Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 14 febbraio 2010

Bambini politici?


"Non è un'idea ... è un'altra cosa; è come far parte di una cosa più grande di te … come una canzone cantata da molte persone. Non credo di essere in grado di spiegarlo".
(Sydney Pollack, Havana)

“La gente non beve la sabbia perché è assetata. Beve la sabbia perché non conosce la differenza”.
(Rob Reiner, The American President)


1. Questo post, che ho riempito di riferimenti cinematografici, in realtà riguarda un problema piuttosto “pesante”: il difetto essenziale e ineliminabile della democrazia. Non si concluderà, ovviamente, con una critica della democrazia, ma con alcune riflessioni semplicemente sensate e proprio per questo incomprensibili a tante persone anche colte o politicamente impegnate.
Nella prima citazione, una donna paragona il suo impegno politico ad un canto corale ed il suo innamorato non capisce. Nella seconda citazione, l’idea dell’incapacità di distinguere l’acqua dalla sabbia da parte di persone assetate è un’idea inquietante che però spiega il motivo per cui le tecniche marketing applicate alla politica funzionino, perché nessuno si scandalizzi se in un talk show la par condicio conceda a un idiota e ad una persona seria o semplicemente ragionevole due fette uguali della torta del tempo disponibile. Individui come Hitler, capaci di esprimere solo le escrescenze tragicomiche del loro carattere hanno calamitato la fiducia di milioni di persone. E quando oggi diciamo che negli Stati Uniti un uomo semplice, sensibile e capace di esprimere valori umani ha ottenuto la maggioranza dei voti, trascuriamo il fatto che ha vinto le elezioni per pochi punti percentuali. Quasi metà dell'elettorato non lo voleva. Perché tanta gente beve la sabbia ed è pure contenta?

Farò un giro ampio per arrivare al punto e partirò da alcuni film abbastanza conosciuti per disporre di tutti gli elementi necessari per lo sviluppo del tema.

Partiamo dal film Gli anni in tasca (1976), di Francois Truffaut. Storie di bambini che intersecano storie di adulti. Adulti spesso indifferenti e sbrigativi nei confronti dei figli o degli scolari e a volte anche insofferenti e violenti. Il più sfortunato di questi bambini, Julien, di estrazione sociale e culturale infima e anche vittima di violenze fisiche, si fa raccontare da un compagno il film in TV della sera precedente per poi parlarne con altri e far credere di avere la TV in casa; fa piccoli furti; trova il modo di andare al cinema senza pagare. Soprattutto non confida mai a nessuno la sua solitudine e la sua sofferenza e non denuncia mai i maltrattamenti subìti. La vena un po’ didattica del regista si traduce in una breve lezione del maestro alla classe, dopo l’arresto della madre e della nonna di Julien, determinato da una denuncia dei medici scolastici. Dopo aver spiegato alla classe che con l’affidamento ai servizi sociali il bambino starà comunque meglio, il maestro tiene una piccola lezione da cui ho tratto alcune frasi significative.
“Un adulto infelice può ricominciare la vita altrove, può ripartire da zero. Un bambino infelice nemmeno lo pensa. Sa di essere infelice, ma non può dare un nome a questa infelicità e soprattutto dentro di lui non può neanche mettere in discussione i genitori o gli adulti che lo fanno soffrire. Un bambino infelice, un bambino martire, si sente sempre colpevole ed è questo che è orribile. Fra tutte le ingiustizie che ci sono al mondo, quelle che colpiscono i bambini sono le più ingiuste, le più odiose”.
Una lezione esemplare di psicologia che chiarisce un fatto elementare: il fatto che i bambini non tollerano la sofferenza e la solitudine perché non possono “dare un nome alla loro infelicità”, cioè non possono parlarne con se stessi.
Infatti, parlare con se stessi, avere cioè un dialogo interno, significa funzionare in modo adulto. I bambini non sanno fare un dialogo interno e quando soffrono. Se non possono elaborare il dolore con il sostegno di un genitore, reagiscono facendo altre cose, meno costruttive, ma alla loro portata: si distraggono dalla situazione penosa, bloccano le sensazioni dolorose insopportabili, si dissociano dalle emozioni ingestibili, si confondono, si irrigidiscono sul piano fisico per non sentire il bisogno di un contatto fisico amorevole, fingono (fino a convincersene) di non avere bisogno di nessuno, fingono di aver bisogno di altre cose più facilmente ottenibili (dai giocattoli ai compagni di strada), agiscono in modo rabbioso vessando i bambini più piccoli, fanno capricci per sciocchezze dopo aver rinunciato a chiedere affetto, ecc.
Queste manovre, evidentemente intenzionali (finalizzate a non sentire un dolore troppo grande) ed evidentemente non consapevoli, sono perfettamente comprensibili nei bambini. I bambini, infatti, fanno tali manovre “difensive” proprio perché non dispongono delle risorse adulte necessarie per affrontare in termini costruttivi le situazioni dolorose, per migliorarle o per accettarle.

