Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 23 gennaio 2010

Giustizia e salute


1. Vorremmo fare alcuni confronti fra il modo in cui la società amministra la giustizia e il modo in cui tutela la salute.
Si parla, soprattutto in questi tristi tempi (caratterizzati da inquietanti tentativi di ridimensionare il ruolo della magistratura), della “divisione dei poteri”. Tale principio, affermato da Montesquieu, su cui si sono fondati gli ordinamenti liberali del XIX secolo e le democrazie contemporanee è stato recepito anche dalla Costituzione italiana. Esso afferma che i tre poteri fondamentali dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) non debbano stare nelle stesse mani. Dando per scontata la validità di questo principio, vorremmo considerare il potere giudiziario, non in relazione agli altri due poteri dello stato, ma in relazione ad altri “poteri” (o servizi), intesi in senso più ampio e non necessariamente riguardanti lo Stato.
Si parla, infatti anche del potere dei medici o dei cattedratici o dei militari o dei giornalisti, e l’espressione è corretta, perché la gestione di capacità di qualsiasi tipo determina comunque un potere. Tuttavia, in questi ambiti sono comuni anche espressioni come “sevizio sanitario”, “servizio scolastico”, “servizio militare” e “servizi giornalistici”. Nella nostra lingua manca invece l’espressione “servizio giudiziario”, o almeno chi usa questo termine mostra una sensibilità molto particolare (G. Caselli-L. Pepino, 2005, A un cittadino che non crede nella giustizia, Bari, Laterza, rist. 2008, cap.8). Vorremmo quindi fare qualche riflessione su questo strano uso linguistico per cui si dà per scontato il “potere” ma non il “servizio” giudiziario.

In realtà, quando la “macchina della giustizia” funziona in modo impeccabile svolge un servizio importantissimo. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri magistrati che hanno rischiato e sacrificato la loro vita svolgendo il loro compito istituzionale, non sono semplicemente un simbolo del “potere giudiziario”, ma sono testimoni di un “servizio” svolto nei confronti della società. Eppure, mentre si dice abitualmente che un magistrato può essere al servizio della giustizia, si può definire solo con una forzatura linguistica il sistema giudiziario come un “servizio” alle persone.

Chiedendoci se questo uso linguistico riflettesse qualche realtà abbiamo concluso che forse nell’ambito del diritto e delle leggi c’è davvero un pregiudizio culturale che induce sia i giuristi, sia i magistrati, ad una certa autoreferenzialità e che determina un certo distacco fra il loro contributo (che è anche un servizio) e le vite reali delle persone.
Pur non essendo tifosi del Servizio Sanitario Nazionale, che consideriamo molto scadente sotto tanti aspetti, dobbiamo riconoscere che nella sua articolazione essenziale e nelle procedure fondamentali a cui si attiene è abbastanza razionale. Il fatto che ci siano degli ospedali, che negli ospedali ci sia un servizio di Pronto Soccorso e che tale servizio disponga di ambulanze ha una sua logica e corrisponde alle esigenze delle persone che necessitano di cure mediche.
Se una persona in novembre ha la tosse o male ad un braccio, va dal medico di base e aspetta il suo turno. L’attesa è probabilmente troppo lunga per i suoi gusti ed è anche aggravata dal ricevimento dei rappresentanti delle case farmaceutiche. Però, dopo l’attesa, il paziente viene visitato. Non viene “registrato” per essere convocato in primavera. Se un medico di base agisse così, verrebbe radiato dall’Ordine, nel caso in cui riuscisse ad evitare un linciaggio.

Nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, invece, capita proprio qualcosa del genere: se una persona riceve un danno e decide di avviare una causa, dopo mesi viene convocata in prima udienza. Tale udienza è però semplicemente un’occasione per sbrigare alcune formalità e per fissare la data della seconda udienza, che comunque cadrà dopo vari mesi o anche dopo un anno. Entro alcuni anni si concluderà la causa. Questa prassi è quella abituale e non si attua solo nei casi di particolare complessità. Come se la missione del giudice si riducesse alla definizione di sentenze “buone” sul piano dell’equità ma non necessariamente “buone” sul piano dell’utilità. Un’azienda che fallisce per mancati pagamenti sarà soddisfatta di veder riconosciuto il danno, ma solo in tempi utili, cioè prima di fallire.

E’ doveroso fare una breve precisazione: non stiamo portando acqua al mulino di chi in questi giorni cerca di “imporre per legge” i cosiddetti “processi brevi”. Le manovre in corso mirano a far morire i processi in corso (a vantaggio di una sola persona con processi in corso da cui non può aspettarsi sentenze favorevoli): mirano a far morire i processi che non si concludono in tempi prestabiliti, anche se tali tempi non possono essere rispettati, dato che non esistono al momento le condizioni oggettive per concludere davvero, in tempi brevi, i processi. Parleremo, quindi, della necessità di processi davvero brevi (cioè portati a termine in tempi brevi) e non degli incubi del momento. Chiusa la parentesi, possiamo tornare al nostro discorso.

Un artigiano che conosciamo non ha potuto incassare il saldo di un lavoro svolto per un cliente molto agiato (considerando la villa in cui risiede), ma ha dovuto “incassare” al posto di scuse o promesse (non soddisfacenti, ma almeno educate) una frase di questo tipo “Io non pago nessuno, mi faccia pure causa!”. Queste sfide, che aggiungono al danno economico l’affronto personale, sono rese possibili da un’amministrazione della giustizia autoreferenziale, cioè focalizzata sul proprio essere ordinata, impeccabile nelle procedure ed equa, ma non sull’esigenza di protezione percepita dalle persone che subiscono ingiustizie.

Il nodo da sciogliere è forse proprio quello della funzione del diritto in una comunità, soprattutto in una comunità complessa come quella costituita da uno Stato nazionale. Mentre nella comunità tribale il diritto riflette la consuetudine e viene garantito nella sua efficacia dalla presenza e dalla partecipazione di tutti, in una società complessa il diritto non solo dovrebbe essere più articolato, ma dovrebbe anche produrre conseguenze più tangibili. In altre parole, in una società di persone fondamentalmente sole rispetto all’insieme di cui fanno parte, è particolarmente importante che le regole della convivenza si traducano in prassi efficaci a garantire i diritti, se questi vengono calpestati. La medicina ha fatto questo salto. Non c’è più la capanna dello stregone al centro del villaggio, perché il villaggio è diventato un gigantesco labirinto, però gli stregoni si sono adattati alle circostanze e, pur con i loro limiti specifici, hanno trovato i modi per accorciare le distanze fra loro e chi soffre. Il “lento soccorso” è, fortunatamente un concetto estraneo alla mentalità medica. Quando si verifica, rientra fra le inadempienze, fra gli errori, fra le casualità, ma non rientra “nella prassi”.

Sia la sfera della giurisprudenza, sia quella dell’esercizio effettivo del potere giudiziario procedono con estrema serietà e ponderazione, ma (a differenza delle teorie e della prassi della medicina) non hanno ancora trovato il modo calarsi “con la forza della sollecitudine” nella sfera dell’esistenza reale delle persone che cercano giustizia. Forse, proprio per questo motivo, è assente nella lingua parlata l’espressione “servizio giudiziario”.
Di fatto, in molti casi, anche se non sempre, quando una persona “cerca giustizia” si trova in una situazione di vulnerabilità. In una situazione in cui la sua esistenza è, a qualche livello, danneggiata o minacciata. Tale persona, in questa situazione, non aspira “ad ottenere ragione, prima o poi”, ma ad essere difesa e tutelata al più presto.
Ci sono persone che nei condomini vengono perseguitate da persone intrattabili e disturbate, a causa degli “schiamazzi” dei bambini e ci sono coppie che si separano perché uno dei due coniugi crea dei problemi ai figli. I tempi di un intervento della magistratura dovrebbero essere in questi casi i tempi dei bambini e non quelli del sistema giudiziario. Così come i tempi di un’emergenza in ambito medico sono quelli della persona che soffre: se non basta l’ambulanza si interviene con l’elicottero.
Ci sono anche cause (forse da scoraggiare, ma non da ritardare) che vengono intentate senza una vera necessità, e che quindi sono dei lussi, ma non è su queste eccezioni che la “macchina della giustizia” dovrebbe regolare il proprio funzionamento.

