiale nel quale sopravviviamo sono per lo più irrisolvibili da noi stessi: cosa possiamo fare contro l'ecatombe rappresentata da quella marea di petrolio che sta fuoriuscendo dalle piattaforme della BP nel Golfo del Messico e che sta trasformando il mare in un mortorio? Cosa possiamo fare contro lo scoppio di un reattore nucleare (ogni anno sono centinaia gli incidenti nucleari in tutto il mondo)? Cosa possiamo fare contro il fatto che l'economia contempli l'esistenza di cicliche crisi monetarie? Nulla. Abbiamo trasformato un mondo a “misura di Natura” in un mondo alieno a noi stessi e alla Natura, e quello che possiamo fare ora è solo subirne le conseguenze; oppure cercare di riportare il mondo a “misura di Natura”. Io non vedo altre soluzioni praticabili.


La vita non-civilizzata non era un Eden, ma era una vita che valeva la pena vivere perché ogni individuo disponeva di se stesso e non era stato privato delle proprie abilità di genere e messo alla mercé di una macchina o delle decisioni dello specialista di turno o di un governo. Noi non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo civilizzato abbiamo perso l'uso dei piedi. Se ci togliamo le scarpe non siamo più in grado di muoverci.... Noi non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo civilizzato non siamo più in grado di provvedere autonomamente alla nostra sussistenza: non riusciamo più a riconoscere una pozza d'acqua potabile da una inquinata; non riusciamo più a distinguere un fungo velenoso da uno commestibile; non siamo più in grado di proteggerci dal freddo, di difenderci da soli, di riconoscere bacche, radici e altri vegetali indispensabili al nostro nutrimento... Siamo insomma diventati dei “disabili”. Com'è stato scritto, nel mondo civilizzato “siamo come dei polli in batteria: se si interrompe il flusso di mangime lo scenario è il collasso”. E più diventeremo dipendenti dal flusso di mangime, più saremo costretti ad accettare le decisioni, le regole, gli abusi e le restrizioni di chi controlla e gestisce questo flusso. Detta molto più concretamente, tanto più diventeremo dipendenti dai processi tecnologici del mondo civilizzato, tanto più ci faremo irretire dai proclami ideologico-religiosi della destra o della sinistra parlamentare, tanto più ci diletteremo nelle speculazioni teoriche fini a se stesse invece di organizzare la Lotta quotidiana contro le cause della nostra prigionia (la civiltà), quanto più ci allontaneremo anche solo dalla capacità di immaginarlo un mondo diverso... E lo dico, carissimo amico, senza alcun intento polemico, ma solo perché questa è la mia principale preoccupazione: che a forza di artificializzarci silenziosamente, di separarci con leggerezza dalla vita vissuta, di recitare la parte dei polli in batteria subordinando la realtà reale a quella virtuale, si arrivi a perdere anche solo la capacità di immaginarlo un mondo naturale nel quale tornare a vivere. È in questo senso che spero che il mio libro possa essere di aiuto a qualcuno.



SULL'INTERVENTO DI GAETANO ED ELISA

Carissimi, vi risparmio ogni convenevole essendo del tutto chiaro che ho sinceramente apprezzato la stima che mi avete espresso a parole.


Il fatto che si possa fare un uso strumentale di un pensiero o di una analisi (tanto più se raccolta in un testo) non è certo un problema che nasce con il mio libro. Sono perfettamente d'accordo con voi quando dite che la Rivoluzione non si fa con gli incensi e le preghiere, ma realizzando attività e iniziative concrete. Credo però che vada precisato che queste iniziative concrete debbano mettere in discussione il sistema di valori che si vuole “rivoluzionare”, non legittimarlo indirettamente. Se pensiamo che la Sinistra parlamentare sia diversa dalla Destra, e vediamo come un “problema” il fatto che la Sinistra perda consensi tanto da doverla sostenere elettoralmente, non stiamo mettendo in discussione nulla del sistema in cui oggi viviamo, quello cioè che ci espropria delle nostre abilità di genere per metterci al servizio della tecnologia, dell'economia, dell'esperto di turno o del governo. Che cos'è un politicante (di destra o di sinistra) se non uno specialista che dovrebbe occuparsi della nostra capacità di pensare gestendo la vita di tutti? Cosa cambia nella sostanza (e sottolineo nella sostanza) se ai comandi della devastazione del mondo si trova Berlusconi o Bersani? Il governo progressista americano di Obama ha forse messo in discussione la logica militare che ne fa lo Stato dominante al mondo? Ha forse cessato di sostenere quel sistema truffaldino che ci tiene al guinzaglio e che chiamiamo Economia? Si è forse impegnato per combattere la mentalità tecnologica che sta riducendo il mondo ad un grande schermo con la massima risoluzione d'immagine?