Passiamo ad un altro film, non paragonabile al precedente sul piano qualitativo, ma terribilmente realistico e drammatico per una scena in cui un bambino di circa otto anni, dopo essere stato rapito (a scopo di riscatto) e successivamente tratto in salvo, a casa rivede il suo rapitore-carceriere (un poliziotto che deve incontrare i genitori). Nel film (Ransom, il riscatto, 1996, di Ron Howard) il bambino non grida “E’ lui il delinquente che mi ha rapito!”; al contrario, sbarra gli occhi, tace e si fa pipì addosso. Una scena davvero terribile. Quel bambino non reagisce in modo attivo perché sente soprattutto il bisogno di essere protetto. La semplice visione di un adulto forte e malvagio paralizza persino la voglia di chiedere aiuto. Sente il bisogno di un sostegno, però la paura di ritrovarsi in balia di tanta malvagità prevale sull’esigenza di denunciare il colpevole e ottenere giustizia. E’ troppo piccolo per “denunciare” un criminale e per “reagire”.

Nel film Bronx (1992) in cui Robert De Niro lavora sia come attore che come regista, un bambino di 9 anni è combattuto interiormente fra il suo affetto per il padre (De Niro) e la sua ammirazione per un piccolo boss mafioso di quartiere rispettato (nel senso di “temuto”) da tutti. Il padre non combatte il suo “rivale”, ma gli tiene testa astenendosi da qualsiasi forma di sottomissione. Dice al figlio “Vuoi diventare qualcuno? Diventa uno che lavora e si preoccupa ella famiglia (…) ricordati che non c’è cosa più triste del talento sprecato”.
Il bambino crescerà in questa indecisione, senza scegliere fra due modelli opposti e incompatibili di vita. In un momento di rabbia dirà al padre “un uomo che lavora è un fesso”, ma risolverà il suo dilemma dopo otto anni, innamorandosi di una ragazza di colore e toccando con mano l’ottusità del piccolo mondo mafioso che in qualche misura aveva accettato. Dovrà scontrarsi con un fatto: “nel mio quartiere quello che era nero era tabù” e sceglierà di pensare senza pregiudizi e di agire senza temere i pregiudizi altrui. Sonny (il suo “secondo padre” mafioso verrà ucciso dal figlio di un uomo che aveva ucciso. Salutando Sonny nella bara, lo ringrazierà di averlo tolto da una situazione pericolosa, ma lo saluterà accusandolo di aver “sprecato il suo talento”. Le parole del padre, finalmente assorbite, costituiscono la materia prima della sua formazione di uomo responsabile e libero. In questo finale non schematico in cui non c’è un personaggio negativo descritto come “semplicemente negativo” e in cui la decisione del ragazzo matura con fatica e sofferenza, tutti siamo soddisfatti che comunque prevalga il senso della dignità personale sul bisogno di far parte di un gruppo di fessi alla ricerca di denaro facile. Ma chi potrebbe disprezzare il bambino del primo tempo del film per la sua incertezza? Chi potrebbe disprezzarlo per la sua indecisione fra l’autorità morale del padre e l’autorità ottenuta in modi discutibili dall’altra figura, temuta dai suoi compagni di scuola e da tutti i loro genitori?

