Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 30 gennaio 2010

Diritti, sentimenti e responsabilità


Consideriamo queste due espressioni:
a) “essere buoni con gli altri non serve a nulla!”
b) “quando serve aiuto gli altri non ci sono mai!”.
Frasi di questo tipo sono molto comuni nelle conversazioni quotidiane e incontrano sovente un assenso complice, perché esprimono una filosofia inconsapevolmente accettata da molti che, a sua volta, riflette atteggiamenti ed emozioni irrazionali (pretese, rancori vittimistici, ecc.) abbastanza comuni. Tali emozioni sono spiacevoli, ma anche “comode”, nel senso di “meno spiacevoli di un contatto autentico con la realtà”. Il fatto che alcune elaborazioni filosofiche di queste convinzioni siano state molto sofisticate, non rende tuttavia più razionali tali convinzioni: un’assurdità complicata non è meno assurda di un’assurdità rozza.

La prima frase (a) presuppone che i comportamenti altruistici debbano essere ricambiati e la seconda frase (b) presuppone che chi è in una condizione di bisogno debba ricevere aiuto.
Entrambe queste presupposizioni manifestano un errore logico, che viola la cosiddetta “legge di Hume”. Infatti, David Hume ha mostrato che da enunciati descrittivi non si può mai ricavare alcuna conseguenza prescrittiva. L’affermazione “sono innamorato della Pina e quindi lei mi deve amare”, che è la versione elegante di “Io amo la Pina, ma quella stronza se ne frega!”), manifesta un vizio logico. Violano quindi la logica le accuse fatte dagli “amanti” gelosi, o dagli “amici” pretenziosi, o dai maniaci dei legami di sangue dediti regolarmente a recriminare sull’egoismo dei parenti.

La “legge di Hume” viene regolarmente violata perché, se rispettata, ci costringe ad accettare dei fatti dolorosi, come appunto quello di non essere ricambiati (come vorremmo) nei nostri sentimenti o nei comportamenti con i quali abbiamo manifestato generosità (vera o finta).
Tutta la logica, costringendoci a ragionare correttamente sui fatti, che spesso sono dolorosi, minaccia la nostra pretesa di “star bene” come dei bimbi a Disneyland. Ci sono però ambiti della logica più “rischiosi di altri” sul piano emozionale. Il principio del terzo escluso (secondo cui di due proposizioni contrarie solo una può essere vera) disturba meno della legge di Hume. E’ certamente spiacevole ammettere che se è vero che “solo lavorando si riceve lo stipendio”, non è vero che uno stipendio possa arrivare anche senza fare nulla. Tale dolore, però, è abbastanza tollerabile. La legge di Hume, invece, è davvero un incubo, perché taglia le gambe a qualsiasi pretesa e quindi all’illusione di aver diritto alla vita che desideriamo. Demolisce l’idea di “avere” dei diritti.

Scrive Alessandra Facchi in un suo pregevole saggio (2007): “Il termine ‘diritto’ in senso soggettivo, come attributo della persona, viene utilizzato in vari ambiti: fondamento morale, rivendicazione sociale, contrattazione politica, formulazione e applicazione delle norme giuridiche. In ciascuno di questi ambiti ha usi differenti che tuttavia si sovrappongono, si influenzano e sono riconducibili ad un’unica matrice” (pp. 11-12). Si ricava da questa definizione l’aspetto rivendicativo (o di pretesa) che caratterizza un diritto. In ciò sta la differenza fra la domanda “mi offri un caffè?” e la pretesa “Questa volta tocca a te offrire il caffè!”. Non ci sono leggi scritte sul tema, ma nel secondo caso la persona non “chiede” e, se esaudita, non ringrazierà, dato che ritiene che dopo aver offerto più volte un caffè abbia il diritto di essere invitata a sua volta. Di fatto, però, questa convinzione non ha fondamento, perché si basa sul desiderio di una reciprocità che potrebbe semplicemente non esserci. La persona in questione può piuttosto smettere di offrire caffé!
L’idea che “nell’ordine delle cose” certi comportamenti (soprattutto quelli degli altri!) siano obbligatori, è una teoria più assimilabile a quella di Babbo Natale che alla legge di gravità. Presupponendo che “nelle cose” ci sia un dato ordinamento, ci si arroga il diritto di pretendere, cioè di agire con rabbia per avere una cosa “dovuta”, che in realtà è “voluta”, ma non garantita. E che, al contrario, è affidata alla libertà delle altre persone.

