Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 28 novembre 2009

Cuccioli umani

Forse è venuto il momento di dire qualcosa che da tempo nel blog stiamo rinviando.
Il filo che collega i post scritti da me e dagli altri amici (al di là delle integrazioni politiche, animaliste o ecologiste), è l’analisi dell’irrazionalità nella società e nella cultura. Tuttavia, in molti contributi siamo arrivati al limite di quel groviglio interiore, soggettivo, psicologico che genera un’irrazionalità individuale che poi viene catturata dalle ideologie peggiori e diventa “cultura di massa”. Per “non fare psicologia” abbiamo solo sfiorato quel groviglio, ma ci siamo trovati a girarci sempre attorno.
Abbiamo, infatti, trattato il gregarismo politico, l’intolleranza, l’irrazionalità religiosa ed anche l’adesione alla nuova religione della stupidità (propagandata dai media) e siamo arrivati al bisogno di “appartenenza”, cioè all’esigenza di stare con gli altri, pur di non sentire “la solitudine” (che dovrebbe essere un dramma solo per i bambini).
Anche riprendendo in un post precedente le riflessioni sulle “stronzate”, svolte in chiave filosofica da Harry Frankfurt, ho dovuto evidenziare che questo autorevole esponente della filosofia analitica ha indicato, dopo l’analisi logica degli enunciati classificabili come stronzate, un bisogno di “accettazione”, che è davvero un bisogno solo per i bambini.

Ora, se tutte queste riflessioni logiche, storiche e sociologiche sui fenomeni culturali e sociali irrazionali conducono a “robe” come il bisogno di “essere accettati” e di “non sentirsi soli”, è chiaro che qualche riflessione sulla solitudine e sull’infanzia va fatta, anche se il terreno psicologico è melmoso e richiede molte precisazioni.
Alcuni di noi hanno marcati interessi in tal senso e hanno fatto esperienze di lavoro analitico personale con Alberto Torre. Io stesso, pur avendo omesso nel mio profilo la professione che esercito da più di vent’anni, ho fatto con Alberto molti anni di analisi personale e anche un training di analisi del carattere. Ora, quindi, infrango il segreto che ho finora mantenuto. Un segreto che è il segreto di Pulcinella, dato che due semplici clic su Google svelano inequivocabilmente il mistero della mia professione.

L'attività che svolgo è stata denominata “psicoterapia”, anche se, a mio parere, i disturbi psicologici non sono da considerare malattie (cfr. http://www.psychomedia.it/pm-books/ravaglia/ravindex.htm).
Credo che senza ipotizzare malattie e terapie, si possa dire che tutti noi facciamo molta fatica a vivere in modo razionale ed emotivamente ricco e che quindi siamo un po’ pazzi. Comprendere questa irrazionalità diffusa (sia nella versione “normale”, sia nelle sue manifestazioni più circoscritte) richiede, a mio avviso, rigore logico (filosofia) e contatto emotivo. La capacità di contatto emotivo non può essere misurata e nemmeno può essere oggetto di “corsi legalmente riconosciuti”. La stessa idea di incasellare in una normativa l’ambito in questione mi sembra una forzatura (date le imponenti differenze fra le teorie delle varie scuole). Sto parlando in generale e non sto parlando di competenze individuali; quindi non sto dicendo che non ci siano psicoterapeuti capaci di aiutare altre persone. Ce ne sono stati e ce ne sono ancora, per fortuna, ma non credo che le loro capacità dipendano dal rigido percorso formativo stabilito per legge.
Di fatto, trovo intollerabile la proliferazione di testi di self-help psicologico che, per spessore teorico, farebbero inorridire un curandero dell’Amazzonia: “Come vincere la timidezza con il rilassamento”, oppure “Come liberare il proprio sé profondo con il pensiero positivo”. Queste robe sono lecite, dato che non c’è una teoria condivisa. E in assenza di una teoria, ogni teoria vale quanto le altre e anche le mie critiche possono essere legittimamente considerate delle sciocchezze. Quindi, il “mondo” della soggettività individuale sfugge a qualsiasi rigore scientifico. Ognuno, di fatto parla sulla base di ciò che è, delle sue esperienze e di ciò che pensa di aver capito.

