Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

venerdì 10 settembre 2010

Vendetta e giustizia


Questo post nasce da una chiacchierata di vari mesi fa, stimolata dalla lettura del libro di Federico Stella (La giustizia e le ingiustizie, Bologna, Il Mulino, 2006) che avevamo entrambi utilizzato per scrivere altri post. Il lavoro di Stella è, in fondo, un lungo commento ad una frase, spesso ripetuta, da tante persone: “Mi capita spesso di sentire alla televisione o di leggere sui giornali la frase abitualmente pronunciata dai familiari delle vittime del male e dell’ingiustizia: ‘non voglio vendetta, ma giustizia’. Cercando di capire il significato di questo singolare appello alla giustizia, mi sembra di poter dire che esso o nasconde la verità, nel senso che l’appellante in realtà vuole la vendetta, oppure esprime il bisogno di una visione di salvezza indefinibile e mai raggiungibile” (p. 179).

Torneremo su questo testo prezioso e sulle riflessioni di Stella. Per ora, vogliamo anticipare che le tormentate discussioni che tale scritto ci ha sollecitato hanno avuto uno sbocco solo ora, dopo un’altra chiacchierata telematica riguardante il recente POST di Gaetano [Emmanuel Mounier e il personalismo]. Non siamo a conoscenza di contributi di Mounier sul tema, ma i suoi appassionati pensieri sui risvolti sociali e comunitari della vita delle persone, ci hanno dato un punto di riferimento.

La questione della giustizia è da sempre centrale nel dibattito politico, ma in questo periodo è quanto mai vivace, perché la giustizia nel nostro paese viene quotidianamente calpestata. Vediamo ogni giorno dei delinquenti mafiosi già condannati o persone colpevoli di imbrogli finanziari che si aggirano tranquillamente nel parlamento, operano nel governo ed esprimono il loro “punto di vista” conversando con i giornalisti. Nel silenzio generale e di fronte all’acquiescenza o alle deboli proteste della sinistra “ufficiale”, leggiamo disperati appelli alla giustizia, fuori dal coro, che si articolano in vari modi: dal “vaffanculo” alle denunce dettagliate, alle proteste di piazza contro questi oltraggi alla morale ed al diritto. C’è un’indignazione diffusa che riguarda vari temi strettamente intrecciati: la crisi economica non è piovuta dal cielo, ma ha a che fare con manovre speculative nazionali ed internazionali e produce una sofferenza diffusa che colpisce gli strati sociali più deboli, mentre quelli privilegiati sfornano leggi vergognose e continuano a fare affari. Molta gente è infuriata e guarda alla magistratura come all’unica arma disponibile, ma verifica ogni giorno che è un’arma scarica, dato che l’intrico di leggi e leggine in vigore consente l’impunità per prescrizione anche ai responsabili accertati di vicende gravi in cui “affaristi”, politici, corrotti e mafiosi sono andati a braccetto.

C’è un desiderio di giustizia, ma anche di vendetta, che aleggia nelle conversazioni di tutti i giorni che riassume nell’idea secondo cui sarebbe giusto “sbattere certa gente in galera e buttare la chiave”. Questo sentimento, in realtà, non è nuovo anche se in passato toccava singole vittime di violenze personali. Ma andando indietro ritroviamo lo stesso dramma nelle persone vittime dell’olocausto, di colpi di stato, di guerre assurde, di guerriglie non sempre comprensibili, o del terrorismo.

Insomma, se è difficile elaborare i lutti riguardanti semplici perdite inevitabili e non imputabili a nessuno, è a maggior ragione difficile elaborare i lutti in cui qualcuno ha fatto del male e ha determinato una sofferenza personale o collettiva. Di fronte alla violenza sociale e all’esercizio irrazionale del potere politico, le singole persone hanno sia dei lutti personali da affrontare, sia la responsabilità di “prendere posizione, assieme ad altri” sulle ingiustizie subite. La tensione fra desiderio di vendetta e di giustizia assume dimensioni particolarmente evidenti quando riguarda tante persone. La vicenda di Piazzale Loreto non è certo stata una pagina gloriosa della storia della nostra democrazia, come non lo è stata l’esecuzione di Saddam Hussein. Bisogna dunque stare attenti quando ci si richiama alla giustizia, perché se è veramente necessario affermare dei principi e tradurli in leggi e in processi, occorre capire quali fantasmi e quali valori si agitano negli animi dei singoli e dei gruppi che vengono colpiti da qualche forma di violenza.

Il discorso vale anche per violenze più modeste, che però a volte distruggono comunque equilibri personali e famigliari: si pensi agli operai licenziati da una piccola ditta che “fallisce con i soldi”, o al piccolo imprenditore che deve subire degli insoluti da parte di clienti che approfittano del fatto che i tempi della giustizia sono a loro favorevoli [Cfr. il POST I tempi della giustizia e i tempi delle persone e il POST Giustizia e salute].