È ovvio che essendo ogni persona diversa dall'altra, anche ogni partito (che è solitamente composto da persone) sia diverso dall'altro. Ogni partito, infatti, utilizza pratiche e sistemi d'imbonimento differenti. Ma il problema è che queste pratiche e questi sistemi sono finalizzati TUTTI allo stesso obiettivo: governare, dirigere, amministrare gli altri; imbonire insomma! E per quanto le attività dei diversi politicanti possano apparire caratterizzate da metodologie differenti (e spesso lo sono, non c'è dubbio), si iscrivono tutte quante nella stessa logica di soggezione e dominazione. Non c'è alcuna possibilità di fare diversamente: se si vuole governare qualcuno lo si deve sottomettere, costringere (se non si adegua spontaneamente) e punire (se si ribella). Governare è un po' come mettersi ai comandi di un computer. Come ogni persona che si siede davanti al computer fa tutto quello che si deve fare per accenderlo e per entrare nei relativi programmi, anche ogni politicante che si siede ai comandi di un dato Paese fa tutto quello che si deve fare per amministrarlo secondo i valori del mondo civilizzato in cui vive e che lo ha messo in carica: sostenendo l'economia, la tecnologia, la cultura, la paura, la pratica del dominio.


Quante rivoluzioni si sono susseguite nella storia della civilizzazione? Eppure quel processo distanziante e reificante che chiamiamo civiltà continua a procedere indisturbato inglobando tutto e tutti. Perché? La risposta mi sembra semplice: perché mai nessuna rivoluzione ha messo veramente in discussione il paradigma del mondo civile, né i suoi valori di fondo. Ogni rivoluzione, in realtà ne ha semplicemente legittimato i presupposti di base, rinnovandoli e perpetuandoli: ha cioè sostenuto l'economia, ha fatto leva sulla tecnologia, ha usato la paura e la cultura per ammansire, ha preservato l'ideologia antropocentrica e la conseguente logica del dominio (sulla Natura e sulla nostra natura), ha sostenuto e difeso il principio della divisione del lavoro e della specializzazione. Insomma: ogni rivoluzione, invece di operare per ottenere che il mondo tornasse a diventare un mondo a “misura di Natura”, lo ha invece conservato e così com'è anche oggi: a “misura di Sistema”. Di conseguenza ogni singolo essere vivente è sempre stato tenuto lontano dalla possibilità di determinarlo.


Come si diceva all'inizio del blog, nel mondo in cui viviamo non contano le Persone, né le Relazioni, né i Soggetti; conta l'Economia, la Tecnologia, la Cultura... In una parola sola: il Sistema. Se è il Sistema ciò che conta, è il Sistema che occorre preservare, e noi tutti diventiamo funzionali a questa priorità. Se oggi siamo stati trasformati in ingranaggi di questo Grande Meccanismo che ci sovrasta, che si nutre di noi, che ci usa e ci consuma fino allo stremo per poi buttarci tra i rifiuti quando non siamo più Efficienti e diventiamo “vecchi”, è solo perché nel mondo civilizzato ciò che conta è appunto il Sistema (la Megamacchina).


Nei fatti, lo vediamo bene quotidianamente, la nostra vita non è più nelle nostre mani, ma in quelle dei politicanti (e del loro racket del consenso), dei medici (e del loro business sulle malattie), degli economisti (e dei loro ricatti monetari), dei tecno-scienziati (e delle loro manipolazioni genetiche che hanno raggiunto anche la vita umana)... Dobbiamo allora riportare la nostra vita nelle nostre mani! Prima lo faremo, prima fermeremo la catastrofe. Ogni altra soluzione di ripiego rimarrà una soluzione di ripiego.


