Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 15 novembre 2009

Le seghe mentali

"Dicesi sega mentale il pensare a cose che non hanno attinenza con la realtà. A te sembrerà da questa definizione che allora le seghe mentali tu non te le fai mai. Questo tuo pensiero è un esempio tipico di sega mentale". Questa, e quasi tutte le altre citazioni contenute in questo scritto, se non diversamente indicato, sono tratte da Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita di Giulio Cesare Giacobbe (Ed. Ponte alle Grazie). L'autore è un filosofo e psicologo, probabilmente molto simpatico, di Genova, che ha scritto un paio di libretti "furbi". Intendendo per furbi che sono degli scritti intelligenti con un titolo un po' paraculo da manualistica "fai da te": il lettore abbocca e si ritrova a leggere un piccolo saggio sulla generazione e sulla funzione del pensiero nella mente umana. E poiché anche lo stile è leggero, uno riesce ad arrivare pure alla fine e capire come funzionano le tecniche di meditazione: come risultato, in effetti, non è male. Castaneda e il suo maestro Don Juan ne sarebbero andati fieri: un bell'esempio di inganno (chi ha letto il suo A scuola dallo stregone, Ed. Astrolabio, sa di cosa sto parlando). Non tutte le definizioni in questo libro sono esatte e complete, ma un buon didatta non solo sa cosa dire ma sa anche cosa tacere, poiché l'obiettivo non è mostrare che il docente sa tutto ma insegnare al discente tutto quanto egli sia in grado di apprendere da quel livello. Una definizione rigorosa ma non completamente compresa infatti genera più che altro confusione.
Rimaniamo allora anche noi sulle questioni essenziali.

"Fisiologicamente, la sofferenza sia fisica che mentale, consiste in uno stato di contrazione muscolare in qualche parte del nostro corpo. La contrazione muscolare è provocata da uno stato di tensione elettrica, che è comunicato alle cellule muscolari dalle cellule nervose che sono nel cervello" (p. 25).
Anche il dolore ha una funzione, che non è quella di farci benvolere da un presunto dio, ma, come la scottatura serve a tenerci lontano dal fuoco: anche il dolore serve per invitarci a non ripetere un'esperienza negativa o a cacciarci in una nuova pure peggiore.
Se prendete una storta alla caviglia, questa fa male; non c'è in questo nessuna disposizione speciale per punirvi della vostra disattenzione, ma solo per obbligarvi a non caricare il peso sul piede per terra, in modo da consentire il recupero e la guarigione. Assumere un antidolorifico per continuare a camminarci sopra è chiaramente un errore.

Finché parliamo di mero dolore fisico siamo quasi tutti tra quelli che appena possono smettono di procurarselo.
Dimostrando in questo che l'evoluzione ha funzionato.
Anche i cani si tengono lontano dalle situazioni in cui si prendono delle botte, e non lo dico svalutando questi quadrupedi e usandoli come termine di paragone inferiore, perché si dà il caso che i cani si tengano lontano anche dalla sofferenza emotiva evitabile. Se non gradiscono le coccole di una persona (o l’amicizia di un altro cane) non si sforzano mai di essere gentili, ma evitano il contatto. Se la persona (o l’altro cane) insiste, spiegano meglio la loro indisponibilità ringhiando. In caso di (improbabili) manifestazioni di insistenza passano a tecniche dissuasive più efficaci.