Un dilemma analogo, mal posto e non risolto è narrato nel film Il volo delle farfalle (1998) di José Luis Cuerda. Nella Spagna repubblicana del 1936, il piccolo Moncho, timido e asmatico, si fa pipì addosso nel primo giorno di scuola perché aveva sentito dire che i maestri picchiano i bambini. Figlio di una madre bigotta un po’ chioccia e anche respingente, e di un padre sarto, repubblicano ma debole sul piano psicologico, trova nel maestro un punto di riferimento che lo aiuta nella crescita. Il maestro anarchico e sostenitore della repubblica, sostiene soprattutto i bisogni dei suoi allievi. Trasmette il sapere sollecitando la curiosità senza imporre nozioni avulse dalla loro vita. Per incoraggiare il piccolo a passare dai fumetti ai libri gli dice “I libri sono come un rifugio. Tra le loro pagine possiamo custodire tutti i nostri sogni per non farli morire di freddo”. Il padre prova amicizia per questa brava persona e anche la madre bigotta non riesce a non stimarlo. Tuttavia gli eventi precipitano e le squadre fasciste spadroneggiano nel paese. Il padre del ragazzo non osa schierarsi apertamente con la sinistra e il maestro, ormai pensionato, viene arrestato. La preoccupazione della madre è di dimostrare a chi comanda che la sua famiglia non è dalla parte degli anarchici e dei comunisti. Partecipa quindi al rituale folle della piazza consistente nell’insultare le persone arrestate lungo il tragitto dalla prigione alla camionetta che li porterà via. Incita i figli e il marito a lanciare insulti. Il padre del ragazzo, con le lacrime agli occhi griderà “assassino, anarchico, figlio di puttana!” contro l’amico maestro e il piccolo Moncho griderà, facendo eco alla madre, “ateo, rosso, rosso!”
Lo sguardo del maestro è sbalordito e addolorato, ma non tradisce alcun moto di rabbia verso il bambino, nemmeno quando questi, con gli altri piccoli inseguirà la camionetta lanciando sassi. Il film finisce con l’inquadratura del viso di Moncho che ferma il suo sguardo perplesso, confuso, senza gioia. Scena terribile e commovente. Se possiamo comprendere, ma in fondo disprezzare la scelta del padre del ragazzo, non possiamo provare lo stesso sentimento osservando i comportamenti del bambino. Osserviamo i fatti con gli occhi del maestro, proviamo dolore e non sentiamo alcuna spinta a formulare giudizi. E’ un bambino, è spaventato. Tradisce il maestro perché tutti lo fanno e perché la madre gli ordina di farlo. Ha solo in linea di principio la possibilità di scegliere, ma, di fatto, la sua è una scelta obbligata.