Sempre la Facchi ci riporta con i piedi a terra, riconducendo il discorso dei diritti a norme effettivamente “date”: “Dire che qualcuno ha un diritto significa dire che ha delle aspettative giustificate da una regola o da un accordo precedente che qualcun altro tenga un determinato comportamento. In generale, ‘diritto’ indica una pretesa di qualcuno rispetto a qualcosa –di un soggetto nei confronti di un altro soggetto o più soggetti- ma non di una qualsiasi pretesa, bensì di una pretesa giustificata. La pretesa che dà contenuto al diritto si fonda su di una norma o su un ordinamento, cioè su di un insieme di norme. In questo senso può dirsi una pretesa legittima” (op. cit. p. 12). Queste considerazioni, ben articolate ma decisamente elementari, sono purtroppo tutt’altro che scontate nelle interazioni quotidiane fra persone, proprio per la presenza di istanze affettive e per il timore di dover gestire situazioni non corrispondenti a ciò che si desidera.

Il dolore (l’emozione che corrisponde all’accettazione di un fatto che frustra i nostri desideri), non è un’emozione “di successo” e ha pochissimi “tifosi”. Normalmente le persone preferiscono provare rancori irrazionali, stupide gelosie, angosce terrificanti, “insicurezze”, “timidezze”, piuttosto che confrontarsi con il fatto indiscutibile che non possono essere apprezzate (o “stimate”) da tutti, né essere benvolute (o “amate”) da tutti e, in particolare, dalle persone da cui desiderano ricevere stima o amore. Questa “allergia epidemica al dolore” (cfr. il POST Cuccioli umani) è in realtà un “modo di vivere”, una “strategia esistenziale” che le persone, in qualche misura decidono (inconsapevolmente) negli anni più delicati dell’infanzia, perché non vengono sostenute dai genitori nella gestione dei primi dispiaceri e perché, al contrario, fanno, proprio in famiglia, delle esperienze di non accettazione e di non accudimento.

Per evitare l’accettazione del dolore (di tutti i dolori che inevitabilmente accompagnano l’esistenza umana), cioè, per non sentire l’emozione che corrisponde ai propri desideri insoddisfatti, le persone a) “truccano” i desideri oppure b) “truccano” i fatti che non soddisfano i desideri.
Nel primo caso possono negare i desideri (“io non ho bisogno di nessuno!”) e, nel secondo caso, possono ostinarsi a negare i rifiuti (“ha un brutto carattere, ma in fondo mi vuole bene"), o a credere che siano solo temporanei e controllabili (“se mi laureo in astrofisica lei mi amerà!”), oppure … a pensare che certe frustrazioni siano “ingiuste”.

La trasformazione di un fatto (un rifiuto doloroso) in una “azione ingiusta” è una “magia” che non cambia le cose, ma che riesce a cambiare i sentimenti. Niente dolore, ma tanta ansia: “quando il torto sarà riparato?!”. Niente dolore, ma rabbia: “Sei solo una nullità!”).
Quindi, la magia porta rancore, spirito di vendetta, disprezzo, depressione, cioè emozioni “tormentate”, ma non “disperate”. Nel dolore si accetta una perdita e quindi non c’è speranza. Il dolore è l’emozione di chi sa di non poter (purtroppo) sperare. Nelle altre emozioni “tormentate” invece c’è “speranza” proprio perché l’idea di una (presunta) ingiustizia cozza con l’idea di un fatto definitivo. In questo senso i diritti (sia quelli ragionevoli, sia quelli non ragionevoli) tengono aperta la speranza