Gli umani, in genere, non sono così lineari e quindi “c'è qualcosa che tocca”.
Un uomo primitivo un po' fesso non sarebbe vissuto molto, tipo: passa una tigre, fine dei giochi. "Quindi devi inventare un sistema che impedisca al fesso di farsi mangiare non soltanto dalla prima tigre che passa di lì ma neppure dalla seconda [..] Ma come devi farlo, questo sistema, per costringere il fesso a scappare? Devi farlo in modo che infligga al fesso un tale disagio a stare fermo a farsi mangiare dalla tigre, da convincerlo a fare qualcosa. [.. In effetti] la sofferenza come disagio va benissimo" (p. 26).
Nel caso della tigre possiamo riconoscere la sofferenza come paura, o più in generale come tensione.
"Lo stato di tensione elettrica cellulare deriva dunque dall'attivazione del nostro sistema d'allarme naturale, che ha lo scopo di assicurarci la sopravvivenza e quindi entra in funzione ogni volta che a noi sembra di ravvisare un pericolo per la nostra incolumità" (p. 27). E' cioè una reazione difensiva.
Ma è il “sembra” che frega. "Perché i pericoli inventati dal nostro pensiero sono praticamente infiniti. Alcuni appartengono al mondo che ci circonda: il collega che sta cercando di farci le scarpe (pur non essendo un calzolaio); [..] altri sono attinenti al nostro Io corporeo: «Oddio, mi prenderò l'aids!»; [..] o ideale: «Nessuno mi vuole bene! » [..]. Il pensiero è dunque la causa principale della nostra sofferenza, l'essenza stessa della sega mentale" (p. 29).
Di base, il pensiero non è un errore evolutivo, ma un vantaggio per la sopravvivenza. Se hai fame e devi prendere una mela da un ramo troppo alto, e hai solo un bastone, puoi fare la pensata di battere il ramo col bastone: il pensiero serve a risolvere problemi.
Ma "mettiamo che uno ti molli un cazzotto sul naso mentre passeggi con la tua fidanzata nel bel mezzo del centro cittadino e scappi prima che tu riesca a reagire. Questo [..] ti procura un bel po' di tensione, che non puoi scaricare mollandogli un calcio nelle balle" (p. 30) perché non le hai più a portata. "Cosa fai allora? Te lo meni per due giorni (il cervello, naturalmente)" (p. 31) pensando che se lo incontri gli dici, gli fai, e se lui ti dice tu gli rispondi ecc.
"Avendo addosso una tensione insopportabile e non potendo scaricarla completamente attraverso l’azione reale, la scarichi parzialmente attraverso l’azione pensata [..].
Infatti il pensiero consiste sostanzialmente nella simulazione immaginativa dell'azione.
Per dirla in termini fisiologici, quando, a causa di un'aggressione ambientale, lo stato di tensione (e quindi di malessere) raggiunge un livello di guardia oltre il quale può diventare autodistruttivo per l'individuo, subentra a salvaguardia della sua sopravvivenza uno stato di benessere (caduta temporanea della tensione) provocato autogenamente mediante l'attivazione del pensiero, il quale simulando l'azione capace di scaricare la tensione simula una situazione ambientale gratificatoria.
Materialmente, nel cervello viene sostituita la produzione di neurotrasmettitori adrenalinici (che provocano lo stato di tensione, cioè di stress) con la produzione di neurotrasmettitori noradrenalinici (che provocano lo stato di distensione)” (p. 32).