Quali che siano le soluzioni ipotizzabili (una moltiplicazione dei giudici di pace, una riorganizzazione delle procedure, ecc.), dobbiamo sottolineare l’inadeguatezza delle prospettive riformiste prospettate [cfr. il POST I tempi della giustizia e i tempi delle persone], perché esse non comportano un ripensamento del “potere” giudiziario nei termini di un servizio. In quanto potere, il sistema giudiziario è un aspetto importante dello Stato e “dialoga” con il potere esecutivo e legislativo, mentre proprio in quanto servizio può “dialogare” con i cittadini.

In altri post sono stati toccati vari aspetti della società e della cultura che calpestano l’esistenza delle persone. Gabbie istituzionali, ideologiche e mentali che disturbano la qualità del tempo vissuto soggettivamente o portano le persone a vivere con carichi inutili di sofferenza. Anche il diritto e l’esercizio del potere giudiziario hanno la possibilità di rispettare o calpestare l’esperienza di esistere che ogni persona fa continuamente. In certi momenti critici, le persone cercano il sostegno della comunità e quindi l’intervento di chi amministra la giustizia. Proprio perché la società ha superato il concetto del “farsi giustizia da sé” deve garantire nei modi e nei tempi delle necessità personali che la giustizia venga amministrata da chi, nella società, ha questo incarico (cioè svolge questo servizio).
Si consideri poi che un’amministrazione della giustizia che non funziona come un servizio, oltre a danneggiare le singole persone che non trovano il sostegno di cui hanno bisogno, determina una separazione fra persone e società. Se lo Stato non accoglie l’esigenza dei cittadini di convivere con i loro simili nel modo migliore, genera in essi una lacerazione interna: come persone si sentono soggetti, ma come cittadini si sentono oggetti (calpestabili) e quindi si sentono non realmente appartenenti alla società, con tutte le conseguenze che tale sentimento può comportare.

2. Il “diritto” è definito come un “Complesso di norme, imposte con provvedimenti legislativi, o vigenti in forza di consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee” (Devoto-Oli). Il diritto, quindi può tradursi in leggi o essere parte di una tradizione. In ogni caso regola i rapporti fra i membri di una comunità o fra più comunità.

Il termine “cura”, sempre per lo stesso dizionario, ha due significati distinti, che nel caso dell’esercizio della medicina dovrebbero però intrecciarsi. Nella prima accezione, il termine è sinonimo di “premura”, mentre nella seconda è sinonimo di “terapia”. L’intreccio in questione non si verifica sempre, ma il codice deontologico dei medici lo prevede.

Il concetto di persona si colloca esattamente in un punto di intersezione fra il corpo (l’organismo di cui si occupano i medici) e la società (con i suoi ordinamenti di cui si occupano giuristi e magistrati).
L’avere organi e tessuti non esaurisce il fatto di essere una persona, dato che quando pretendiamo di “essere trattati come persone” rivendichiamo di essere trattati con cura e non solo di non essere maltrattati sul piano fisico. Anche il fatto di appartenere a qualche segmento della società non esaurisce il nostro essere persone: possiamo essere maschi o femmine, genitori o figli, ricchi o poveri, di destra o di sinistra, ma nessuno si considera persona per tali o altre “appartenenze”.
Il diritto regola la convivenza sociale delle persone e si ispira (o dovrebbe ispirarsi) ad un ideale di giustizia. La medicina si occupa degli organismi delle persone e si ispira (o dovrebbe ispirarsi) ad un modello di cura, sia nel senso di “curare”, sia nel senso di “aver cura”.
In pratica, poiché la persona è collocata fra il proprio organismo e le relazioni sociali, la medicina e il diritto possono aver cura della persona proprio intervenendo in uno dei due ambiti che delimitano (verso “il basso” e verso “l’alto”) la dimensione personale.