Passiamo ad un altro film, una pietra miliare della storia del cinema: Quarto potere (1941) di Orson Welles. Un bambino, figlio di un padre violento e di una madre glaciale, viene allontanato dalla famiglia, per volontà della madre che ha ereditato una fortuna e pensa che il figlio cresca meglio facendo una vita agiata lontano da quel paesino sperduto fra i boschi e lontano dal padre. La decisione viene respinta dal bambino che in mezzo alla neve colpisce con lo slittino la persona che dovrà portarlo nel mondo civile, ma poi cede di fronte alla fermezza della madre. Entrato ormai maggiorenne in possesso di ingenti capitali, diventerà un magnate della stampa e passerà la vita a dilapidare ricchezze, comprare di tutto, costruire rapporti non autentici, senza mai elaborare la perdita di una famiglia che, in realtà, gli era mancata anche quando fisicamente lo accoglieva. Morendo pronuncerà la parola “rosabella” (pessima traduzione di “the rosebud”) che era intarsiata nello slittino tenuto in quel triste giorno.
La storia si sviluppa attorno ai vari ricordi di persone intervistate da un giornalista, che si muove per tutto il film alla ricerca del significato di quella parola, senza mai riuscire a risolvere l’enigma. Solo lo spettatore, invece, può risolverlo, leggendo la parola nell’inquadratura finale dello slittino che brucia.
In questa tragica storia, il dolore, non accettato dal bambino, resta come un dato mai superato. L’indifferenza e l’arroganza con cui il personaggio, divenuto adulto, maschera la sua profonda solitudine non producono mai in lui un senso di pace e il dolore non risolto, quindi, insegue come un persecutore l’uomo apparentemente realizzato e “di successo”. Amara descrizione di tanti drammi, magari meno vistosi, di tante persone che fingono di essere forti per non sentire di non essere state importanti per le persone più care negli anni più delicati.
Anche qui, si deve sottolineare che per quanto possa essere deprecabile la condotta di questo Paperone arrogante e distruttivo, nessuno potrebbe ragionevolmente criticarlo per non aver affrontato negli anni delle elementari tanta sofferenza, di non aver pianto da solo, di non aver accettato di dover crescere senza una famiglia.

2. Il film Quarto potere non mostra solo l’impossibilità, per i bambini, di gestire (senza il sostegno dei genitori) il dolore, ma anche la loro capacità di costruire intenzionalmente (ma inconsapevolmente), una “durezza”, una “opacità”, un modo di atteggiarsi e relazionarsi con gli altri che li protegge dalle emozioni più delicate come una corazza. A questo proposito si parla di “struttura caratteriale”, intesa come sistema di “difese” che si manifesta nel modo di pensare, nelle chiusure o labilità emozionali, in molte rigidità muscolari riguardanti la mimica facciale e la postura, nella qualità dei rapporti umani, nel modo di strutturare il tempo e costruire un progetto di vita. Si può dire che, come persone esprimiamo le nostre potenzialità”, ma limitiamo tale espressione nella misura in cui attiviamo delle difese caratteriali.
Tale opposizione fra dimensione personale e dimensione caratteriale ci aiuta a capire perché sia più facile correggere un errore che un pregiudizio. L’errore nasce dall’ignoranza ed è superabile con la conoscenza, mentre il pregiudizio nasce dalla paura, dal bisogno di pensare qualcosa per non sentire un dolore. Avere dei pregiudizi nei confronti delle donne o degli uomini o degli islamici o dei neri o dei bambini o dei vecchi, impedisce di capire la realtà, ma fornisce delle “sicurezze” (fasulle). Stessa cosa per i sentimenti non appropriati alla realtà. Ciò vale sia per quelli più evidenti (ad es. le fobie) sia per quelli che sono altrettanto irrazionali, ma che, essendo normalmente riproposti, sembrano a molti perfettamente “comprensibili” (invidia, rancore, momenti di depressione, indifferenza nei confronti della vita sociale, “spirito competitivo”, rapporti amicali o di coppia superficiali, irascibilità nelle situazioni frustranti, qualunquismo, accettazione di dogmi religiosi mai compresi né confrontati con quelli di altre religioni, tendenza a nascondere le proprie debolezze alle persone care, convinzioni politiche ribadite con forza ma non tradotte in alcun impegno preciso, imbarazzo nei confronti degli animali o dei bambini, mancanza di consapevolezza della propria inevitabile morte, ecc.).

La gente, di fatto, vive normalmente “poco”. Le persone sentono poco, sono poco curiose, poco appassionate, poco impegnate. Raramente si commuovono o piangono perché restano impassibili (o “frignano”) in situazioni dolorose. Sentendo poco hanno poca voglia di capire cose che non ritengono importanti e quindi capiscono poco di molte cose che riguardano la loro vita.

