Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 20 giugno 2010

Alfabetizzazione emozionale (seconda parte)

Millenni di filosofia occidentale e secoli di psicologia “scientifica” non hanno prodotto nemmeno un’alfabetizzazione emozionale di base. La diffusione endemica dei disturbi emozionali [cfr. il POST Cuccioli umani] ha sempre impedito una comprensione delle emozioni. Proverò quindi ad elencare alcune ovvietà, purtroppo non di dominio comune, sulle emozioni basilari.

Rabbia

La rabbia, come tutte le emozioni non è l’effetto di qualche “causa”. Spesso diciamo “mi sono arrabbiato perché x ha detto così e cosà”, ma questo è un modo per negare la nostra responsabilità. La rabbia è un’azione [cfr. il POST Alfabetizzazione emozionale (prima parte)] con cui rispondiamo ad una data situazione. La rabbia “funziona” come il vomito (che può essere considerato il suo “precursore”): con il vomito respingiamo in modo violento qualcosa che non vogliamo, come del cibo non digeribile che “aggredisce” e fa star male il nostro corpo. Allo stesso modo, con la rabbia respingiamo qualcosa che ci colpisce. Anche nel caso in cui lottiamo per non farci derubare e quindi per tenerci o riprenderci una cosa nostra, in realtà respingiamo un’aggressione. Con la rabbia, quindi, rifiutiamo, distruggiamo, escludiamo. Infatti, se addentiamo un frutto con una forza analoga a quella con cui potremmo dare un morso ad un aggressore, in realtà non mangiamo con rabbia, ma con un forte voracità, cioè in uno stato emotivo diverso (aggressivo, ma gioioso, non rabbioso). Essendo una forma di lotta, la rabbia è sempre irrazionale nell’ambito di relazioni intime, in cui è fondamentale la libertà, cioè l’armonia costruita consensualmente. E’ semplicemente assurda l’idea di “sconfiggere” una persona cara inducendola a fare o non fare qualcosa perché nessuna “cosa” ha un valore maggiore del rapporto stesso e perché non saremmo felici ad ottenere da una persona cara qualcosa con la forza ed al prezzo di una sua sofferenza. Con le persone care sentiamo il desiderio di una buona intimità e quindi, semplicemente, la rabbia e la lotta non hanno senso, così come non ha senso vomitare quando si ha fame.

Questo non significa però che sia sempre ragionevole reagire con rabbia ad ogni situazione frustrante o deludente o anche ingiusta, se questa è determinata da estranei. Il classico dito medio rivolto ad un automobilista scorretto o la sfuriata con chi ci fa aspettare più del dovuto non costituiscono risposte ragionevoli, perché la rabbia crea delle lacerazioni e queste non sono indolori anche se la persona che ci disturba non è una persona cara. La rabbia (e a maggior ragione la violenza) con persone estranee è ragionevole proprio come ultima carta da giocare dopo aver tentato di creare armonia con le spiegazioni. Sottolineo la ragionevolezza di questa idea perché non sto implicando alcun “dovere” di essere miti con tutti. La vera mitezza nasce dalla consapevolezza e non da un ipotetico “autocontrollo” che i moralisti auspicano: se capiamo la situazione e tolleriamo i sentimenti scomodi, in genere non sentiamo alcun bisogno di arrabbiarci e quindi non abbiamo proprio nulla da controllare.

La rabbia in realtà è già un autocontrollo irrazionale: con essa infatti reprimiamo degli stati d’animo scomodi (dolorosi) relativi ad una situazione che non ci sta bene e per cui è inutile combattere. L’idea che la rabbia sia spesso una forma di (auto)repressione della tristezza non è un’idea di dominio comune, ma in fondo è facilmente dimostrabile.

Se di fronte ad una scorrettezza ha senso esprimere la nostra avversione e magari interrompere una collaborazione o un rapporto con chi non merita più la nostra stima, non ha in genere alcun senso inveire o aggiungere offese personali, perché normalmente queste non migliorano la situazione (che, di fatto, è dolorosa), non facilitano all’altra persona eventuali scuse o azioni riparative, creano una ferita che renderà la persona o addolorata più del necessario o addirittura furiosa. Quindi, se a volte, per legittima difesa dobbiamo anche agire con violenza e a volte, per lo stesso motivo, dobbiamo anche arrabbiarci e colpire con le parole, i casi “legittimi” sono davvero rari: il più delle volte ci arrabbiamo perché non vogliamo accettare il fatto doloroso di dover avere a che fare con persone che non ci trattano come persone. Situazione a volte quasi insopportabile, data la frequenza con cui si verifica, ma purtroppo inevitabile; raramente migliorabile “con le buone” e nemmeno “con le cattive”. La cosa migliore è capire la situazione, sopportare il dispiacere, tentare di ottenere comprensione e, in assenza di esiti positivi, ritirarsi, interrompere il rapporto, agire con fermezza, prendere iniziative scoraggianti o disturbanti. Insomma fare ciò che serve, tenendo presente che comunque la rabbia non serve davvero quasi mai. La ragionevolezza del nostro agire implica l’accettazione di molti dispiaceri e la dignitosa affermazione dei propri diritti, ma fa evitare conseguenze inutilmente distruttive.