Io continuo a considerarmi per quello che sono: mi sono laureato in filosofia, occupandomi soprattutto di filosofia della scienza, ho studiato vari modi di smontare le ideologie più ingombranti e accattivanti e ho fatto un percorso personale per me importante, che mi ha aiutato a convivere con gli aspetti dolorosi della mia vita e a godermi quelli più piacevoli. La compassione per me e quindi l’idea che le altre persone siano, come me, delle persone (e che quindi siano preziose al di là della loro distruttività), mi aiuta nelle ore libere e nelle ore di lavoro. Dal mio punto di vista, la mia formazione è questa (con l’aggiunta di alcune letture di psicoterapia).
Io credo che l’irrazionalità e la distruttività delle persone non siano “causate” da traumi attuali o dell’infanzia, ma siano strategie sviluppate per sentire poco il dolore che inevitabilmente accompagna le nostre giornate, anche le giornate migliori. Pur essendo capaci (da adulti) di elaborare il dolore, cerchiamo di non riconoscerlo e facciamo più o meno ciò che abbiamo fatto nell’infanzia per non sentire quel dolore che ci sembrava (ed era) eccessivo per le nostre forze.
I cuccioli umani sono più lenti nel loro sviluppo dei cuccioli degli altri mammiferi. Crescono pigramente per ben nove mesi nella pancia della mamma e poi impiegano anni per raggiungere un minimo di autonomia. La dipendenza dei cuccioli umani dagli adulti è totale in questa lunga infanzia e riguarda la sopravvivenza fisica, la comprensione della realtà e la sfera affettiva.
Nella maggior parte dei casi gli adulti garantiscono la sopravvivenza fisica ai figli e forniscono un’educazione sufficiente. Sul piano affettivo, invece, gli esseri umani vivono da sempre in un circolo vizioso che si sviluppa secondo questa sequenza: accudimento scadente della prole, sviluppo affettivo scadente dei bambini, raggiungimento dell’età adulta in condizioni emotive scadenti, sviluppo scadente delle relazioni di coppia e delle organizzazioni famigliari, accudimento scadente della prole e così via.

Un esame dei sistemi politici, della ripartizione della ricchezza nel nostro pianeta, delle ideologie più gettonate, delle ragioni per cui si sono scatenate tante guerre, o un esame dei rapporti fra classi sociali, fra Stati, fra etnie diverse, porta alla conclusione che o siamo (quasi) tutti idioti o un po' pazzi, cioè spaventati dalle nostre emozioni profonde e soprattutto dal dolore.
Chi afferma che i fenomeni sociali vanno esaminati a livello d’analisi sociologica e non psicologica esprime un’idea sensata. Tuttavia i motivi per i quali i singoli attori principali della sfera politica, economica e militare fanno le loro scelte individuali sono motivi psicologici. Anche i motivi per cui i singoli (quelli che formano “le masse”) affidano spesso ai più scellerati dei loro simili incarichi pubblici di grande responsabilità e per cui approvano ogni stronzata divenuta legge [cfr. il POST Stronzate e analisi filosofica], sono motivi psicologici.
Quindi, siamo idioti o pazzi? Se fossimo idioti andremmo ancora a piedi e non sulla luna a curiosare. Resta l’idea che siamo tutti (o quasi tutti) pazzi [cfr. il POST Favole e marziani].