L’azione simulata non è di per sé una sega mentale, perché nel caso della mela rappresenta la pianificazione di una soluzione a cui può fare seguito un’azione reale.
Se il problema però non può essere risolto con un’azione reale, questa frustrazione genera altra tensione che genera altro pensiero, cioè un’altra azione simulata per il nuovo problema che potrebbe essere completamente diverso o pari al vecchio più un nuovo impedimento. Per esempio il bastone è troppo corto e non si può arrivare a battere il ramo: si può però pensare di saltare o di procurarsi un rialzo.
Anche l’azione simulata frustrata (cioè che non sfocia in una azione reale) non è di per sé una sega mentale. Perché siamo sempre nell’ambito di una soluzione possibile di un problema reale.
Quando però un problema di partenza reale non è risolvibile, tutta la catena di generazione ‘nuovo problema’-‘nuova azione simulata’ porta ad un incredibile aumento di tensione, insopportabile, che può destabilizzare l’individuo fino a distruggerlo.
“Cosa fa allora il sistema [dell’individuo] per difendersi?
Dimentica il problema.
Freud ha chiamato questo processo rimozione.
La rimozione non elimina tuttavia la tensione generata dal problema rimosso: la mantiene soltanto entro limiti non distruttivi” (p. 36).
La tensione continua quindi a generare altro pensiero, e non potendo riproporre il problema reale, giudicato fuori limite, genera a sua volta un problema immaginario, apparentemente risolvibile.
E qui parte la vera sega mentale. Perché una possibile soluzione, cioè un’azione simulata, sarà sicuramente frustrata. Infatti:
  • la soluzione reale di un problema immaginario non esiste, perché appunto il problema non è reale (se sei a Milano e hai il problema immaginario di essere bloccato a Roma e di dover raggiungere Venezia, alla stazione di Milano il treno Roma-Venezia non lo trovi di certo;
  • la soluzione immaginaria di un problema immaginario esiste, ma non risolve il problema reale (puoi scartabellare e trovare dalla stazione di Roma un treno Roma-Venezia, anche comodo come orario, peccato però che tu sia a Milano).

A questo punto, il tizio di bassa statura che sta morendo di fame e vuole farsi la mela di un ramo alto, con un bastone corto e senza rialzo su cui salire, non rappresenta più un buon esempio perché è difficile dimenticarsi di avere fame.
Il tizio invece che ha preso il cazzotto sul naso è un esempio più facile. Di solito il cervello, “che tende tutto sommato all’economia, non sta neppure a sprecare energia per risolvere immaginariamente un problema immaginario per poi inventarsene subito dopo un altro e ritornare da capo nella situazione iniziale (questo lo fanno i matti [..]): si tiene il primo che gli capita e ci si trastulla senza neppure far finta di trovargli una soluzione. Oppure [..] se ne inventa uno dopo l’altro senza risolverne nessuno (caso più semplice dei nevrotici [..])” (p. 37). In ogni caso l’anello in retroazione di tensione-pensiero si autoalimenta, fino a che i problemi immaginari generano più tensione di quella generata dal problema reale iniziale.
“Quindi il pensiero di problemi non reali è la sega mentale più malefica. Un processo sistematico di seghe mentali malefiche, noi [Giacobbe e gli psicologi] lo chiamiamo nevrosi. Esso è diffusissimo. Soltanto l’intervento di uno psicoterapeuta preparato ed esperto può salvarti in questo caso: l’illusione di non avere bisogno di un aiuto esterno fa parte del quadro nevrotico, divenuto, da assetto difensivo, assetto autolesivo” (p.38). Infatti “l'uomo è nevrotico. E il fenomeno non riguarda soltanto un limitato numero di casi, è l'umanità, in sé, a essere nevrotica. Il problema non è quindi quello di prendersi cura di alcuni individui; si tratta di curare l'umanità in quanto tale. La nevrosi è la condizione 'normale' dell'uomo poiché ciascuno attraversa un'esperienza educativa condizionante. Non gli si consente di essere semplicemente quello che è. Lo si deve plasmare secondo un particolare modello. E’ questo modello, qualsiasi modello, a creare la nevrosi” (B.S. Rajneesh, Meditazione dinamica. Ed. Mediterranee, citato in nota da G. C. Giacobbe a pag. 38, e vedi anche il post sull’educazione sessuale e i bambini)