Molte volte non ci accorgiamo affatto dei comportamenti irrazionali dei nostri simili perché condividiamo, senza esserne consapevoli, gli stessi timori e gli stessi pregiudizi. Altre volte, invece, notiamo l’assurdità di certi stili di vita, ma non ne capiamo la ragione e quindi cataloghiamo i fatti con categorie di comodo, cioè con categorie “morali” e spariamo sentenze utilizzando paroloni come “egoismo”, “insensibilità”, “avidità”, “prepotenza”, “maschilismo”. Siamo altezzosi e sprezzanti dall’alto scranno fantastico in cui ci siamo messi e trattiamo le persone come se rubassero la felicità degli altri per essere più felici. Così mettiamo ordine fra i concetti, ma l’ordine è puramente geometrico e non esplicativo.
I cosiddetti “egoisti” non sono mai felici e i cosiddetti “insensibili” non hanno un deficit di umanità, ma fanno una fatica boia per cercare di sentire poche emozioni. I cosiddetti “avidi” sono persone inquiete e mai contente. I “prepotenti” fanno costantemente violenza a se stessi, prima che agli altri per scordare la loro fragilità. I “maschilisti”, poi, con buona pace delle donne “emancipate”, non sanno godere della loro sessualità e pagano dei privilegi materiali tirandosi addosso l’odio delle “donne-vittime” che (apparentemente) “li sopportano”.

3. Se quindi le categorie (pseudo)etiche non spiegano mai la “scarsa umanità” degli esseri umani, sebbene in molti casi i preti o le femministe o i “veri uomini” possano giustificare il dito puntato di qualcuno su qualcun altro, cosa può spiegare tali (apparenti) “mancanze” di humanitas? A mio avviso solo la paura spiega tutto, ma non voglio tirare in ballo la paura come un nuovo dogma. Voglio piuttosto fare notare che nei film elencati all’inizio, tutti i comportamenti dei bambini risultano perfettamente comprensibili e, guarda caso, corrispondono perfettamente ai “peccati” tanto condannati negli adulti.
Il bambino maltrattato del film di Truffaut, se fosse un adulto potrebbe essere squalificato come “debole”, “falso”, “approfittatore”, “disonesto”. Il bambino del film di Howard, se fosse adulto, potrebbe essere squalificato come un “vigliacco”. Il bambino indeciso fra il modello positivo offerto dal padre e il modelli “forte” esibito dal mafioso, se fosse un adulto, sarebbe facilmente criticabile come persona priva di valori o “affascinata dal potere”. Il bambino del film di Welles, se fosse un adulto, potrebbe sembrare “troppo accondiscendente” e incline a covare rancore.

C’è una verità davanti agli occhi di tutti che in genere non si vuole vedere: tutti i “peccatori” non cercano in modi “ingiusti” o “patologici” la felicità, ma agiscono nei modi in cui normalmente agiscono i bambini quando sono soli in situazioni di sofferenza. In pratica, continuano (inconsapevolmente) a fare ciò che hanno cominciato (inconsapevolmente) a fare da bambini, quando si trovavano in situazioni di solitudine ingestibile: fanno cose irrazionali che servono semplicemente a non sentire una sofferenza, pur avendo ormai l’età per elaborare e superare le sofferenze [cfr. il POST Cuccioli umani].

Questa lettura inconsueta non è una mia invenzione. Fa capolino qua e là in testi scritti da pensatori, filosofi e anche psicologi che non sono mai diventati opinion leader.
Eppure, l’approccio che potremmo definire “la psicologia di Truffaut” (riassunta nella lezione del maestro a scuola) è molto più coerente, convincente e razionale di tutte le seghe mentali [cfr. il POST Le seghe mentali] più accreditate.
Se non continuassimo a funzionare mentalmente come da bambini, accetteremmo che il nostro tempo vissuto è un tempo di gioia e di dolore, che la nostra vita è una vita-limitata-dalla-morte, che la nostra dimensione sociale è l’ambito di un impegno volto a costruire felicità per tutti e a ridurre l’infelicità per tutti.