Il dilemma a questo punto si sposta. La follia umana è un fatto genetico o culturalmente indotto? Chiunque abbia visto dei bambini piccoli sa che essi sono meravigliosi e facilmente comprensibili in tutti i loro comportamenti elementari. Quando hanno fame cercano di mangiare, quando hanno bisogno di contatto cercano di stare in braccio, quando hanno sonno fanno la nanna. Siamo noi adulti che non dormiamo la notte per rimuginare su qualche dettaglio poco importante. Dunque, la nostra follia non è congenita e nessuna scoperta sul DNA potrà salvarci.
In altre parole, se vogliamo capire la seconda guerra mondiale o l’imperialismo o il buco dell’ozono, dobbiamo capire come mai dei bambini spontanei, piacevoli, comprensibili possano diventare dei “tonti” o dei rompiscatole, cioè dei cuccioli che si preparano a diventare degli adulti sottomessi alle autorità sociali più bizzarre o dei ribelli inconcludenti o degli arrampicatori sociali o degli adulti disposti a tutto pur di appartenere ad una lobby “privilegiata” di mafiosi o di bigotti o di “sportivi” o di “intellettuali” o di terroristi o di razzisti. La genetica non ci aiuta, ma ci aiuta l’osservazione della crescita dei bambini nei loro ambienti famigliari. Per capire, dobbiamo partire dalle osservazioni più facili.

Noi non diventiamo pazzi in un batter d’occhio, ma gradualmente. Prima diventiamo bambini “buoni” (stranamente docili, cioè mezzi morti) oppure “capricciosi” (cioè ostinati a pretendere cose inutili dopo aver smesso di chiedere abbracci), oppure bambini “ingestibili” (cioè inclini a fare ad altri ciò che subiscono nel rapporto con i genitori), o bambini “confusi”, “nervosi”, ecc.
I bambini mostrano segnali inequivocabili di sofferenza in qualsiasi esperienza di solitudine. Il contatto umano per loro non è semplicemente un’esperienza gradita, come per gli adulti, ma è un’esperienza necessaria. Per noi un buon incontro produce la soddisfazione di una buona sintonia, mentre per un bambino un buon incontro è la salvezza dalla solitudine, dal vuoto, dal nulla. Poi, da adulti, possiamo anche smarrirci e trovarci soli nel deserto senza essere davvero soli: ci spieghiamo la situazione, ci affidiamo a noi stessi e ci accogliamo, ci confidiamo lo scoraggiamento e ci proponiamo le possibili soluzioni del problema. Insomma, ci facciamo compagnia. Possiamo anche trovarci in situazioni spiacevolissime con gli altri e stare benissimo con noi stessi, chiarendoci la situazione, valutandola, immaginandone gli sviluppi.
Un bambino non ha questa possibilità. Ad un anno e mezzo di età ha la consapevolezza di sé che ha uno scimpanzé e gradualmente arriva a capire di essere una precisa persona fra altre persone, a dialogare con gli altri riconoscendoli come “altri da sé”, e quindi a dialogare anche con se stesso. Prima di questa conquista, stare con se stesso equivale a “non stare” e, per questa ragione, la presenza di qualcuno che interagisce, accarezza, conferma, rassicura, protegge, spiega, guida, è indispensabile. L’alternativa è un dolore insopportabile perché non comprensibile, non gestibile, in assenza di quel dialogo interno che rientra fra le competenze di un adulto.
Per i bambini, quindi, il contatto non è solo piacere, ma è sicurezza, mentre la solitudine è un abisso, una morte reiterata in un nulla crudele e cieco. Più i bambini sono piccoli più soffrono: più la loro coscienza è rudimentale, più la solitudine è un’esperienza confusa e devastante.

Gli adulti, piangendo nei periodi molto dolorosi, si abituano gradualmente all’idea di una vita futura senza qualcosa che ne faceva parte e che non c’è. Ma i bambini non possono piangere, o almeno non possono piangere da soli. Possono piangere solo con il supporto, la rassicurazione degli adulti. Se però proprio gli adulti creano sofferenza, i bambini non possono elaborare questa sofferenza.
Di fatto, nemmeno gli adulti, in genere, elaborano il dolore. Solo alcuni lo fanno, ma quelli che non lo fanno potrebbero farlo. Se quelli che non lo fanno smettessero di incazzarsi inutilmente, di deprimersi, di colpevolizzarsi, di piangersi addosso, sarebbero in grado di piangere, consolarsi, riprendere a vivere e sarebbero anche in grado di vivere con amore ed entusiasmo. Questa pessima e frequente gestione del dolore da parte di tanti adulti dipende, secondo il mio punto di vista, proprio dal fatto che essi, nell’infanzia, hanno costruito un rapporto con se stessi poco costruttivo, dovendo gestire da soli delle esperienze troppo dolorose.

