Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 16 gennaio 2010

I tempi della giustizia e i tempi delle persone


“La durata del processo non deve andare a danno di chi ha ragione”
(Giuseppe Chiovenda 1872-1937)


Ci rendiamo conto di toccare una questione “non urgente”, in un periodo delicatissimo della storia del paese. Di fatto, parlamentari pregiudicati e condannati per mafia e altri gravi reati stanno sfornando leggi che aboliscono reati scomodi per loro stessi e con cui mirano a bloccare la già arrugginita “macchina della giustizia”. Nel DVD L’intervista nascosta (fatta a Paolo Borsellino), distribuito con il giornale Il Fatto Quotidiano è inclusa un’intercettazione di due telefonate intercorse tra il presidente del consiglio e un suo collaboratore in cui parlano di loro conoscenti mafiosi. Queste cose sono gravissime anche se non ne parla quasi nessuno.
In questa situazione, una riflessione sul rapporto fra persona e società, fra diritto e legge, fra amministrazione della giustizia e qualità della vita delle persone può provocare una sensazione strana, come una chiacchierata sul calcio in sala operatoria. Nonostante ciò, dobbiamo tener presente che questo blog non è un blog di informazione o di dibattito politico sulle vicende del momento.
La nostra preoccupazione per il graduale passaggio dalla democrazia ad un regime autoritario e per l’atteggiamento imbelle di un’opposizione collusa con il potere, è fuori discussione (cfr. www.voglioscendere.it/). Tuttavia, anche in tempo di guerra non tutti sparano. C’è chi lavora i campi, chi munge le mucche e chi insegna i congiuntivi ai bambini. In guerra non si ferma la vita e parlando della vita non vogliamo quindi negare la guerra in corso. Non avendo un fucile cerchiamo semplicemente di raggiungere la scuola e di scrivere sulla lavagna pensierini sensati, magari sulla pace.

C’è un'altra ragione per queste nostre riflessioni. Un’alternativa all’attuale situazione politica non è possibile solo con una lotta ai partiti reazionari e alla corruzione. E’ vero che un governo composto da persone oneste e progressiste sarebbe già una meraviglia, rispetto allo squallore attuale, ma avrebbe le gambe corte se ambisse solo ad amministrare con diligenza una società da tempo male amministrata.
Di fatto il crollo della sinistra è avvenuto su tre fronti:
a) su quello strettamente elettorale, l’annacquamento degli obiettivi egualitari, laicisti e libertari non ha portato più voti,
b) su quello morale, la collusione delle dirigenze dei partiti di sinistra con il potere ha trasformato i partiti in carrozzoni e
c) su quello culturale, la diluizione, nella sinistra, del valore attribuito alla persona ed alla solidarietà, ha allontanato dalla politica proprio chi aveva le caratteristiche adatte per diventare nuova classe dirigente.

Chi nella sinistra è artefice di questo disastro si sta dedicando a completarlo, per incassare un’altra tranche dei trenta denari pattuiti. Chi invece, sempre nella sinistra, si ribella allo sconcio degli “inciuci” reclama onestà, scambiando però una condizione necessaria del cambiamento per una condizione sufficiente.
Per tali motivi, ben vengano i richiami etici al buon governo di Grillo, Di Pietro e Travaglio e le corrispondenti denunce del disastro in corso, ma occorre che nella sinistra maturi un’idea di cambiamento sostenuta da valori più articolati del semplice valore dell’onestà nella gestione della cosa pubblica.