Quando c’è davvero uno stato di fatto inaccettabile e modificabile, hanno senso l’ansia e la rabbia di chi lotta. Si può fare una battaglia legale o sindacale o politica perché uno stato di fatto non garba e c’è spazio per un cambiamento. Tuttavia, l’ambito delle situazioni da noi non modificabili (che include fatti già accaduti, fatti impossibili e … i sentimenti degli altri) è uno spazio in cui nessuna lotta può produrre dei cambiamenti.
Noi possiamo, con la violenza, e quindi con la rabbia, imporre ad altre persone determinati comportamenti: possiamo determinare un’azione usando la nostra forza fisica (torcendo il polso dell’aggressore lo costringiamo a lasciar cadere l’arma impugnata) o possiamo determinarla con la minaccia di una ritorsione (“se non fai ciò che ti dico ti mollo un cazzotto”).
La pretesa, in fondo, è una “bastonata gentile”. Con la pretesa, arriva al destinatario una squalificazione (un colpo basso, anche se solo psicologico) o una minaccia (di esclusione e di rifiuto). Tali “bastonate” sono manipolative quando riposano su un presupposto inesistente, cioè il “diritto/dovere” (non stabilito) che giustifica (apparentemente) la pretesa. La frase “devi aiutarmi perché voglio intensamente che mi aiuti”, non ha lo stesso effetto della frase “devi aiutarmi perché se non lo facessi ti dimostreresti un essere insensibile e spregevole”. La seconda frase sembra avere un fondamento assoluto, mentre in realtà è fondata, come la prima, solo su un desiderio.

In altre parole, i diritti e i doveri (degli altri) vengono implicati o affermati tutte le volte che non ci si vuole confrontare con la “libertà del sentire” delle altre persone. In modi elementari o sofisticati si giustificano i “diritti” in questione facendo considerazioni “morali” che in realtà sono delle “stronzate” (cfr. il POST Stronzate e analisi filosofica). Come già accennato, le più comuni violano la “legge di Hume”: appena Rino sta per sentire dolore pensando “La Pina non mi ama e non ci posso fare niente”, fa scattare l’allarme rosso e fa partire il missile-stronzata: “la Pina dovrebbe sentire x perché io ho fatto y). Con questa operazione mentale il dolore viene distrutto e Rino sente solo disprezzo per “una stronza” come la Pina. Permane, ovviamente, la “realtà reale” di prima, ma non è più sentita.
In pratica, le persone non violano la legge di Hume per un difetto intellettivo, ma perché hanno paura di sentire il dolore.
In ogni caso, la negazione del dolore comporta uno sforzo costante, così come la negazione della morte: ogni momento di vita vissuta ci avvicina alla morte e ogni dolore è una morte parziale (la perdita di qualcosa, anche se non dell’intera vita). Giustamente Irvin G. Yalom afferma che “Anche se la fisicità della morte ci distrugge, l’idea della morte può salvarci” (2002, p.126).
La realtà è meravigliosa e terribile. Noi andiamo incontro alla realtà con la spinta dei nostri bisogni, dei nostri desideri, delle nostre aspirazioni e a volte la realtà ci accoglie con una carezza, mentre altre volte ci ignora o ci colpisce. La nostra esistenza, nell’infanzia, è una collezione di momenti gioiosi e di momenti dolorosi (nei quali ci serve un sostegno per “reggere” ciò che sentiamo). La nostra esistenza adulta, invece, è un’opera creativa in cui cerchiamo di costruire esperienze gioiose (per noi stessi e per chi amiamo) e in cui impariamo a gestire nel modo più costruttivo (per noi stessi e per chi amiamo) le esperienze dolorose inevitabili. In questo senso, proprio la consapevolezza della morte che ci attende e del dolore che ci accompagna (anche nei momenti più belli) ci consente di vivere in modo costruttivo senza rattrappire l’intensità delle nostre emozioni.

L’enunciato “terribile”, quello che nessuno vuole ammettere è proprio questo: “non abbiamo diritti”. Se diciamo questa frase, chi ci ascolta comincia ad agitarsi, anche se non stiamo affermando che 2+2=10. In tal caso possiamo chiedere al nostro interlocutore in base a quale “diritto” ha campato vent’anni o cinquant’anni più di un bambino che è nato, ha aperto gli occhi e li ha chiusi per sempre. Noi non abbiamo nemmeno il diritto di essere vivi. Figurarsi se abbiamo il diritto di essere allegri o di avere una bicicletta o di essere benvoluti da tanti amici! No: non abbiamo diritto a nulla. La nostra esistenza reale è un’esistenza senza diritti: piena di desideri e di situazioni che costituiscono per noi un dono (e alle quali dovremmo ragionevolmente reagire con un “grazie!”) o che costituiscono una frustrazione (e alle quali dovremmo ragionevolmente reagire con un “mi dispiace!”). Solo alcune situazioni sono incerte e modificabili e ad esse è sensato rispondere con un’attesa ansiosa o un’azione rabbiosa. Per le altre, vale la regola del “grazie/mi dispiace” (cfr. Ravaglia 2000-2006).