Non tollerando il dolore i bambini spezzano la percezione del dolore alterando se stessi. Smettono di sentire qualcosa, smettono di desiderare qualcosa, trascurano qualche aspetto della realtà, si bloccano, si confondono. Fanno, in pratica, una magia, un trucco, cioè l’unica cosa che sanno fare prestissimo in modi quasi automatici e in seguito in modi più articolati, ma senza averne coscienza.
Se sono piccolissimi non possono aver coscienza della loro magia perché non hanno coscienza di niente. Lo fanno e basta. Se sono più grandi (ma non abbastanza grandi da avere un dialogo interno) fanno cose più complesse, ma “senza dirselo”, perché le magie funzionano se il trucco è segreto e questa magia “interna” funziona se il trucco resta ignoto all’unico spettatore presente, che poi è il mago stesso, cioè il bambino.
Un neonato lasciato solo, se non muore di dolore, fa cose rudimentali ma efficaci: blocca gli occhi, il respiro, resta in un’apnea ottusa, dando luogo ad una sospensione dell’esperienza. Un bambino più grande fa cose più complesse su se stesso, pur di non perdere il rapporto anche parziale o sgradevole con gli adulti di riferimento: si dissocia, si confonde, si irrigidisce.
Dovendo proteggersi da emozioni ingestibili i bambini diventano adulti più impegnati a sentire poco che ad esprimere le loro potenzialità. Sentendo poco, vivono poco. Condividendo con altri adulti l’esigenza di una vita emotivamente misera, trovano comprensibili o “naturali” o “significativi” anche i modi di vivere (egualmente difensivi ed egualmente irrazionali) degli altri. In questo modo si inseriscono in un flusso di comunicazioni, rituali, miti e sogni che costituisce la normalità. Se poi studiano l’argomento, interpretano la normale follia come “salute mentale”.
Se rinunciamo alle verità rassicuranti dei razzisti (è tutta colpa degli extracomunitari) o dei bigotti (è tutta colpa dei peccatori) o di molti psicoterapeuti (la normalità va bene) sbattiamo il naso nel mondo reale in cui, di fatto, tutti scappano dalla loro vita per paura di una solitudine che non è più un pericolo ma fa ancora paura. Un mondo reale normalmente assurdo.