Purtroppo, tendenzialmente funzioniamo nel modo che a due mesi o a cinque anni o a dodici ci ha permesso di non piangere da soli e, per questo motivo, vogliamo pensare al nostro tempo come ad un tempo di gioia. Per lo stesso motivo, appena “ri-sentiamo” i morsi del dolore, ci distraiamo, ci incazziamo, ci diamo delle colpe o le diamo a qualcuno, cerchiamo di dimostrare che siamo dei tipi “tosti” o delle “povere vittime”. Così rinunciamo alla conoscenza, ci scolleghiamo dalla realtà, perdiamo il senso della nostra dignità, magari stiamo anche male in modi stupidi (“nevrotici”), ma riusciamo a schivare il vero dolore e continuiamo a rivendicare un mondo senza dolore. Crediamo fermamente di “poterla sfangare” con qualche trucco: ci sentiamo “tanto per bene” o “all’antica”, ci esibiamo in “esercizi di grande sensibilità”, ci esaltiamo perché un cretino ha “lanciato” una nuova moda o perché un fesso ci ha promesso di farci diventare tutti ricchi se vince le elezioni.

Continuiamo a fare delle cose geniali inventate da piccoli per non affrontare un dolore ingestibile. E continuiamo a farlo perché non sappiamo di farlo. Infatti, se qualcuno ci chiede perché facciamo ciò che facciamo. noi non lo sappiamo e magari ci offendiamo. Ad esempio: “Chi? Io arrogante?! Ma come ti permetti di dire a me una cosa del genere, piccolo pidocchio schifoso?! Oppure “Ma come? Dici che non ti aiuto? Mi hai offeso e me ne vado: arrangiati!”.
La gente ha l’orologio fermo. Continua a reagire al dolore nell’unico modo ragionevole ad un’età in cui il dolore è ingestibile. Gli adulti, anche se non lo sanno, hanno le risorse interiori necessarie per vivere con il dolore dei propri limiti, con il dolore dei limiti degli altri, con il dolore di una società che assomiglia ad un grande manicomio, con il dolore delle malattie che in qualsiasi momento possono toglierci qualcosa, con il dolore della morte che ci attende. Con questo dolore accettato, sentito, espresso, gli adulti possono esprimere il meglio di sé ed essere grati per le cose migliori che gli altri riescono ad offrire. Possono essere felici di avere a disposizione un tempo da vivere almeno prima di incontrare la morte [cfr. il POST Ancora su Randy Pausch e sulla morte].

Gli adulti possono fare moltissimo bene a se stessi e possono spassarsela alla grande facendo del bene ai loro simili anziché, tormentarsi per inventare modi nuovi per fregare gli altri. Possono farlo, ma in genere non lo fanno. Si spremono le meningi e si stancano i muscoli per NON fare le cose buone che possono fare, perché sono impegnati a non sentire qualcosa. Devono distrarsi da una vita non vissuta. Devono “assolutamente” guardare la TV, andare alla partita, andare in vacanza. Certe persone, nelle domeniche estive si fanno sei ore di coda per andare al mare, bagnarsi i piedi, ingozzarsi di schifezze e tornare a casa esauste. Altre persone si sacrificano tutto l’anno per stare due settimane cinque fusi orari “più in là” a non far nulla, a parte riprendersi per lo stress dei fusi attraversati. Moltissime persone passano la vita con compagne o compagni di cui non sanno nulla, a cui nascondono ciò che sentono e con cui condividono solo il non sapere nulla dei figli che assieme hanno fatto.