Il concetto di persona è un concetto complesso, con una storia tormentata, ma è un concetto che continua a imporsi appena si parla di cose serie.
Etimologicamente rinvia alla maschera teatrale (prosopon) dell’antica Grecia ed al verbo latino che descriveva la voce dell’attore, che attraversava il foro della maschera (personabat). Stranamente l’etimologia sembra “allontanarci” dalla persona reale (l’attore-persona) e indicarci un “personaggio” (cioè una finzione), ma nella rappresentazione teatrale l’attore “dava vita” ad un personaggio, in quanto mirava a rappresentare il suo modo di pensare, sentire, relazionarsi con gli altri e costruire nel tempo una storia personale caratterizzata dalle finalità perseguite. Quindi, quando usiamo il termine “persona”, ci riferiamo alla “vera realtà” dell’individuo, e non alla sua possibilità di fingere o “recitare un ruolo”.
La storia del concetto di persona, nell’antropologia filosofica si sviluppa dal diritto romano alle dispute teologiche sul concetto di “persona” nella Trinità divina e prosegue in tale sviluppo con le varie definizioni che accentuano la razionalità individuale, oppure la manifestazione dell’identità nel tempo, oppure la capacità di agire moralmente o di interagire con gli altri.

Daniel C. Dennett, un autore non certo sospetto di tendenze metafisiche, ha elencato alcuni aspetti che concorrono a delineare il concetto di persona (1978, Brainstorms, trad. it. Adelphi, Milano, 1991): a) le persone sono esseri razionali, b) alle persone si possono attribuire stati di coscienza e si possono ascrivere predicati psicologici intenzionali, c) di conseguenza, le persone vengono trattate con atteggiamenti che presuppongono le caratteristiche di cui sopra, d) le persone sono in grado di contraccambiare tali atteggiamenti, e) le persone sono capaci di comunicare verbalmente, f) le persone sono autocoscienti. Tralasciando tutte le discussioni filosofiche e scientifiche relative a questi sei punti ed alle relazioni o dipendenze fra essi, possiamo dire che l’insieme di questi aspetti delinea una complessa consapevolezza della propria vita e di quella degli altri, una particolare capacità di sentire-capire e quindi un fragile ma “corposo” “mondo soggettivo”. Il concetto di persona rende questa realtà in modo molto più adeguato del concetto di individuo (più “quantitativo” che “qualitativo”). Le persone, ovviamente, sono individui, e anche cittadini, elettori e tante altre cose, ma quando la politica si rivolge ai cittadini lasciando fra parentesi il fatto che sono persone, tradisce la sua specifica funzione.
Emmanuel Mounier (1905-1950), ha sottolineato l’importanza del concetto di persona sia nella riflessione filosofica, sia nella prospettiva di un cambiamento sociale e politico (1947, Che cos’è il personalismo?, trad.it, Torino, Einaudi, rist. 1975). Proprio partendo da questo punto di vista, ha sollecitato, dopo la crisi del 1929 sia gli spiritualisti, sia i marxisti ad un impegno comune.

3. Riprendendo il filo dei concetti esaminati, possiamo sottolineare che il diritto, la politica, tutti gli ambiti in cui ci si prendono responsabilità che possono avere conseguenze sull’intera esistenza delle persone, dovrebbero riconoscere e tutelare il valore (o la sacralità) delle persone.
C’è molta strada da fare, ma forse si può dire che in linea generale questa è la tendenza della giurisprudenza contemporanea: “Il processo di personalizzazione del diritto incarna un valore che oggi appare fondamentale, la persona come soggetto irripetibile, non seriale, che esige di essere preso in considerazione dal legislatore come tale, nella concretezza dei suoi rapporti sociali. I principi, più che le regole, servono a questo scopo” (G. Zagrebelsky, 2008, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, p.217).