Esistono quindi due strategie fondamentali per porvi rimedio:
  1. psicoterapia,
  2. meditazione.
Avendole provate entrambe mi pare di poter dire che agiscano su piani differenti, che non siano intercambiabili, ma complementari.
“No pensiero, no sofferenza” verrebbe da dire, ma lobotomizzarsi non è un gran rimedio.
Cercare di capire perché in una data situazione ci sorge un certo pensiero è già un po' meglio. La prima strategia infatti è quella di comprendere le ragioni, per lo più emotive, per cui al nostro cervello sembra di ravvisare un pericolo, in modo da derubricarlo a problema inesistente e quindi non accendere la tensione che innesca la catena delle seghe mentali.
Per un bambino, ad esempio, l’essere lasciati soli, può diventare questione di vita o di morte e il suo cervello effettivamente ravvisa un pericolo ed accende quelle risposte tensive che provocano quel poco di azioni reali che un bambino può praticare: irrequietezza, pianto, urla, ecc.
Sempre per un bambino, ad esempio, essere costantemente svalutati dai propri genitori, non è proprio questione di vita o di morte, ma di scarso amore reale. E non è solo una questione morale o affettiva: senza scomodare l’etologia, stiamo parlando di un bambino, che dipendendo praticamente in tutto dagli adulti, è più esposto, più vulnerabile di uno che ha genitori comprensivi e rassicuranti. Il problema quindi di come farsi proteggere dai propri genitori è reale ma, se sono pesantemente svalutativi, irrisolvibile. E qui, per quanto detto in precedenza sulle azioni frustrate, parte la prima sega mentale della vita di ogni bambino.
Per un adulto, invece, essere continuamente svalutati dal compagno o dalla compagna, non è sicuramente questione di vita o di morte, e nemmeno di essere più esposto ai pericoli. Qui il problema di farsi proteggere è immaginario, mentre è reale quello di un rapporto di coppia scadente, ma sulla base di una sega mentale che dura da una vita, si continuano a coltivare pensieri non attinenti alla realtà (tipo: “mi sacrifico per amore della famiglia” o “avere un figlio aggiusterebbe il rapporto”).
Con la psicoterapia, la presa di coscienza e l’aumento di consapevolezza ricollocano il problema e redirigono il flusso dell’energia mentale alle soluzioni reali di problemi reali, come chiarire la situazione con il proprio partner ed eventualmente separarsi.
Con la meditazione invece è diverso.
Pur rimandando un approfondimento alla lettura del libro di Giacobbe e ad altre considerazioni sul tema che compariranno in futuro sul blog, voglio anticipare che con “meditazione” intendo la pratica di ottenere il silenzio interiore. Cioè acquietare la mente e far cessare la produzione di pensiero: un estintore di seghe mentali.
Le tecniche per questa pratica sono molteplici e sono state iniziate e perfezionate da millenni per lo più nelle culture orientali, ma tutte condividono un elemento: sono ossessive.
Ad una vittima di seghe mentali, cioè di una produzione incessante e ricorrente di pensieri, la proposta di una tecnica ossessiva, come la ripetizione di un mantra, la ripetizione di un gesto, la concentrazione su un solo oggetto o idea ecc., può sembrare paradossale: “per far cessar la tosse devi tossire”.
In effetti non è proprio così. Per far cessare le seghe mentali, devi fartene una di un certo tipo (Giacobbe le chiama “benefiche”), cioè si sfrutta la predisposizione nevrotica (che tutti gli umani hanno) alla ripetizione ossessiva e le si dà in pasto qualcos’altro. Si tratta cioè di spostare la carica ossessiva su un oggetto neutro che, non generando incrementi di tensione, non si autoalimenta come nel caso della catena in retroazione ‘nuovo problema’-‘nuova azione simulata’, ma diminuisce spontaneamente e gradualmente.
E’ evidente che il silenzio interiore non può durare sempre (a meno di essere morti o illuminati), cioè dovendo vivere una vita reale attiva il pensiero (per fortuna) si ripresenterà. E’ chiaro che se poi, per poca consapevolezza, si continua a buttare benzina sul fuoco, l’estintore diventa una sega mentale come tutte le altre (Giacobbe le chiama “malefiche”). Ovviamente anche la stessa psicoterapia può diventarlo. Accoppiandole, se non si produce una doppia sega mentale forse si riesce ad arrivare da qualche parte.

Marcello

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