Noi non aspiriamo a tornare agli anni cinquanta, perché ciò equivarrebbe a rinunciare al futuro, ad un futuro condiviso e ad un futuro migliore del passato. Negli anni cinquanta, la democrazia, ancora vibrante di energie nuove e compiaciuta per la vittoria (costata cara) sul nazifascismo, era una democrazia debole e proprio per questo è diventata presto la democrazia concordataria e la razionalizzazione del neocapitalismo. Non ha senso voler “tornare là”: la sinistra filosovietica aveva una cultura non meno integralistica della DC e gli integralismi crollano o sotto la spinta di valori più forti o sotto la spinta di pressioni da parte del potere. La sinistra post-resistenziale, troppo impegnata a difendere il comunismo non ha fatto maturare un coerente umanesimo socialista egualitario e libertario e quindi i dogmi di sinistra si sono sfaldati divenendo dogmi centristi, dogmi generici. La stessa cosa è avvenuta nel mondo “cattolico”.

Proprio per questa ragione, a nostro parere, le spinte libertarie ed egualitarie esplose negli anni ’60 e ’70 sono state sconfitte sia dagli estremismi e dai servizi segreti, sia dal “nulla” di un comunismo annacquato e di un integralismo cattolico annacquato. Di fatto non si è compiuto un processo di reale integrazione dei valori profondi del cristianesimo e del socialismo. Alla fine ha vinto il capitalismo costruendo un vuoto di valori (la postmodernità della “cultura televisiva di massa”) sulle ceneri di un rigido marxismo in frantumi e di un bigottismo egualmente in frantumi. Del PCI è rimasto l’apparato “burocratico (neo)partitico” e del cristianesimo è rimasto il sistema bancario del Vaticano e l’apparato organizzativo-parrocchiale.

Ci rendiamo conto di sputare un po’ di sentenze sui massimi sistemi, però questo ci serve per parlare del modo in cui oggi si affronta il “problema della giustizia”. Detto questo, proviamo a mettere da parte per un attimo il governo “ammazzaprocessi” e vediamo nei suoi aspetti più generali il rapporto fra persona, potere giudiziario e Stato.

Nell’età moderna, con la formazione degli Stati nazionali, il diritto è stato ricondotto, in pratica, alle leggi. Tuttavia il diritto è nato molto prima e si è sviluppato in tutte le situazioni in cui certe consuetudini si affermavano perché venivano riconosciute come giuste e venivano quindi osservate dai membri della comunità o gruppo o società che le aveva generate.
Oggi, la complessità della struttura socio-politica e la relativa distanza fra il singolo e la collettività crea una distanza fra ciò che il soggetto sente e ciò che “è tenuto a fare” nei confronti della società. L’individuo si sente facilmente costretto ad “obbedire” alle leggi, piuttosto che disposto ad “osservare” dei principi di un diritto riconosciuto dalla comunità di cui è parte integrante. Questo aspetto meramente costrittivo del diritto ridotto a norme, colloca la persona in una “non-comunità-di-persone” e ostacola la sua possibilità di sentirsi parte integrante della comunità-società.

I nostri genitori ci raccontavano che ai tempi dei nostri nonni, in Piazza del Popolo, a Ravenna, si combinavano gli affari con una stretta di mano. Il mancato rispetto di un accordo riconosciuto dalle due persone e dagli astanti come un buon accordo, era davvero un’eventualità rara e comportava per il trasgressore la perdita del rispetto da parte di tutti. Oggi è pura fantascienza l’idea di concordare a voce e siglare con una stretta di mano, un accordo commerciale con una ditta che ha sede legale in Romania e produce in Cina. Ma già da prima la crescente complessità della realtà sociale e politica aveva reso meno importanti le consuetudini consolidate in ambiti in cui ci si riconosceva come parte di un “tutto”.
Più lo Stato, attraverso i suoi organi legislativi e giudiziari tradisce i bisogni e i valori delle persone e più i cittadini sono demotivati a partecipare alla vita politica. Più il diritto si riduce ad un’accozzaglia di leggi e più tali leggi vengono trasgredite o rispettate solo per paura di sanzioni o pene. Vale, ovviamente anche il contrario: più lo Stato opera (attraverso i suoi rappresentanti) in modo rigoroso, sensato e rispettoso delle esigenze delle persone e più i cittadini partecipano attivamente alla vita sociale politica, più si afferma un senso del diritto che fa pensare alle leggi come all’espressione di principi validi.