Dopo aver chiarito, come spero, questa spinosa questione di cui nessuno ama parlare (compresi gli psicologi), resta da circoscrivere l’ambito in cui il termine “diritto” è applicabile. Tale ambito è quello delle norme condivise, o del diritto. In tale ambito si possono affermare dei diritti. Oggi, fortunatamente, almeno in molti paesi, alle donne è riconosciuto il diritto di disporre liberamente del loro corpo. Non è che tale diritto le renda necessariamente immuni da violenze sessuali, ma le autorizza a reagire con violenza per legittima difesa ad un violentatore, le autorizza a denunciare tentativi di violenza o eventuali violenze subite. Nel medioevo il principio noto come ius primae noctis, (che però vari storici non ritengono fosse realmente applicato), di fatto legalizzava lo stupro e chi era autorizzato a compiere lo stupro era proprio il signore feudale, cioè l’autorità costituita. Quindi si può affermare un diritto (auspicabilmente ragionevole e finalizzato al miglioramento della qualità della vita di tutti) all’interno di una comunità che lo riconosce. Anche la possibilità di far valere un diritto acquisito non ha, però, necessariamente delle conseguenze, dato che occorre sia dimostrare che un diritto è stato violato, sia individuare il colpevole, sia verificare se è possibile “ottenere giustizia” a livello pratico: come è noto, avere dei crediti nei confronti di ditte che “falliscono con i soldi” porta spesso ad ottenere un riconoscimento delle proprie ragioni, ma a non intascare un soldo.
Di come “funziona la giustizia”, si è già parlato nel blog [cfr. il POST I tempi della giustizia e i tempi delle persone e il POST Giustizia e salute]. Per ora basti ricordare che ha senso parlare di “diritti” quando esiste un accordo su certi obblighi.

E qui si arriva alla seconda parte del tema di questo lavoro. Si potrebbe considerare la pretesa di avere dei diritti” solo come un disturbo psicologico individuale, una forma di irrazionalità circoscritta alla sfera della soggettività. Purtroppo non è così. In un “mondo di matti” le ideologie raccolgono sia quel po’ di saggezza, sia quel tanto di pazzia che alberga nell’animo delle persone [cfr. il POST Critica della ragion massificata e il POST L’intolleranza verso “gli altri].
A livello sociale, una delle razionalizzazioni ideologiche più consolidate dell’esigenza di negare il dolore è costituita dal giusnaturalismo (nella sua versione intellettualizzata e nella sua versione “implicita” o “popolare”), ovvero da quella concezione metafisica che, in varie declinazioni, ha affermato l’esistenza di un “naturale” codice dei diritti e dei doveri. Anche se il giusnaturalismo non coincide con la dottrina della chiesa cattolica, trova tuttavia nella filosofia ufficiale della chiesa una delle sue espressioni più compiute e diffuse. Il giusnaturalismo, in tutte le sue versioni stabilisce un fatto in fondo rassicurante (ma non dimostrabile e tanto meno falsificabile): indipendentemente da qualsiasi riconoscimento nell’ambito del diritto positivo (cioè codificato in una data società), vi sono delle norme evidenti perché radicate nell’essenza della “natura” umana.