Carissimi Gaetano ed Elisa, io ho grande considerazione umana per le posizioni che avete espresso, ma vi chiedo: pensate davvero che la raccolta differenziata dei rifiuti possa cambiare la struttura del mondo civilizzato? Senza voler polemizzare sul fatto che ogni raccolta differenziata viene poi compromessa nei fatti all'atto del conferimento dei rifiuti nell'inceneritore (e che dunque raccolta differenziata di rifiuti vuol dire anche inceneritore...), sono assolutamente convinto che l'ammasso di rifiuti che produciamo ogni giorno non sia il problema, ma il sintomo del problema. Non sarebbe più opportuno, allora, cominciare a chiederci perché produciamo tanti rifiuti? Vedremmo che il problema ci porterebbe dritti dritti alla questione del consumismo, il quale trova la sua giustificazione nell'industrialismo che ha un senso solo in un mondo in cui non contino le persone ma le cose, la circolazione delle cose, l'amministrazione delle cose, la ricchezza delle cose... Pensare di risolvere il problema dei rifiuti preservando la logica che li produce, mi sembra semplicemente senza senso.


D'altra parte, che tira le fila di questo universo in decomposizione sa bene come preservare il proprio potere, anche senza impedire (formalmente) le critiche verso di sé: basta semplicemente far confluire ogni opposizione sugli “effetti” del problema invece che sulle sue “cause”, e il gioco è fatto. Invischiati nel terreno melmoso della critica degli effetti, ci animiamo a stabilire come smaltire, controllare, ridurre, spostare, vietare, nascondere... E intanto le cause del nostro costante immiserimento restano intoccate e tutto prosegue come sempre: democraticamente indisturbato...


La scienza medica è maestra in quest'arte del non risolvere i problemi. Essa, infatti, c'insegna proprio ad occuparci degli effetti delle malattie. Abbiamo la febbre? Bene, la febbre va eliminata... Peccato che la febbre non sia la causa della malattia ma un suo effetto, un sintomo appunto. In sostanza, la febbre ci dice che c'è qualcosa che non va nel nostro organismo, e sta a noi cercare di capire quale sia il problema per poi tentare di rimediare.


Allo stesso modo noi guardiamo ai mali del mondo cercando soltanto di contenerne gli effetti. Sono i governi (di ogni colore possibile), i magnate dell'industria, gli scienziati, i “tecnici” che ci insegnano così. Pensiamo soltanto al meeting di Copenhagen del Dicembre 2009 dove i Grandi della Terra si sono riuniti per parlare di limiti all'inquinamento mondiale. Porre limiti all'inquinamento mondiale è come operare per cercare di abbassare la febbre. L'inquinamento, infatti, è il sintomo di un problema a monte: c'è qualcosa che non funziona nel nostro sistema, tanto è vero che esso produce inquinamento (sintomo). Finché ci occuperemo di porre limiti all'inquinamento (e non di lottare per ritornare ad un mondo che non produce inquinamento), l'inquinamento resterà giustificato e non scomparirà...


Se siamo malati dobbiamo guardare alle cause della malattia, non preoccuparci soltanto di nasconderne (o ridimensionarne) i sintomi. Buttare la spazzatura sotto il tappeto non renderà la stanza pulita e, a forza di buttare spazzatura sotto il tappeto, la stanza è ormai diventata talmente satura che sta per scoppiare... Vogliamo continuare a cercare un nuovo tappeto?


Pensiamo al gravoso problema del traffico aereo. Voi stessi lo avete giustamente sollevato come un problema prioritario. Pensate davvero che questione si risolva “riducendo sensibilmente il numero di voli”? E il rumore? E le rotte di animali che pregiudica ogni aeroplano?E il problema delle scie chimiche? E lo sfruttamento (umano e ambientale) che si cela dietro alla costruzione di un aereo?