Vivere bene è difficile se non si fa un buon rodaggio nell’infanzia. E’ difficile quando i genitori, anziché aiutare i figli a gestire bene i loro piccoli dolori, creano grandi dolori che i bambini non riescono a gestire. Vivere bene è quasi impossibile se nell’infanzia si è deciso di vivere “poco” pur di soffrire “poco”.
Vivere bene è quindi difficile e risulta ancor più difficile perché normalmente le altre persone cercano, come noi, di vivere poco e male, pur di non accettare il dolore e la morte. Se ogni tanto sentiamo il bisogno di vivere davvero, ci accorgiamo di non aver più interlocutori, e se chiamiamo a raccolta gli amici, questi non vogliono condividere nulla di reale.
Vivere bene è difficile perché la vita che normalmente riusciamo a condividere con gli altri è in parte una routine e in parte un mito, e quindi è in parte una palla al piede e in parte un sogno irraggiungibile. Ma fra il grigiore della quotidianità e l’illusione del cielo perfettamente terso, il tempo passa davvero e si diventa vecchi senza essere mai stati giovani. Questo è il punto critico. Questa spiegazione della follia individuale e sociale è scomoda ma suona dannatamente plausibile.

4. E la democrazia che c’entra? C’entra e come! La politica è l’arte di organizzare la società e la società è un intreccio di esistenze personali. I cittadini che non capiscono la loro esistenza fanno fatica a progettare una società migliore per tutti. E i politici che non sanno che fare della propria esistenza personale, fanno fatica a impegnarsi per rendere più umana la convivenza sociale. In ultima analisi, la follia presente nelle relazioni interpersonali superficiali si dilata nella politica, fino a diventare la follia delle regole sociali.

Il problema della democrazia sta nel fatto che se qualcuno accetta che la realtà include comunque anche il dolore e che quindi ogni miglioramento sociale inevitabilmente comporta delle rinunce, è portato a desiderare un impegno condiviso e finalizzato alla costruzione di un mondo più umano. E’ portato ad esercitare la compassione per sé e per i suoi simili proprio per immaginare cambiamenti profondi e validi. Tuttavia, concetti come “impegno”, “rinuncia” e “compassione” sono le tre cose che i bambini spaventati non sopportano. Tale “allergia” tipica dei bambini e, purtroppo, anche dei bambini divenuti adulti, riduce la politica ad uno dei tanti fenomeni irrazionali e distruttivi. Con queste premesse la politica diventa facilmente un passatempo per i cittadini e una ricerca di potere personale per i professionisti della politica. E con questa “distrazione di massa” la politica razionalizza semplicemente la follia sociale che fin dalle sue basi economiche procede in modo distruttivo, nell’interesse di pochi.

Ciò non significa che tutti i partiti siano uguali. L’assioma del qualunquismo è un dogma con cui si razionalizza il disimpegno personale. Ci sono partiti distruttivi e partiti con programmi decenti o almeno poco indecenti. Tuttavia, se qualcuno riesce a sentire e capire qualcosa e decide di favorire una politica più costruttiva (o meno distruttiva), ha a disposizione un voto. Un solo voto, come ogni persona che vive nel mondo dei sogni e non ha la più pallida idea di cosa possa essere la politica.

Il problema della democrazia non sta nel fatto che alcuni votanti sono colti e molti votanti non lo sono. Per fare scelte politiche responsabili non è strettamente indispensabile conoscere Cicerone o la trigonometria o la capitale dell’Islanda. Occorre ragionare senza sentirsi in balia della necessità di essere rassicurati. Basterebbe questo buon uso dell’intelligenza per identificare con facilità le idiozie che vengono pronunciate nei discorsi elettorali. Ma ragionare così costa dolore. E questo non sembra tollerabile ai più. E’ proprio la paura endemica e non la mancanza di una cultura elevata e generalizzata che paralizza la vita politica. E’ la paura dei tanti che fa considerare come “programmi politici” delle semplici idiozie e fa sembrare “statisti” dei semplici piccoli uomini terrorizzati e terrorizzanti.