Per capire la funzione rassicurante di questa filosofia, dobbiamo considerare un fatto doloroso che non è facile da digerire. Noi siamo piccoli coriandoli in un mondo immenso, ma siamo anche interiormente, dei mondi grandissimi, popolati da struggenti desideri, aspirazioni e sentimenti. In questo mondo interiore abbiamo la libertà di agire e la necessità di interagire con persone altrettanto libere e non necessariamente splendide. Ogni incontro è una grande occasione in cui il meglio e il peggio di noi stessi o dell’altra persona può divenire realtà.
Ogni incontro non è “garantito” da nulla, nemmeno dalla nostra buona condotta. Vite impeccabili come quella di Gesù o di Gandhi o di M. L. King sono state stroncate in modo violento, mentre vite miserabili ricevono il plauso di masse entusiaste. Anche sul piano sociale dobbiamo quindi tornare all’inquietudine che la frase d’apertura di questo post ribaltava in rabbia: “essere buoni con gli altri non serve a nulla!” Essere buoni non deve servire a nulla, se non ad esprimere il meglio di sé. Essere buoni non produce “altri risultati” perché è già un risultato (di una scelta). Agire correttamente all’interno di un contratto valido o sotto la protezione di una legge positiva, deve invece produrre certi risultati e, se non li produce, può consentire battaglie ragionevoli e a volte può portare a risultati soddisfacenti.
Fuori dall’ombrello protettivo di un contratto o di una legge c’è spazio per la gratitudine o per il dolore, ma non c’è modo di indurre in altri la bontà agendo bene. Il giusnaturalismo, al di là della sua inconsistenza filosofica (date le sue premesse metafisiche), ha una funzione psicologica (diffusa a livello di massa) “difensiva”, in quanto rassicura su un “ordine” che non è affatto dimostrabile e autorizza a svicolare dal dolore proprio avanzando una pretesa: “tu devi agire così!”. Oppure: “tu dovresti agire così”. O almeno: “anche se fai ciò che vuoi, ciò che fai non è giusto”. Tutto ciò è rassicurante perché è una grande “balla”: non c’è niente di giusto o di ingiusto “naturalmente”, su cui recriminare, mentre, purtroppo ci sono molti comportamenti spiacevoli o addirittura terribili. E difficili da accettare. Dobbiamo ovviamente distinguere il giusnaturalismo “implicito” da quello teorizzato: l’affermazione “devi fare così, altrimenti sei disumano” è rozza, ma rassicurante rispetto ad una delusione personale possibile, mentre l’affermazione “il diritto deve riflettere la legge naturale” è dotta, ma egualmente rassicurante rispetto al fatto che produrre ordinamenti buoni è un nostro compito, una nostra aspirazione in un mondo che purtroppo calpesta sovente la benevolenza.

Proprio la disponibilità ad accettare il dolore rende possibile quella compassione per sé e per i nostri simili che può indurci a reagire costruttivamente: non con la rabbia di pretese infondate, ma con la determinazione necessaria a costruire una vita buona. Tale intento costruttivo (non rabbioso e non psicologicamente “difensivo”) si traduce anche nell’impegno ad elaborare delle norme, a farle accettare dagli altri e a farle valere per tutti. In questa prospettiva, l’alternativa al giusnaturalismo non è il giuspositivismo cioè l’idea di separare nettamente il diritto dalla morale, ma l’impegno a rendere migliore la convivenza sociale e a rendere migliori le norme di tale convivenza. Infatti, “rovesciando il malinteso principio alla base del giuspositivismo, il diritto non è tale in virtù del mero processo normativo, ma perché basato su ben precisi valori, su ben precisi ideali, su ben precise opzioni assiologiche, su una ben determinata cultura” (Alessandro Pizzo, cfr. riferimenti bibliografici).

Da “non giurista” non ho alcuna intenzione di mettere il naso in questioni che professionalmente non so maneggiare e che sono più complesse delle opinioni che potrei (legittimamente) manifestare (fra amici, non in uno scritto) come semplice cittadino.
Ciò che voglio e posso sottolineare è che un filo rosso collega l’irrazionalità individuale a quella sociale. Tale filo rosso collega il gusto privato (perverso) del disprezzo alle varie forme di intolleranza, collega la voglia individuale (assurda) di crudeltà verbale o fisica alle varie forme di violenza sociale, collega l’avidità all’ideologia liberista e alla cultura consumistica, collega la brama soggettiva di certezze rassicuranti e di pretese infondate alle ideologie dogmatiche, metafisiche e anche metafisico-giuridiche.