Nel nostro paese, da molti anni la legislazione risulta in parte obsoleta e in parte demenziale [cfr. il POST Cultura del controllo e cultura del rispetto]; inoltre, in certi casi è applicata con crudele perfezione (il classico arresto del terribile criminale che ha rubato due mele), mentre in altri casi non viene per vari motivi fatta rispettare. In questa situazione, il cittadino non sente le leggi come l’espressione di un’autorità, ma come l’espressione di un potere bizzarro, incoerente, intrusivo e al contempo inefficace o incoerente.
In una società in cui per legge si stabilisce che gli automobilisti devono tenere i fari accesi di giorno è difficile rispettare la saggezza dei legislatori e l’autorità dei giudici. In una società in cui i mafiosi vengono scarcerati per decorrenza dei termini è difficile sentire lo Stato come un potere collettivo che protegge le persone.
Da un lato, quindi, c’è il problema di un diritto spesso “estraneo” alla vita reale delle persone, in quanto produce leggi insensate o produce leggi sensate che però non riesce a far rispettare. Da un altro lato c’è un’esigenza di protezione delle persone che viene in parte accolta dalle forze dell’ordine, ma che poi viene frustrata dalla “macchina della giustizia”.

Riportiamo l’esperienza di un amico che ha ricevuto, alcuni anni fa, una bolletta dell’Enel, ovviamente errata, per un importo di 4.000 €. L’Enel non ha concesso alcun incontro con il legale dell’associazione dei consumatori a cui egli si era rivolto e dopo un mese ha comunicato che l’erogazione dell’energia elettrica sarebbe stata interrotta se non si fosse effettuato il pagamento. L’avvocato ha chiarito che si sarebbe ottenuto un rinvio avviando una causa, ma la sede “competente” era Roma. Questa persona avrebbe quindi dovuto mettere in conto alcuni anni di scartoffie, viaggi, udienze e spese legali (successivamente recuperate, ma da anticipare). Questo amico ha concluso la storia con queste parole: “Ho calcolato il valore del mio tempo e della mia tranquillità e ho pagato tutto il (non)dovuto pensando che con quella cifra stavo evitando tutti i danni che “la giustizia” mi avrebbe inflitto per proteggermi”.

Ci sono situazioni anche più drammatiche.Alla pagina web
http://www.beppegrillo.it/2009/12/vitamina_grillo/index.html?s=n2009-12-03,
si può leggere, fra i commenti, la lettera di Franco F. che comunica al blog di Beppe Grillo la chiusura della sua azienda e il licenziamento dei dodici dipendenti. La vicenda è stata determinata sia dalla disonestà dei clienti, sia dall’amministrazione della giustizia. E’ sempre più diffusa la pratica di non pagare i fornitori o di rinviare i pagamenti fino a che questi non si accontentano di quattro soldi, ma tale costume è possibile semplicemente perché l’avvio di una causa teoricamente “già vinta in partenza” ha comunque dei tempi intollerabili.
In un altro caso, riportato alla pagina web
http://ilcentro.gelocal.it/dettaglio/vince-il-ricorso-reintegrato-al-lavoro-a-77-anni/1819148,
una persona è stata reintegrata al lavoro a settantasette anni, perché sono occorsi al tribunale quindici anni per pronunciare la sentenza.
“Nel 1987 la Corte europea dei diritti dell’uomo, in accoglimento della domanda di un cittadino italiano, condannò per la prima volta lo Stato italiano ai danni per la lentezza del suo processo civile” (F. Cipriani, I problemi del processo di cognizione tra passato e presente, pag. 22, in
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/convegni/roma20021114/doc/cipriani.doc).