Il dramma del desiderio di vendetta di fronte all’arroganza dei criminali è stato ben rappresentato, ad esempio, in due film molto conosciuti e diretti da grandi registi. Nel film Gli intoccabili (di Brian De Palma) un poliziotto fa cadere nel vuoto, dopo aver cercato di arrestarlo, un killer spietato che gli grida provocatoriamente che i suoi avvocati lo tireranno fuori, come sempre, con dei cavilli. Nel film C’era una volta il west (di Sergio Leone) un ragazzo si prepara per vent’anni ad un duello con la persona che ha ucciso il fratello ridendo. Negli episodi cruciali dei due film, abbiamo la sensazione che la morte del criminale, in fondo, rimetta le cose a posto e facciamo fatica ad esprimere una condanna, anche se dobbiamo considerare moralmente discutibili le scelte dei due personaggi.

Se vogliamo affermare dei principi radicati nella nostra coscienza, per andare oltre il limite angusto e irrazionale della vendetta, dobbiamo però capire che tale sentimento è un sentimento che, magari in quantità minime, può insinuarsi nella nostra vita quotidiana e può anche inquinare la nostra concezione della politica.

Il rancore è una sfumatura dell’odio in una situazione che non è più modificabile con la rabbia della lotta: un danno è già stato fatto e non è quindi possibile alcun uso costruttivo della rabbia. Il rancore (che diventa facilmente desiderio di vendetta) è un’emozione irrazionale, che serve unicamente a bloccare il contatto con il dolore per ciò che è già avvenuto. Non riduce il dolore, che è comunque “dato”, ma solo la consapevolezza di tale dolore. Purtroppo impedisce anche l’elaborazione di un lutto e “avvelena la vita” di chi attiva tale risposta emotiva. Abbiamo già toccato nel blog il tema della rabbia irrazionale nel POST Alfabetizzazione emozionale (seconda parte) e non torneremo sull’argomento, se non per ricordare che la rabbia è razionale quando è costruttiva, cioè nei casi in cui combattere è l’unico modo per salvare qualcosa.

Se il rancore è un fardello inutile e dannoso per le singole persone, l’ideale di una società che amministra la giustizia per “colpire” i colpevoli di delitti costituisce un analogo fardello che pesa sulla convivenza civile.

Molta strada è stata fatta da quando il diritto includeva principi punitivi che altro non erano se non una razionalizzazione della vendetta. Dalla legge del taglione del Vecchio testamento (teorizzata anche nell’età moderna, ad esempio, da Kant) ad oggi, molte cose sono cambiate nelle leggi ed anche nella mentalità dei cittadini. Giudichiamo con incredulità e indignazione i pochi Stati che applicano ancora la pena di morte e riteniamo ingiustificabile la tortura anche nei confronti dei terroristi. In un buio passato, nemmeno troppo recente, si applicava la pena di morte quasi ovunque ed erano previste anche le “pene corporali”.

Sono bellissime le pagine scritte da Camus sulla pena di morte (Riflessioni sulla pena di morte, 1957, trad. it. Edizioni SE, Milano, 1993) e meritano di essere ricordate varie idee espresse da Cesare Beccaria, sicuramente “avanzate” per i suoi tempi. Pur ragionando nel quadro di una giustizia retributiva, Beccaria ha sottolineato il ruolo rieducativo delle pene e ha affermato che lo scopo delle stesse è quello di scoraggiare i crimini, chiarendo che a questo proposito non è la severità, ma la certezza della pena, ad avere una funzione deterrente. Egli ha scritto: “E’ meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità, o al minimo d’infelicità possibile” (Dei delitti e delle pene, 1764, rist. Milano, Universale Economica, 1950, p. 93). Inoltre, Beccaria ci ricorda che la legge non deve mai trascurare che viene applicata a delle persone: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa” (op. cit. p. 70).

Federico Stella porta alle estreme conseguenze la demolizione della concezione punitiva della giustizia. Sul piano del diritto civile è possibile applicare una giustizia riparativa, ma quando si entra nell’ambito del diritto penale la giustizia non può “riparare” alcun danno: chi ha perso una persona cara non può “recuperare” nulla se l’assassino riceve l’ergastolo.

Dobbiamo seguire Stella nei suoi ragionamenti se vogliamo stabilire che la risposta della società al crimine deve essere ragionevole e non deve esprimere un bisogno irrazionale di vendetta. Chi ha subito delle violenze private o politiche non ha più la vita che aveva prima e tale fatto resta immodificabile, sia che i colpevoli siano incarcerati, sia che ricevano una medaglia e una vacanza premio. Ora, poiché tutti pensiamo che la società debba “intervenire” quando si verificano dei crimini, attivando la macchina della giustizia, dobbiamo capire bene se tale intervento deve costituire una vendetta affidata alla società o se deve avere un altro significato.