La cosa difficile da ammettere, se rinunciamo alle colpevolizzazioni e alle rassicurazioni, è che la nostra infanzia è troppo lunga. La selezione naturale ha sbagliato qualcosa. Ci ha fornito capacità straordinarie rispetto a quelle delle altre specie, ma al prezzo di un rodaggio troppo lungo. Per questo motivo, una pantera o una mucca su mille non sa accudire il suo cucciolo. Una donna su mille sa accudire il suo cucciolo. I cuccioli umani, quindi, hanno capacità intellettive non paragonabili a quelle degli altri mammiferi, ma sviluppano capacità relazionali distorte: devono proteggersi dal dolore inevitabilmente sperimentato in famiglia bloccando la sensibilità emotiva e limitando la comprensione di cose troppo spiacevoli. Divenuti adulti, questi cuccioli faranno sentire soli i loro cuccioli.
In pratica, gli uomini sono fondamentalmente buoni, come diceva Anna Frank (dopo Rousseau), ma diventano delle bestie, per paura di sprofondare nella solitudine della loro infanzia. Da bestie intelligenti fanno cose molto sofisticate (fanno manipolazioni psicologiche con il/la partner, oppure lanciano una bomba atomica, a seconda dei casi).
I fascisti, i superficiali, quelli dediti al tifo sportivo, al campanilismo, al patriottismo, alla grande chiesa o alla piccola setta, al partito perfetto, alla “rivoluzione culturale”, alla “reazione moderata”, all’esaltazione di chi urla più forte, all’ammirazione di chi dice idiozie in TV, quelli fissati sull’ordine, sulla dieta, sul fitness, sul gossip e su qualsiasi stronzata leggibile su un manifesto … tutti questi non sono esseri disumani, scarti, errori genetici: sono bambini splendidi lasciati soli e divenuti fotocopie sbiadite di ciò che erano. Sono bambini spaventati e divenuti adulti poco disponibili a provare compassione per se stessi e per gli altri. Poco disponibili a rendere “vissuto” il tempo della loro vita. Disponibili quindi a pretendere, a distruggere, ad illudersi, pur di non sentire il loro inferno segreto.
Questa lettura delle cose non è dogmatica, se si basa su dei fatti ragionevolmente spiegati, e i fatti che giustificano l’idea in questione sono di due tipi: a) esperienze educative e b) esperienze analitiche (per quello che valgono, dato che la “scienza ufficiale” non convalida né le mie, né quelle che portano ad altre conclusioni).

a) Alexander Neill ha mostrato che i bambini educati amorevolmente crescono equilibrati e senza tendenze distruttive verso i loro simili. Sia io, sia altri, abbiamo citato nel blog il libro di Neill più volte e ad esso continuo a rinviare i lettori (I bambini felici di Summerhill, Edizioni Red).

b) Nel mio lavoro vedo, da un paio di decenni, che quando gli adulti cominciano a capire cosa stanno davvero cercando nella vita e quando riescono a capire che non hanno più l’età per ottenere un’accettazione come quella che non hanno sperimentato nel loro lontano passato, si ammorbidiscono.
Ritrovano, con le lacrime, la compassione per sé e per i loro simili. Diventano più razionali e più passionali, dato che le due cose non sono in opposizione come tanti credono. Non sentono più l’esigenza di fare carriera, di lamentarsi del marito o di “scoparsele tutte”. Stanno bene con i figli e non li trascurano né li esasperano con ingombranti e fasulle forme di attenzione. Smettono di annoiarsi in inutili “vacanze” e cominciano a costruire rapporti umani buoni tutto l’anno. Si permettono di chiedere affetto e non si permettono più di pretendere affetto, si autorizzano a dire ciò che pensano, anziché ciò che pensano sia accettabile dagli altri. Dimenticano di accendere la TV e, se l’accendono, provano dolore per le stronzate che infestano i “dibattiti politici”, i reality e persino moltissimi film d’autore.

Queste esperienze educative e analitiche mi sembrano più che sufficienti per giustificare l’idea secondo cui le persone sono normalmente irrazionali e contribuiscono ad una normale irrazionalità sociale perché continuano a temere dei vissuti di solitudine non elaborati, più di quanto desiderino costruire una buona vita personale ed una buona convivenza sociale.
Molti psicoterapeuti possono legittimamente considerare questa idea come una stronzata, ma io continuo a credere che le persone siano meravigliose anche se normalmente mostrano delle terribili chiusure mentali ed emozionali.
Il fatto che l’irrazionalità sia una manifestazione della creatività dei bambini e un loro tentativo di proteggersi dalla solitudine è un fatto evidente, se ci si prende la briga di guardare le cose da vicino. Purtroppo non è facile mettere a fuoco e comprendere l’irrazionalità sociale se si teme di mettere in discussione la normalità, le concezioni della realtà più diffuse, e i rituali sociali consolidati.

Io penso che sia irrazionale e distruttivo aver paura degli ascensori, ma penso che sia irrazionale e distruttivo anche considerare accettabile una normalità politica, sociale, culturale che è irrazionale e distruttiva. Tanto distruttiva da costringere gli unici membri perfetti della società (i bambini) a diventare adulti normalmente irrazionali e distruttivi.