Se con gli estranei è doloroso evitare la scorciatoia irrazionale della rabbia, con le persone care che ci trattano in modo frustrante o non rispettoso, il dolore è più acuto e più profondo. Per questo dato di fatto, paradossalmente, proprio con le persone care ci si arrabbia più spesso e questo comportamento, che è semplicemente folle, ci dà la misura del normale livello di follia. “Abbassa il volume di quel cesso di televisione: non vedi che sto riposando?!”. La frase, almeno dopo ripetuti inviti garbati non accolti può aver senso con i vicini di casa, dai quali non si vuole nulla tranne essere lasciati in pace. In realtà non è ragionevole nemmeno coi vicini, ma con una persona che vive con noi non ha alcuna giustificazione. Da tale persona, infatti, noi ci aspettiamo ben più che essere lasciati in pace: ci aspettiamo di essere capiti, trattati con cura e anche di essere tutelati nel nostro riposo come segno di attenzione e di amore. Il rimprovero rabbioso non facilita una risposta amorevole, perché non si ottiene amore con gli urli. Gli urli in questo caso, quindi, servono soltanto a non sentire il dispiacere di una trascuratezza già avvenuta e che ci ha già feriti.

La rabbia è, di fatto, un’arma. Ed è un’arma che tutti portano con sé e che usano a sproposito perché la realtà dei rapporti interpersonali è molto dolorosa. Mancanze di sensibilità, di rispetto, di attenzione, di correttezza, di responsabilità, sono abituali. Ambivalenza, labilità affettiva e superficialità sono ostacoli frequenti nelle relazioni amicali o amorose. Ostacoli a volte così significativi da far pensare che l’amicizia o l’amore siano davvero cose rare. Con la rabbia in genere rifiutiamo di vedere l’indifferenza e preferiamo inventare una favola in cui l’amore “c’è”, ma è stato “colpevolmente” rattrappito e può essere ristabilito con la “giusta punizione”. Una favola che non sta in piedi e che ci raccontiamo solo per paura della tristezza e delle lacrime.

Dolore

Avendo visto che la rabbia quasi sempre non è una risposta razionale, ma un imbroglio con cui ci rendiamo inconsapevoli di un dolore, è il caso di spendere due parole sul dolore. Anche qui dobbiamo intenderci sui termini. Non possiamo definire il concetto di dolore così come potremmo definire il concetto di automobile perché l’automobile è un oggetto ben preciso identificato da tutti per le stesse caratteristiche. Il dolore non è una “cosa”, ma una risposta emozionale complessa e con tale concetto includiamo alcuni fra i tanti tipi di comportamento. Sulla definizione del concetto di dolore, purtroppo non c’è un consenso generale. Anche psicologi, filosofi e medici, pur concordando sulla definizione del dolore fisico non parlano con la stessa coerenza del dolore psicologico. Purtroppo, più le questioni toccano la soggettività, più la nostra capacità di sentire incide sulla nostra comprensione dei fatti e, purtroppo, la gente conosce poco il dolore.

Il dolore viene sperimentato troppo presto nell’infanzia e senza il supporto dei genitori (anzi, viene spesso causato proprio dai genitori) e quindi i bambini crescono attivando nelle situazioni spiacevoli risposte diverse dal dolore che servono proprio a non fare quell’esperienza emotiva. Ci sono persone che non piangono mai, ma è improbabile che siano così fortunate da non soffrire mai. Ci sono persone che “frignano spesso” (sollecitando fastidio anziché partecipazione empatica) e proprio in quel modo evitano di sentire dolore. Ci sono persone che ammettono le loro sofferenze, ma ne parlano con il distacco con cui un cassiere di banca parlerebbe dell’estratto conto di un cliente. Ci sono persone abituate a minimizzare con sorrisini, battutine e altri mezzi ogni discorso che verte su un tema doloroso. Quindi, normalmente le persone evitano di sentire il dolore anche quando fanno esperienze dolorose (cioè quando sperimentano una perdita o una mancanza). Spesso anche gli “esperti psy” dicono delle vere castronerie quando confondono il dolore con la depressione o con i sensi di colpa. La depressione è uno stato d’animo molto penoso, ma è una complicazione della rabbia e serve proprio ad impedire la percezione del dolore. Il senso di colpa è un altro tipo di stato d’animo rabbioso: in pratica ci si piglia a cazzotti, psicologicamente, perché non si è stati “buoni” e così non si sente alcuna mancanza, ma si pretendono semplicemente cose strane da se stessi, dato che tutti possono sbagliare. Se siamo con una persona triste (cioè addolorata) sentiamo facilmente una disponibilità a dare conforto. Se siamo con una persona depressa o che si colpevolizza sentiamo solo la voglia di andar via.