Ancora una volta ciò che prevale nel nostro modo di vedere le cose è la prospettiva antropocentrica. A noi degli uccelli migratori non ce ne frega un fico secco. Sai te! Per due stupidi volatili! Quello che non capiamo è che la nostra vita dipende anche dal volo di quei due “stupidi” volatili. E se bloccheremo quel volo, indirettamente faremo del male anche a noi stessi. Perché nel mondo in cui viviamo non siamo delle isole: tutto è interconnesso. E se anche la civiltà ci insegna a percepirci come elementi separati dal tutto (e dominanti), noi in realtà restiamo parti di questo tutto inscindibile, ed ogni rotta migratoria che impediremo, ogni terreno che lastricheremo, ogni fiume che contamineremo, ogni animale che vivisezioneremo, ogni pianta che abbatteremo, sarà un po' di vita che togliamo anche a noi stessi.


Purtroppo è la nostra mentalità civilizzata che non ci consente di vedere ciò che abbiamo visto per milioni di anni (quando vivevamo da non-civilizzati). Noi continuiamo a concepirci come i dominatori della Natura, come che la Natura fosse appunto una landa insignificante posta al nostro servizio. Noi non ci rendiamo conto che tutto è legato al tutto, e che noi non siamo i padroni di nulla. Come diceva Ishmael, il saggio gorilla protagonista dell'omonimo romanzo di Daniel Quinn, non è il mondo che ci appartiene, siamo noi che apparteniamo al mondo. E fin tanto che la nostra mentalità non tornerà ad essere come quella primitiva (che ben comprendeva invece questo assunto di interconnessione), noi continueremo a distruggere, a devastare, a inquinare, a deforestare, a sopprimere, a uccidere... a norma di legge. Magari con un bel provvedimento ecologico della sinistra parlamentare al governo che ci spiegherà che è finita l'era dell'Economia classica (quella brutta e capitalistica) ed è cominciata l'era della Green-Economy: quella pulita, rinnovabile, sostenibile... quella “verde” insomma, come sono verdi i dollari che la giustificano...


Come dicevo all'inizio, non voglio apparire polemico, e vi debbo anzi ringraziare sentitamente per l'intervento perché mi consente di esprimere ciò che penso. Se insisto dunque nel far riferimento alla vostre parole non è per pedanteria, ma perché mi paiono colme di spunti di riflessione. Dite che è meglio la politica dei “piccoli passi”, quella del “meno peggio”.


Il problema, a mio avviso, è che la politica dei “piccoli passi”, imponendo di destinare le poche energie che abbiamo all'obiettivo del “piccolo passo”, tende a fare perdere di vista il fine generale. Faccio un brevissimo esempio storico per rendermi meglio comprensibile.


Sul finire dell'Ottocento, in Italia, dopo anni di discussioni e confronti sempre più accesi, i socialisti rivoluzionari si separarono dai socialisti riformisti i quali, nel 1892, confluirono poi nel Partito Socialista Italiano (PSI). I socialisti riformisti ritenevano che la lotta politica (per un mondo di liberi e di uguali) dovesse farsi a “piccoli passi” anche entrando nelle istituzioni per combatterle dall'interno, e sostenevano la necessità di presentarsi alle urne. I socialisti rivoluzionari (gli anarchici, tanto per intenderci), ribadivano invece che questo stesso obiettivo (una società di liberi e di uguali) potesse essere raggiunto solo evitando di passare per il tramite di un governo socialista (che sarebbe diventato ben presto un governo come tutti gli altri), e operando al contrario tra la gente, per una diffusa sensibilizzazione sulle problematiche di volta in volta portate all'attenzione pubblica. Ritenevano, insomma, che la battaglia politica dovesse farsi fuori dalle istituzioni, senza compromessi; e questo proprio per evitare di essere fagocitati dalle istituzioni stesse e trasformati in strumento del potere.