“Sotto il profilo pratico, il modello della giustizia intesa come … speranza in una futura visione di salvezza, pur apprezzabile come tutte le speranze è chiaramente insufficiente per una definizione dell’idea di giustizia: per l’etica popolare la giustizia non può limitarsi ad una speranza, ma deve incarnarsi in qualcosa di concretamente tangibile, cioè in una riparazione dei torti, in un recupero delle perdite subite, in un premio per le sofferenze patite” (p. 221). Stella, evidenzia però che né le atrocità sociali né i crimini individuali rendono ipotizzabile alcuna giustizia intesa in tal senso: “la definitività della sofferenza e delle perdite subite fa capire che i torti non possono essere in alcun modo riparati e che in alcun modo possono essere recuperate le perdite (…) il riscatto non è possibile con la vendetta, perché a nulla serve l’inferno per i carnefici, quando il martirio è già avvenuto” (pp. 221-222). Stella si aggancia qui alle riflessioni di Luderssen, uno studioso europeo di discipline penalistiche, secondo cui il diritto penale è un anacronismo.

Klaus Luderssen (2005, Il declino del diritto penale, Milano, Giuffrè) prende posizioni molto radicali sulla carcerazione: “Non escludo che stia preparandosi un profondo mutamento di paradigmi, accompagnato e stimolato dal dubbio sempre maggiore che la privazione della libertà, di cui lo Stato si rende responsabile, abbia ormai perduto il suo credito per le medesime ragioni che operarono a suo tempo nei confronti delle pene corporali (in quanto inadeguate sotto il profilo finalistico e disumane)” (p. 147). Egli, partendo (come molti ormai) dalla convinzione che l’idea (espressa da Beccaria) della funzione deterrente della pena (anche la pena non crudele ma certa) sia tutt’altro che dimostrata, riconosce alla giustizia due residui obiettivi: riparazione (ove possibile, anche grazie ad una dilatazione del diritto civile) e risocializzazione, contestando sia la concezione “retributiva” della pena (cioè la pena stabilita in relazione al danno causato), sia la funzione espiativa della stessa (in base a cui la sofferenza del condannato in qualche modo gli fa pagare il suo “debito” con la società). Il libro di Luderssen è molto “tecnico” e meriterebbe commenti più qualificati dei nostri, ma esprime con buone argomentazioni una critica al diritto penale di cui l'Autore vede il declino. Egli sottolinea (p.70) che la detenzione ostacola anziché favorire la risocializzazione, danneggia la personalità già fragile del condannato e quindi fallisce nella funzione preventiva. Ovviamente, l’Autore non propugna l’idea di un’impunità per legge, ma esamina vari modi in cui lo Stato deve intervenire senza l’intento di “punire”.

Resta la domanda: cosa può e cosa dovrebbe fare lo Stato (e quindi la società) per le vittime dei reati? Se anche i giuristi più “radicali” riconoscono che lo Stato debba intervenire, che funzione deve avere tale intervento se non può ragionevolmente avere la finzione di esprimere una vendetta della società o una vendetta individuale attuata dalla società?

Noi riteniamo che l’intervento dello Stato costituisca una necessità inderogabile per la convivenza civile, senza la quale i membri della società si percepiscono come radicalmente sganciati dal tutto e quindi obbligati a scegliere privatamente se farsi vendetta o giustizia. La fiducia nell’intervento rapido, equo, imparziale e adeguato dello Stato è proprio ciò che consente al cittadino di non sentirsi solo e in balia della violenza altrui. Qui ci può essere d’aiuto l’ideale di Mounier di una società intesa come comunità di persone.

La vittima di una violenza può riuscire a superare il desiderio di vendetta, ma non può ragionevolmente accettare che la società non dia peso a ciò che è accaduto. Le vittime vogliono comprensibilmente che la società riconosca la loro sofferenza e le loro ragioni e pretendono che la società intervenga. Ma cosa possono aspettarsi da tale intervento se tale intervento non coincide con l’inflizione di una pena? Possono, crediamo, aspettarsi che la società riconosca la loro sofferenza, esprima una ferma condanna nei confronti di chi ha determinato tale sofferenza e quindi stia dalla loro parte. Il crimine ha creato una frattura e la comunità, se è una comunità giusta, deve schierarsi apertamente dalla parte di chi ha sofferto e non di chi ha procurato sofferenza. Questo è ciò che realmente serve alle persone che fanno parte di una comunità, perché l’indifferenza nei confronti dei suoi membri trasforma una comunità in un’accozzaglia di individui.

Il dramma della giustizia nel nostro paese non sta nel fatto che i delinquenti (singoli o associati alla “cricca” che gestisce il potere) non vengano sottoposti a pene crudeli: sta nel fatto che la società non è più una comunità, ma un incubo collettivo. Non abbiamo bisogno quindi di uno Stato poliziesco, ma di uno Stato giusto in cui i cittadini-persone possano identificarsi e da cui possano sentirsi rispettati. A quel punto possono essere risolte nel modo più razionale le questioni dell’applicazione delle sanzioni e si può anche discutere sui modi migliori per rendere possibile la risocializzazione dei criminali e comunque per rispettare i loro diritti umani. Ma prima di tutto occorre che la politica, che prefigura un particolare tipo di organizzazione sociale, affermi il progetto di uno Stato che tutela le persone in uno spazio comunitario.


Gaetano e Gianfranco


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