Allora, posto che non possiamo contare su una definizione condivisa e che non abbiamo a che fare con un oggetto preciso con la definizione riportata nelle istruzioni per l’uso, volendo parlare del dolore possiamo proporre una definizione che possa contribuire alla comprensione della dimensione emotiva in generale. Quindi, se utilizziamo i termini “depressione”, “senso di colpa”, “fare lagne”, “mettere il muso”, “espressioni distaccate”, “manifestazioni teatrali, ecc. per descrivere quelle varie forme di “spazzatura emotiva” con cui copriamo o trasformiamo o neghiamo il dolore, possiamo utilizzare il termine “dolore” (o “tristezza” o “sofferenza” o “dispiacere”) per indicare la risposta ragionevole, appropriata, sincera, immediata a situazioni di perdita o di mancanza.

Se una persona perde un’altra persona o la salute o il lavoro o se non riesce ad ottenere ciò a cui teneva, sperimenta una perdita o una mancanza. In tal caso, se può fare qualcosa non resta ferma e triste, ma si attiva. Se però non può fare nulla per riavere ciò che ha è perso o per ottenere ciò che desiderava … è ragionevole che non faccia nulla. Quel non fare nulla in realtà include molte cose delicate e importanti. Restando in contatto con il dolore, la persona in questione si prospetta il futuro senza ciò che manca, si ascolta, si accudisce per abituarsi ad un futuro senza ciò che aveva o contava di poter avere. Il “lavoro del lutto” è un lavoro di ascolto, di accudimento compassionevole, di consolidamento di ciò che resta, di preparazione ad una vita “senza qualcosa”. E’ un lavoro intimo, intenso, la sui espressione fisica è quella del pianto (cioè delle lacrime e dei singhiozzi, a meno che il dispiacere non sia molto lieve) ed è uno stato complessivo assolutamente rilassato (come nella gioia), ma non “di attivazione”, cioè “mesto”. Il lutto richiede tempo speso in questo auto-accudimento, perché il tempo da solo non serve, come nel caso dei debiti non pagati: dopo mesi o anni restano non pagati.

Alla fine del tempo che serve per l’elaborazione di una situazione dolorosa, non si diventa ovviamente lieti per ciò che di doloroso è accaduto (o che non è accaduto), ma si riesce a collocare tale esperienza nello sfondo della propria consapevolezza di sé. Gradualmente tornano ad essere importanti come prima le altre cose che avevano perso importanza. Gradualmente crescono i momenti di gioia e l’interesse per altre cose.

Comportamenti come non mangiare, non dormire, essere irritabili, non avere interessi, non occuparsi delle persone care, non aver cura di sé, NON sono espressione di una tristezza sentita o accettata, ma sono manifestazioni di depressione, distacco, senso di colpa, ecc.

In pratica la gente non è quasi mai triste (cioè addolorata) e proprio per questo è quasi sempre “strana”: si dedica a sciocchezze, si esalta per sciocchezze, si angoscia per sciocchezze e si incazza per sciocchezze. Credo che il 90% delle nostre azioni e dei nostri pensieri sia dedicato a fare ciò che non serve, che non dà piacere, che non migliora la vita, ma che ci allontana dal nostro dolore. Se i bambini fossero aiutati dai genitori ad evitare i dispiaceri evitabili e ad elaborare (con il loro sostegno) i dispiaceri inevitabili, crescerebbero continuando a sperimentare gioia e dolore in modo intenso e costruttivo e non si rovinerebbero la vita restando “in fuga dal dolore”.

Paura

Trovo poco sensato trattare separatamente l’ansia, l’angoscia, la paura e il panico. Preferisco non dare definizioni differenti ad emozioni che in realtà sono sfumature della stessa realtà, mentre voglio distinguere bene fra paura razionale e paura irrazionale. Provare paura (o ansia, angoscia o terrore) se di notte si sente che la casa comincia a tremare ha senso, mentre provare una di quelle sfumature della paura se si deve parlare in pubblico o se c’è un ragno sul tavolo non ha senso. O meglio ha un senso “strano”, dato che la risposta emotiva è irrazionale. Ho già chiarito che le emozioni, se non vengono distorte, sono razionali [cfr. il POST Alfabetizzazione emozionale (prima parte) ]. Se la rabbia è la risposta emotiva (razionale) alle aggressioni e la tristezza (o dolore) è la risposta emotiva (razionale) alla perdita, la paura è la risposta emotiva (razionale) alle situazioni di pericolo, cioè di incertezza fra eventualità positive o negative. Se nel dolore è sensato “rilassarsi” (“arrendersi”), nell’incertezza occorre prepararsi al peggio e quindi attivarsi, ma proprio per via dell’incertezza non si deve far nulla: quindi “ci si attiva da fermi”, cioè ci si prepara ad un eventuale attacco o ad una eventuale fuga, anche se si spera che tutto vada bene e che si possa tornare rilassati senza dover combattere o fuggire..