Voglio riportare un dialogo che trovo realisticamente agghiacciante. L'unica parte buona di un DVD che ho buttato poi nella spazzatura (B. Sonnefeld, Men in Black). Edwards afferma: "La gente è matura, l'accetterebbe". L'Agente K, però risponde: "Una persona è matura. La gente è un animale ottuso, pauroso e pericoloso".
Questa somma di tragedie personali non risolte, che diventa una tragedia sociale difficilmente superabile, permette di capire il motivo per cui l’intreccio fra mass media e politica sia così forte. La gente non vuole sapere, ma vuole sognare ed essere rassicurata. I politici divenuti politicanti cavalcano la tigre della paura per ottenere consensi. Solo per questo i politici si fanno dire anche come si devono vestire e si truccano prima di andare in TV. Solo per questo si fanno spiegare dai cervelloni della pubblicità quali questioni importanti non possano trattare e quali idiozie debbano ripetere. A questo proposito è assolutamente da vedere o da rivedere il film Power (1986), di Sidney Lumet.

5. Allora? Allora resta la compassione.
Compassione per la nostra scarsa voglia di capire le cose della vita e della società ed anche per la poca voglia dei nostri simili. Accettando questo inevitabile limite, possiamo forzare un po’ il nostro limite e “allargarci un tantino”. Possiamo anche cercare di sollecitare i nostri compagni di strada a guardare la realtà ed anche a rinunciare a qualche sogno.
I politici animati da buone intenzioni e non semplicemente orientati a fare i mestieranti o a servire i potenti o a vendersi, a volte capiscono questo problema, ma non osano prendere il toro per le corna. Cercano di fare il loro marketing cavalcando l’onda dell’indignazione o facendo discorsi vaghi su programmi non troppo radicali, per paura di turbare “la gente”. Non capiscono che le persone sono già turbate e non vale proprio la pena di “dialogare con il loro turbamento”. Dato che non si ha nulla da perdere tanto vale cercare di sconvolgere le persone, di allearsi con la loro parte vitale, di cercare il loro cuore.

Infatti, tutti hanno una grandissima paura di sentire, ma sono anche esasperati dalla scatola in cui si sono rinchiusi. Temono di lasciare la gabbia, ma anelano ad una libertà interiore, interpersonale e sociale che temono. Io credo che l’unica arma vincente (non sicuramente vincente, ma almeno non sicuramente perdente) da usare, per fare davvero politica, sia quella meno praticata: il “richiamo della foresta”. In altre parole, far leva sulla voglia di vivere della gente.
Se chi fa politica nel senso dignitoso del termine rinunciasse a volare basso, sicuramente risulterebbe per molti terrorizzante, ma per molti altri risulterebbe finalmente convincente.
I partiti “progressisti” per anni hanno tentato di “condizionare i governi” e anche di governare. Tuttavia la loro “attenzione” ai “timori” dell’elettorato moderato ha sempre prodotto solo sconfitte elettorali o vittorie elettorali tradottesi in incapacità di governare.
Un cambiamento reale nella vita sociale non può essere ottenuto elemosinando voti dai moderati più ottusi. Anche i moderati a volte sono esasperati della loro ottusità e forse aspettano solo un incoraggiamento per recuperare la loro voglia di vivere e di vivere meglio con i loro simili. Un cambiamento può essere ottenuto solo facendo leva sulla voglia di vivere delle persone e sull’intelligenza che le persone hanno, anche se temono di usarla. Può essere ottenuto solo manifestando la passione per la vita e la passione per il vivere assieme. Può essere ottenuto solo promettendo un impegno faticoso per trasformare una società anonima in una comunità.
Solo così un cambiamento può, FORSE essere realizzato. O forse no. Ma, ormai, cosa abbiamo da perdere?

Gianfranco

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