Sul piano personale, l’accettazione del dolore inevitabile è la condizione per l’impegno a vivere una buona vita [cfr. il POST Crimini di tempo], evitando ovviamente il dolore che è possibile evitare. Il dolore accettato ci rende compassionevoli con noi stessi e quindi facilmente “empatici” e disponibili ad un impegno costruttivo a favore delle altre persone. Il dolore “negato” ci rende depressi, inquieti, concentrati “sul nostro fottuto ombelico” e indifferenti, di fatto, alla persona che realmente siamo e ai nostri simili (vulnerabili come noi). L’accettazione del dolore, quindi, ci rende meno rabbiosi, ma più combattivi, mentre la “lotta al dolore” ci rende inutili a noi stessi ed agli altri.

Sul piano sociale vale ciò che vale sul piano individuale, con le dovute differenze. L’accettazione della nostra assoluta fragilità, della nostra impossibilità di pretendere alcunché e del fatto di non poter contare su alcun “diritto naturale”, non ci rende pecore, ma lupi. “Lupi buoni”, dato che i lupi cattivi esistono solo nelle favole e dato che i lupi veri non combattono mai senza una ragione. L’accettazione della nostra fragilità ci porta a cercare le sicurezze possibili, non quelle immaginarie. Ci porta ad avvicinarci agli altri sull’unico piano sul quale possiamo favorire una loro disponibilità alla collaborazione, cioè sul piano del reciproco rispetto e sul piano di una condivisa dignità.
Roberto Ravi Pinto (cfr. Riferimenti bibliografici) sottolinea che proprio la consapevolezza dell’orrore del nazifascismo ha giustificato dopo la seconda guerra mondiale l’adozione di carte costituzionali “rigide” sul piano dei princìpi: “Ci si accorse cioè che il vecchio dogma della supremazia della legge quale frutto della sovranità popolare doveva essere accompagnato e limitato da un valore più alto: questo valore non poteva che essere la persona umana e la sua dignità. In altre parole, si afferma un’antropologia personalista che diviene misura dell’ordinamento giuridico astrattamente inteso”. E più avanti nello stesso testo, l’Autore afferma che: “il principio personalista può rappresentare un criterio guida per individuare un massimo comun divisore entro il quale il rispetto dell’uomo, di ogni singolo uomo, sia effettivamente il fine generale degli ordinamenti contemporanei”.

E’ il caso di sottolineare che tra Scilla (il giusnaturalismo che concepisce il diritto come un’applicazione di principi inscritti “nella natura”, ed eventualmente interpretati da una chiesa) e Cariddi (il giuspositivismo che tende a far coincidere il diritto con le leggi “positive”, cioè “date”) si può fondare il diritto su valori condivisi (e fondanti per la società) che rispecchiano il cammino da essa compiuto nel suo sviluppo culturale.

Forse può andare in questa direzione, come scrive Gustavo Zagrebelsky l’utilizzazione transnazionale delle giurisprudenze elaborate nei diversi paesi, descritta come “movimento di natura culturale” e non come progetto di una “Costituzione mondiale politica”. Il costituzionalismo, secondo l’Autore “E’ la formazione di un patrimonio comune di principi costituzionali materiali, prodotti nel concorso delle molteplici sedi dove si elabora diritto costituzionale. Si potrebbe parlare, a questo proposito, di ‘federalismo delle costituzioni’, i cui elementi formativi sono non gli stati né i popoli rappresentati dagli stati, ma gli ordinamenti costituzionali che si esprimono attraverso gli organi che li interpretano. La prospettiva è, più che un’unità che incombe, una convergenza da cercare” (p.409).

Anche Selya Benhabib (2002), trattando la (spinosa) questione dei rapporti interculturali sostiene un modello “universalista” in alternativa al multiculturalismo inteso come “pluralismo giuridico che permetterebbe la coesistenza di sistemi giurisdizionali per tradizioni culturali e religiose differenti” in società “con forti frizioni etniche, culturali e linguistiche” (p.41). L’autrice sottolinea “l’imperativo pragmatico di capirci l’un l’altro (…) non perché sia necessario appellarsi a una qualche teoria filosofica essenzialista della natura umana, ma perché la condizione di interdipendenza planetaria ha creato una situazione di scambio, influenza e interazione reciproci di portata mondiale” (p. 62).