I socialisti riformisti si presentarono alle urne (1882) e riuscirono anche ad eleggere un loro deputato (il bolognese Andrea Costa, ex anarchico approdato alla causa dei “piccoli passi”). Grandi esultanze celebrarono questo evento e mentre gli anarchici continuavano a guardare la svolta con preoccupazione, continuavano anche a ribadire il fatto che aspirando ad entrare nelle istituzioni, i loro compagni socialisti riformisti avrebbero prima o poi perduto l'orizzonte dell'obiettivo finale (una società di liberi e di uguali) per occuparsi di istituzioni, con tanto di possibile scalata al potere (alla faccia dei liberi e degli uguali). Non ho bisogno di andare oltre nel riportare i fatti storici e per dimostrare quanto avessero ragione gli anarchici. Tutti sappiamo come sono andate le cose nei cento anni successivi, con il PSI al governo e con Craxi (e le sue ruberie) in testa a tutte le disillusioni dei socialisti riformisti.


Una volta cambiato l'obiettivo (da quello “generale” a quello del “piccolo passo”), si finisce di solito con lo smarrire l'obiettivo originario per perseguire l'altro.... fino a perdersi del tutto. Oggi, tanto per concludere l'esempio di sopra, sappiamo che la parte storica del PSI appoggia addirittura la destra berlusconiana e fa parte dei partiti fascisti che guidano il governo fascista del “condottiero” Silvio...


A me pare che l'accettazione della politica dei “piccoli passi” non sia altro che il sintomo di una resa, e la resa porta inevitabilmente alla sconfitta. Purtroppo, lo dico guardando prima di tutto a me stesso, cadere nella trappola dell'arrendevolezza è molto facile nel mondo iper-controllato e addomesticato in cui sopravviviamo. La civiltà, insomma, ci costringe quotidianamente a una vita talmente addomesticata e servile che anche i nostri atteggiamenti tendono a farsi sempre più docili. In questa resa alla conformità dimentichiamo solitamente che oltre alla Libertà (valore di cui si fa sempre un gran parlare, politicamente) esiste anche la Dignità. Nel mondo dell'utilitarismo, delle attenzioni al “proprio orto”, delle preoccupazioni individualistiche, non siamo più in grado di fare battaglie per affermare la dignità dell'esistere. Ci accontentiamo appunto del meno peggio, del pochino che c'è, di quello che si può ottenere subito, dimenticando che quello che si può ottenere subito spesso non è ottenuto ma concesso. E dico questo con molta amarezza, perché tutti ne siamo vittime. Eppure, basta che ci tocchino nell'amor proprio, perché si reagisca come degli individui liberi e dignitosi, dimostrando quanto la politica del “meno peggio” sia solo un arrendersi all'imperativo del non-voler-cambiare-nulla. Un esempio, che prenderò dallo scaffale dei paradossi, credo possa rendere ancor più chiaro il mio ragionamento.


Poniamo che un giorno si presentasse alla nostra porta un energumeno in divisa che ci notificasse questa deliberazione inquietante: “Da oggi, è stato deciso che Lei debba prendere dieci ceffoni al giorno. Passerò io stesso ogni mattina alle 8:30 per malmenarla a dovere!” Cosa faremmo di fronte ad un simile arbitrio? Ci metteremmo forse al lavoro per cercare di ottenere che quel bruto si accontentasse di rifilarci “solo” otto ceffoni al giorno, o pretenderemmo di non essere toccati? Sono convinto che la nostra dignità ci comunicherebbero subito di fare il possibile per evitare di essere picchiati. Eppure, chi contesterebbe che prendere otto ceffoni sia meglio che prenderne dieci?


Ognuno, ovviamente, è libero di fare ciò che vuole della propria vita, ma sono convinto che se fossimo messi in quella situazione cercheremmo istintivamente di batterci per ottenere che nessuno ci possa malmenare per decreto. Potremmo anche fallire nell'impresa, non vi è dubbio, ma tra la scelta di una vita servile votata alle botte mattutine nella misura legale e la prospettiva viva di non essere picchiati, la gran parte di noi opterebbe per la via della libertà-dignità. E non ci interesserebbe sapere che, scientificamente parlando, otto ceffoni al giorno rifilati ad un individuo della nostra età non supererebbero il margine massimo di tollerabilità allo schiaffo del cervello umano, e dunque i danni di quelle botte non si ripercuoterebbero immediatamente sulla nostra salute. Non vorremmo essere picchiati, punto e basta!