Questi fatti inducono a pensare che la preoccupazione già manifestata nella prima metà del secolo scorso da Giuseppe Chiovenda cogliesse nel segno. Qualcosa di profondo rende ingiusta l’amministrazione della giustizia. Qualcosa che non è possibile “sistemare” con qualche provvedimento ragionevole o con stanziamenti economici adeguati. Pubblicheremo presto un post sul rapporto fra potere giudiziario e servizio sanitario, ma per ora possiamo ricordare una cosa ovvia: un intervento chirurgico serve quando un paziente è ancora vivo, non quando è già morto. Ciò significa che i “problemi della giustizia” non si risolvono solo bloccando le picconate dei demolitori e nemmeno oliando con qualche miglioramento il sistema, ma richiedono il ripensamento del ruolo dell’amministrazione della giustizia nella società: un ruolo di tutela della vita quotidiana delle persone e non un ruolo di semplice attuazione di principi di equità.

Sono presenti due disfunzionamenti nell’amministrazione della giustizia che si rinforzano a vicenda e hanno conseguenze significative sulla vita reale e vissuta delle persone.
Da un lato, moltissime cause estremamente semplici (ad esempio quelle che riguardano problemi condominiali – cfr. http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/cronaca/furbetti-condominio/furbetti-condominio/furbetti-condominio.html) vengono concluse in tempi che costituiscono un secondo danno per le persone danneggiate. Da un altro lato, questa massa ingombrante di cause banali da un punto di vista giudiziario, anche se spesso drammatiche per le persone coinvolte, rallenta gli sviluppi e le conclusioni di cause complesse e importanti per la maggior gravità dei reati esaminati e per le conseguenze personali o sociali delle vicende in questione.

Si devono trovare altri modi per dirimere questioni modeste che incidono sulla qualità della vita delle persone. Se non si trova il modo di “smistare in tempo reale” queste cause, non si consente alla magistratura di trattare con tempi inevitabilmente più lunghi, ma accettabili, le cause più complesse che richiedono l’esame di documentazioni, la valutazione di indagini impegnative e l’esame di molte testimonianze.

Nel quarto punto della proposta di programma dell’Italia dei valori, dedicato alla giustizia (http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/iosostengo/10punti.php) viene delineato un coerente sforzo volto a rendere più rapido e incisivo il lavoro della magistratura.
Di Pietro suggerisce una semplificazione dei processi (maggiori possibilità conciliatorie, ampliamento dei poteri d’ufficio del Giudice, riduzione di “inutili formalismi”, scoraggiamento dei ricorsi in Cassazione, ecc.). L’obiettivo è il completamento di ogni grado di giudizio nell’arco di un anno.
In una situazione in cui tante volte non vale nemmeno la pena “ricorrere alla giustizia”, queste parole sono musica per le orecchie. Tuttavia, il limite di questo (apprezzabile) insieme di proposte sta proprio nel fatto che non delineano un cambiamento profondo nella logica che ispira l’amministrazione della giustizia. Solo nell’incubo della realtà attuale l’idea di concludere un processo, magari semplicissimo in dodici mesi, cioè ben trecentosessantacinque giorni sembra una cosa buona. Ma non lo è.

L’alternativa, che non possiamo definire in termini più precisi, ma che con altri amici cercheremo di delineare in altri post, non deve focalizzarsi su un semplice snellimento dei meccanismi, ma deve mettere al centro le esigenze di chi chiede giustizia.
Un procedimento giudiziario impeccabile può dare una risposta giusta ad un quesito su chi è colpevole e chi non lo è, ma tale risposta, sganciata dal fattore “tempo” non è adeguata al bisogno di chi subisce un’ingiustizia. Il tempo non conta nell’ambito della ragione e del torto, perché una sentenza anche dopo anni può essere “equa”; il tempo però conta nell’ambito del bisogno perché una sentenza equa ma tardiva ha effetti su una situazione già deteriorata.

Gaetano e Gianfranco

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