Ci sarebbero pagine e pagine da scrivere per descrivere quanto sia ingombrante nella vita delle persone la paura di situazioni che non sono pericolose o non sono tanto pericolose da meritare risposte dispendiose come l’attivazione mentale e quella fisiologica richieste dalla paura. Mi limito a dire che molto spesso la paura è “inventata” dalle persone perché preferiscono “distrarsi con l’incertezza” da un dolore del tutto certo.

Prendiamo ad esempio una persona che teme costantemente di essere giudicata. Teme un’eventualità che in realtà è da considerare assolutamente certa: chiunque la incontri formulerà dei giudizi sulla sua presenza fisica, sul suo modo di parlare, di ragionare, di vestire, ecc. Si dirà che però forse teme di essere giudicata in modo squalificante, cioè di essere svalutata come persona con la scusa di qualche sua particolarità. Anche in questo caso vale lo stesso tipo di considerazione: niente di più certo! Non tutti, ma molti penseranno che con quel fisico o con quel cervello o con i suoi modi di fare tale persona è un cesso. Questo è inevitabile e, almeno in un mondo come il nostro, è molto facile che le persone svalutino le altre persone e non si limitino ad esprimere dissensi o insoddisfazioni. Ma c’è un motivo ancora più profondo che rende del tutto irrazionale la paura della persona del nostro esempio. Perché è tanto preoccupata di essere svalutata per il suo cervello e non per il suo corpo? Oppure perché teme di essere svalutata per il suo corpo e non per il suo cervello? Ci sono dei ragazzini che sono convinti che tutti li disprezzino per i loro brufoli e non si curano minimamente di chi li disprezza davvero per altre cose (la pagella, l’abbigliamento, l’orecchino nel naso, ecc.). Quindi le persone in genere si incaponiscono a temere eventualità che in realtà sono certezze, come se potessero scongiurare l’inevitabile, e si incaponiscono a temere solo alcune particolarissime eventualità. Perché lo fanno? Semplicemente perché trovano meno doloroso temere un’eventualità che convivere con un dolore.

Chi accetta di poter risultare sgradito e ci convive, risulta comunque sgradito a molti, ma si fa una buona compagnia: prova dolore, non ansia. Non si fa del male e almeno soffre per qualcosa di reale anziché per una stupida ansia. Il vantaggio degli ansiosi sta solo nel fatto di essere inguaribili ottimisti: vogliono temere perché vogliono sperare e non “di-sperare”. Fanno come se una persona temesse la pioggia sotto un acquazzone. La cosa è effettivamente stupida, ma si inventa nell’infanzia quando è, appunto, una “trovata geniale”: poiché i bambini non possono sopportare di sentirsi rifiutati e soli, preferiscono pensare di avere qualcosa che non va (ma rimediabile, forse) e si incaponiscono a “temere” ciò che purtroppo è già accaduto. Una volta, alla spiaggia, sentii un tale urlare “Smettila di fare il bambino!”. Mi girai e notai che stava urlando … proprio ad un bambino. Dunque quel bambino già a sei o sette anni doveva già essere un uomo. A quell’età, piuttosto che sentirsi soli e nelle mani di un padre coglione, in genere si preferisce credere che si è sbagliati (ma che con un po’ di “ansioso impegno” forse si potrà risultare rispettabili). I bambini sono propensi a scegliere la sofferenza più superficiale. Però, poi, a quarant’anni sono ancora lì a preoccuparsi di essere “veri uomini”, magari a scegliere donne “da proteggere” e a rompere le palle ai figli che a loro sembrano “troppo bambini”.

Gioia

Questa emozione è quella “più facile” e su cui si dicono meno sciocchezze. Chiunque capisce che se le cose vanno bene siamo contenti e chiunque accetta che se siamo contenti e lo facciamo trasparire non c’è niente di strano. Ci sono anche persone “misurate” persino nella gioia, soprattutto se sono cresciute in famiglie in cui i genitori giocavano spesso a “guarda come sono sfigato!” e quindi in cui essere contenti rendeva praticamente spregevoli. Tuttavia, anche le persone che cercano di non essere troppo contente o di non mettersi in condizioni tali da poter risultare contente e “rischiare” di mostrarlo, riconoscono che la gioia è ciò che si prova quando un desiderio viene soddisfatto.

Gianfranco

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