Lottando per una economia verde, per una tecnologia a basso impatto ambientale, per una politica democratica, per la raccolta differenziata dei rifiuti, per la riduzione del numero di voli aerei, non facciamo altro che lottare per ottenere solo otto ceffoni.


Naturalmente, questo mio esempio è solo in apparenza paradossale. Perché i ceffoni, in realtà, li riceviamo per davvero. Solo che non ci vengono stampati direttamente sulla faccia: ci arrivano per interposta persona, attraverso la quotidiana soppressione del vivente e la distruzione del mondo naturale. La Natura, cioè, continua a prendere migliaia di ceffoni al giorno (tanto da essere sull'orlo del collasso) e noi, cosa possiamo fare? Investire le nostre energie per ridurre di un po' il numero delle botte?

Io non ho pretese di convincimento di nessuno. E rispetto le vostre opinioni e di chi la vede diversamente da me. Non sarò però al fianco di chi, consapevolmente, operi per legittimare questo mondo di sfruttamento e di morte. Io voglio impegnare le mie energie affinché la Terra, le Persone, gli Animali, la Vita non la si tocchi più! E il mio riuscire nell'intento credo dipenda anche dalla volontà e dall'azione di tutti coloro che non abbiano già gettato la spugna...



SULL'INTERVENTO DI GIANFRANCO

Caro Gianfranco,

sta nell'ordine delle cose che opinioni, valutazioni o teorie non appaiano convincenti a qualcuno. Ed è un peccato che non ci siano state persone capaci di immaginare qualcosa di “meglio” sul perché delle origini dell'agricoltura. Anche la tua teoria, del resto, per quanto suggestiva, non mi pare risolutiva. Se tutto fosse nato dal manifestarsi di una paura nel contatto emotivo e dal fascino per il potere, non si spiegherebbe perché l'agricoltura si sarebbe sviluppata solo a partire da diecimila anni fa, in tanti contesti differenti e privi di contatti reciproci (Mezza luna fertile, piuttosto che Valle dell'Indo; Nuova Guinea piuttosto che Antica Cina), e in un periodo di tempo limitatissimo, compreso appunto tra i diecimila e i cinquemila anni or sono (per ultime “arrivarono” le Americhe appunto cinquemila anni fa). Insomma, perché solo in quel periodo e non in un altro, in quel ben più esteso arco temporale di due milioni di anni di vita paleolitica? Se tutto fosse dovuto ad un “rincoglionimento” di qualcuno, perché questi tanti “qualcuno”, che non avevano contatti tra loro ed erano separati da migliaia di chilometri di distanza, rincoglionirono tutti insieme in quei cinquemila anni e non prima?


D'altra parte, la tua tesi presuppone anche una sorta di “perfezione esistenziale assoluta” (paradiso terrestre lo chiami tu) che precederebbe l'avvento della civilizzazione giustificando l'esistenza dei raccoglitori-cacciatori. In realtà, se è vero che i genitori di un cucciolo di essere umano fanno inevitabilmente degli errori nel crescere la prole, questo valeva anche per i raccoglitori-cacciatori del Paleolitico (che pure erano esseri umani), i quali però non indulsero all'agricoltura per almeno due milioni di anni. E comunque, anche i raccoglitori che ancora oggi resistono alle incursioni genocide del mondo civilizzato fanno certamente degli errori nel crescere i loro piccoli; ciò nonostante, le loro comunità continuano a crescere in un contesto armonico, gratificante, sereno, invidiabile, e non “rincoglioniscono”...


Non credo che la causa della nascita dell'agricoltura sia dovuta alle regioni che hai immaginato, e continuo a ritenere decisamente più plausibile la causa religiosa (seguita allo sviluppo della cultura simbolica). Su di una cosa, però, concordo perfettamente: come dici tu, “quali che siano le ragioni dell’iniziale svolta, dobbiamo accettare che i vasi sono già rotti e dobbiamo lavorare sui cocci per fare ciò che è possibile oggi”. Questo mi sembra il vero problema sul quale riflettere, discutere, agire.

Enrico

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