Ogni aspetto dell’esistenza di una persona è connesso alla sua intera esistenza e quindi qualsiasi intervento esterno sulla vita di una persona (come pure qualsiasi scelta della persona) modifica tutto il campo di possibilità della sua esistenza e, in qualche misura, la vita di tutte le persone con cui interagisce e interagirà. Ogni esperienza è irripetibile, e insostituibile e trattare le persone come oggetti equivale ad esercitare una vera violenza.

Un esempio elementare può rendere questa idea: X ruba la bicicletta a Y. Niente di gravissimo, in termini economici, ma Y con la bicicletta stava raggiungendo un gruppo di amici per una gita in cui avrebbe conosciuto Z (una persona con cui sarebbe potuta sbocciare una grande amicizia, un grande amore, una collaborazione scientifica, ecc.). Lo stupido furto di una stupida bicicletta può cambiare tutta la vita di Y perché Y non incontrerà mai più Z (che era di passaggio in Italia e casualmente invitato/a a quel raduno di ciclisti). Anche i gesti belli incidono sulla vita delle persone, nel bene e nel male, ma i reati incidono comunque creando un danno e poi modificando tutta la vita della persona che si svolgeva in una direzione in cui quella persona si era presa la responsabilità di muoversi. I danni di un reato sono gravissimi, in una prospettiva personalista e l’inefficienza del sistema giudiziario costituisce un danno ulteriore dello stesso ordine di gravità … a meno che consideriamo il cittadino come un insignificante “oggetto” che ha il “possesso” di un’insignificante bicicletta.
Quando le persone subiscono un’ingiustizia vengono danneggiate e il danno è un cambiamento della loro intera vita. Può, nell’immediato essere un danno modesto se l’ingiustizia non è un omicidio o un grave maltrattamento, però tale danno cambia in qualche indefinibile misura tutta la vita della persona, anche se non è particolarmente grave.
Un mancato pagamento può mettere in gravi difficoltà una piccola ditta. Può determinare dei licenziamenti o può, con altri mancati pagamenti determinare un fallimento. Un fallimento comporta un cambiamento nella vita di molte persone, comporta frustrazioni, rinunce, sofferenze. Anche un mancato pagamento di entità modesta, può essere traumatico se la persona danneggiata è in condizioni già difficili. Un omicidio toglie la vita ad una persona, ma reati minori, tolgono quella particolare vita ad una persona: la vittima della truffa o dell’ingiusto licenziamento o del furto può dover “cambiare vita” dopo aver subito un’ingiustizia, anche solo sul piano economico. Se si tolgono mille euro ad una persona ricca gli si toglie solo la possibilità di spendere mille euro. Se si tolgono mille euro ad uno studente lavoratore, gli si toglie la possibilità di dare alcuni esami o di laurearsi nei tempi previsti, e così via.

Se si parte da una prospettiva personalista, si deve considerare che qualsiasi reato, indipendentemente dalla sua “quantificabilità oggettiva” può essere grave perché in molti casi incide su tutta la vita della persona ed in alcuni può comprometterla gravemente.
La “macchina della giustizia”, quindi, non deve essere paragonata a se stessa perché, in tale prospettiva, anche la prospettiva di avere dei processi lenti, ma meno lenti che in passato, sarebbe da considerare “un buon risultato”. L’amministrazione della giustizia deve invece essere valutata in relazione alle situazioni su cui interviene: una giustizia “migliorata” che non svolge un servizio adeguato alle esigenze delle persone, resta un disastro anche se risulta meno disastrosa.

Elisa e Gianfranco


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