Io penso che questo disastro che si riproduce di generazione in generazione senza alcuna consapevolezza, in buona fede e con le migliori intenzioni vada riconosciuto. Se accettiamo questa situazione arriviamo anche a capire che non possiamo prospettare soluzioni incisive e di ampio respiro. La realtà va capita e accettata. Va modificata nei limiti del possibile, ma ciò comporta la rinuncia alle lagne sterili o ai facili ottimismi. Io penso che oggi, non ci sia modo di spezzare il cerchio di un’infanzia lunga affidata a genitori poco disponibili e quindi destinata a produrre nuovi adulti poco disponibili nei confronti dei bambini.

Dopo il bollettino di guerra dobbiamo però anche considerare le buone notizie. Oggi, come nei secoli passati, le esistenze individuali sono normalmente “povere” o assurde o distruttive, anche se apprezzate da condottieri, sacerdoti, filosofi o da scrittori e poeti nevrotici. Oggi, però, come nei secoli passati, tutte le persone, quando se lo permettono, sono capaci di mostrare compassione, rispetto e amore.
Anche se l’incubo della normale follia continua a riproporsi da tempi immemorabili e produce autolimitazioni nei bambini del presente e quindi negli adulti del futuro, la perfezione che caratterizza i bambini non viene mai completamente annullata. Tale perfezione continua e continuerà a spuntare come quei fili d’erba che si fanno strada fra le fessure della pavimentazione di un parcheggio. Questa è la cosa bella, esaltante, epica. Nessuno diventa del tutto disumano. Inoltre, alcuni riescono persino a crescere decentemente, restando abbastanza umani. Non solo: alcuni, già divenuti dei rompiscatole, si sentono disposti a guardarsi dentro e a rivoltare come un calzino l’inferno che hanno dentro. A volte fanno delle psico”terapie” che non producono risultati, ma a volte riescono a fare esperienze valide.

Il mondo umano, quindi, procede in modo sotterraneo, mentre quello disumano procede chiassosamente senza basarsi sul cuore e sul cervello. L’umanità sotterranea, a cui tutti apparteniamo e in cui almeno un pochino ci riconosciamo, continua a lasciar tracce.
Continua a far spuntare fili d’erba nelle aree cementificate: un bel sorriso, uno sguardo dolce, una poesia pubblicata fra mille lagne “poetiche”, un romanzo che spunta da una caterva di chiacchiere stampate, un saggio ragionevole che viene scritto con passione e letto con soddisfazione, una canzone che non è la riedizione aggiornata di “senza di te non posso vivere”, qualche famiglia vera fra tante famiglie simili alle camere a gas, un po’ di sesso e di amore in un mondo che nega l’amore e il sesso (sia reprimendolo sia esibendolo come se fosse una griffe).
Continua e continuerà. Quello che ognuno di noi può fare con la propria (piccola o estesa) parte umana ancora funzionante è ammirare la bellezza dell’umanità degli altri (quella che si vede, diffusa o ridotta al minimo), la bellezza degli animali e quella della natura. Ammirare la bellezza senza afferrarla ci appaga e magari ci permette di comprendere la bellezza che è già in noi stessi. Soprattutto ci aiuta ad amarci e ad amare la vita. Ci aiuta anche a dedicarci alle persone e alle fette di realtà che amiamo.
In questo modo non possiamo riempire i “buchi” del nostro passato, ma possiamo riempire i buchi del tempo che trascorriamo e possiamo rendere la nostra vita davvero “nostra”.

Gianfranco

P.S. Dopo questa virata nel mondo delle psicorobe, riprenderò a scrivere come al solito sui temi del blog (gli incubi sociali) e mi manterrò, come gli altri amici, ai margini degli incubi soggettivi. In altre parole, lo sconfinamento di questo post è l’eccezione che conferma la regola.
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