Espressioni come “convergenza da cercare” e “imperativo pragmatico”, che ricorrono in queste due ultime citazioni evidenziano la ragionevolezza di una concezione del diritto (e quindi di una fondazione dei diritti) basata sulla determinazione a costruire un mondo equo, cioè sull’assunzione di responsabilità nella definizione dei principi guida della convivenza fra le persone nella società. In questo senso, i diritti umani non sono qualcosa di “dato”, ma sono ciò che le persone e gli Stati hanno la responsabilità di affermare e poi di tutelare.

Noi non abbiamo diritti. Non abbiamo nemmeno il diritto di essere vivi. Chi non è d’accordo ha voglia di sognare, non ha rispetto per l’aspetto tragico dell’esistenza umana e in fondo non ha nemmeno voglia di riconoscere i termini esatti (scomodi) in cui ha senso una (doverosa) lotta politica per l’affermazione di importanti diritti umani. L’AFFERMAZIONE dei diritti è una cosa diversissima dall’ (immaginario) “RICONOSCIMENTO” di tali diritti “naturalmente dati”.

In questa prospettiva, l’affermazione di specifici diritti è uno degli aspetti principali dell’impegno politico, perché l’affermazione di un diritto umano modifica la società rendendola responsabile della tutela delle persone in tutti i casi in cui tale diritto viene leso.

A questo punto, merita di essere ricordata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che fa parte dei documenti di base delle Nazioni Unite e può essere intesa come una tappa fondamentale del cammino di consapevolezza dell’umanità.
Nel Preambolo, è scritto quanto segue:
“L’Assemblea generale proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”.

Tale testo, nella misura in cui “proclama” una dichiarazione che verte sui diritti umani mostra di voler AFFERMARE tali principi (ovviamente più che condivisibili) e non di “riconoscerli” come “esistenti” in un’ipotetica “natura” umana. Li afferma come obiettivo da perseguire e da garantire.
L’assemblea, in altre parole si è assunta la responsabilità di ciò che affermava e non si è arrogata una (insostenibile) “particolare capacità interpretativa (speciale) di un preesistente libro della natura (umana)”.

Una concezione speculativa, “naturalistica” dei diritti è irrazionale e nasce dalla paura di accettare (e quindi dal rifiuto di accettare) l’esistenza della morte, del dolore e della nostra debolezza rispetto alla libertà degli altri. L’idea “privata” di poter pretendere come “giuste” delle gratificazioni è un’idea consolatoria. Lo è pure quella e l’idea “pubblica” (ideologizzata) di rientrare in un ordine naturale in cui il dolore è comunque spiegato e compensabile e in cui è legittimo pretendere “giustizia” quando la libertà degli altri non soddisfa le nostre aspettative. La giustizia è un obiettivo, un’aspirazione, la ragione di un impegno condiviso e non una realtà “data”.
La rinuncia alle idee consolatorie ci fa sentire più fragili, ma ci rende anche più forti, perché più consapevoli della delicatezza del nostro “mondo interno”, più rispettosi di noi stessi e quindi delle altre persone che, essendo simili a noi, possono essere considerate altrettanto importanti. Paradossalmente la consapevolezza della nostra fragilità è ciò che favorisce la determinazione ad affermare i nostri diritti e quelli delle altre persone.

Gianfranco


Riferimenti bibliografici

S. Benhabib (2002), La rivendicazione dell’identità culturale, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2005

A. Facchi (2007), Breve storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna

G. Ravaglia (2000-2006, raccolta di quattro saggi), Perché le persone fanno ciò che fanno,
http://risorse-psicoterapia.org/Per.fanno.RIS.htm)

R. Ravi Pinto, Legalità e dignità dell’uomo, in http://www.dialettico.it/ nella sezione Opinioni).

A. Pizzo, Frammenti di antropologia del diritto, in http://www.dialettico.it/ nella sezione Argomenti).

G. Zagrebelsky, 2008, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna

I. D. Yalom, 2002, The Gift of Therapy, HarperCollins Publishers Inc. New York, 200


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