Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

martedì 15 giugno 2010

Liberi dalla civiltà (nei limiti del possibile)

GIANFRANCO

Caro Enrico, inizio questa chiacchierata pubblica chiarendone il senso ai lettori. Mentre ci scambieremo delle idee terremo anche presente che i visitatori del blog “ci spieranno” e quindi cercheremo sia di conoscerci meglio dialogando, sia di fornire qualche informazione o provocazione ai lettori del blog.
Quando Giorgia mi ha regalato il tuo libro ancora fresco di stampa (Enrico Manicardi, Liberi dalla civiltà, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2010) dicendomi che tu conoscevi (grazie a lei) il blog e che da quella lettura poteva nascere anche una collaborazione, mi sono cadute le braccia. Sia perché ero (e sono) assediato dai libri da leggere (stanno lì, mi scrutano e aspettano di portarmi via altro tempo che non ho), sia perché il tuo saggio era decisamente “pesante”. D’altra parte non ho pensato di ringraziare e buttarlo nel rusco perché ritenevo impossibile che Giorgia mi avesse passato una compilazione di banalità. Questo pregiudizio positivo però confliggeva con un pregiudizio negativo che mi veniva sollecitato dal titolo e dalla copertina (un aborigeno di chissà dove che punta l’arco contro un elicottero): leggevo quel titolo, pensavo al film “Scappo dalla città (la vita, l’amore e le vacche)”, di Ron Underwood e immaginavo che l’avesse scritto un tipo noioso con crisi mistico-bucoliche. Mi consolava l’idea di cavarmela con la lettura del prologo e il lancio nel rusco prima di passare a cose più interessanti. Invece, (e ciò dimostra che i pregiudizi “innocenti” sono facilmente superabili) dopo il prologo ho letto con cura l’indice, poi l’epilogo e poi ho deciso di leggere qualche capitolo e ho finito per divorare tutto il volume. Infatti, scorrendo le tante pagine non ho trovato ripetizioni o inutili divagazioni. Soprattutto hai scritto un libro che evidentemente è maturato in molti anni dedicati ad approfondire con passione, pazienza e spirito critico, temi davvero importanti. Last, but not least, dici delle cose molto sensate, emotivamente vive e intellettualmente serie. Per questi motivi ti ho scritto proponendoti qualcosa di più impegnativo (e meno formale) di ciò che sarebbe stato “scontato” (una recensione del libro sul blog e magari un tuo post successivo). Ti ho quindi proposto (tu lo sai già, ma lo ripeto per i lettori) di scrivere una recensione “partecipata”: io apro la pista con una mini-recensione e tu prosegui, poi si vede come possiamo andare avanti, magari con interventi di altre persone.

Con spirito conseguenzialmente anarchico tu capovolgi la dogmatica marxista, secondo cui la civiltà emerge dal “nulla pre-classista” e procede dallo schiavismo al feudalesimo, al capitalismo fino alla meravigliosa dittatura del proletariato, in attesa del comunismo. Muovendoti in una direzione opposta, tu esamini con cura proprio la convivenza umana che precede il neolitico (10.000 anni fa) e che precede, quindi, la nascita della civiltà (con l’agricoltura e l’allevamento). Poi analizzi il “declino umano” che si è attuato da allora fino alla follia attuale ed alle illusioni per il futuro. Se il libro fosse una collezione di lagne sul bel tempo antico non meriterebbe attenzione. E’ invece una critica serrata, radicale, spietata e lucidissima dell’irrazionalità sociale (cioè della follia delle organizzazioni sociali degli ultimi dieci millenni). Riesci a convincere i lettori che la differenza fra i re di Roma e l’ONU o fra l’aratro e la bomba atomica non è poi così significativa, mentre ciò che ha determinato un vero salto di qualità (negativo) è stato proprio il passaggio dal modo di vivere dei raccoglitori-cacciatori a quello dei membri della (ieri nascente e oggi già decrepita) civiltà.

Ti basi sia su dati archeologici, sia su molte conoscenze ricavate dall’antropologia culturale: infatti ai margini della civiltà sono sopravvissute per millenni delle società non stanziali, non dedite all’agricoltura e all’allevamento, non caratterizzate dalla divisione in classi, non dedite a produrre idee metafisiche, scientifiche e religiose. Queste sacche di libertà, sopravvissute ai margini dell’infelicità istituzionalizzata, non hanno convinzioni irrazionali, non manifestano comportamenti distruttivi, non istituiscono entità sociali organizzate e stratificate, ma funzionano benissimo sia sul piano dei rapporti interpersonali, sia sul piano del rapporto con la natura. Non hanno nemmeno il (nostro) mito della natura perché ci sguazzano in perfetta armonia.

Voglio riportare una citazione tratta dalla tua introduzione: “è mai esistita un’epoca in cui gli esseri umani siano vissuti in modo pacifico, gioioso, rispettoso, senza farsi la guerra, senza dominarsi e sfruttarsi vicendevolmente, senza confinarsi in organizzazioni sociali strutturate gerarchicamente che regolassero le relazioni in maniera prestabilita e obbligatoria per tutti? (…) Studi avviati da oltre cinquant’anni sull’argomento hanno dato risposte sorprendentemente positive, e il discrimine tra un vissuto umano libero e appagante e uno via via più irreggimentato dai valori del mondo moderno è rappresentato proprio dall’avvento della civiltà. Parlare di civiltà, significa prima di tutto chiarire un equivoco. Troppo spesso si ritiene che il termine ‘civiltà’ coincida con ‘umanità”, e cioè che l’essere umano, da quando esiste sulla faccia della Terra viva nella civiltà. Non è così. (…) la famiglia umana si sarebbe differenziata dalle scimmie antropomorfe circa 7 milioni di anni fa, 3 milioni dopo avrebbe assunto la stazione eretta e circa 2,5 milioni di anni or sono sarebbe entrata nel cosiddetto Paleolitico acquisendo tutte le abilità e le capacità (anche mentali e intellettuali) di cui dispone l’individuo moderno. La civiltà, invece, comunemente fatta coincidere con l’introduzione dell’agricoltura (inizio del Neolitico), è datata soltanto 10.000 anni. Due milioni e mezzo di anni di vita umana rispetto ai soli diecimila anni di vita civilizzata. (…) Di fatto, per almeno centocinquantamila generazioni i nostri progenitori umani hanno vissuto in un mondo non civilizzato, come raccoglitori-cacciatori nomadi (…) formavano piccole comunità di poche decine di persone (bande), profondamente cooperative ed egualitarie, nelle quali ciascuno poteva esprimere la propria personalità fino al punto di potersene andare liberamente in qualsiasi momento. Comparando la durata della vita del genere umano a quella di una giornata di 24 ore, abbiamo vissuto fuori dalla civiltà per oltre il 99,6% del tempo a disposizione, ovvero dalla mezzanotte fino alle 23.55 successive, per poi cedere alla civiltà nei soli 5 minuti restanti. Ma in quei 5 minuti abbiamo distrutto tutto, devastato tutto, pregiudicato tutto, fino a mettere in pericolo la nostra stessa esistenza e quella del mondo intero” (pp. VI-VII).

Non voglio aggiungere altre citazioni perché spero che il libro venga letto per intero. Anche se nelle pagine del blog le disamine critiche dell’ordinaria follia degli sviluppi contemporanei della civiltà sono consuete, può essere davvero utile collocare questa follia nel contesto del suo sviluppo storico-sociale. Anche se non è consolante capire che un radicale “aggiustamento del tiro” è impossibile e che inevitabilmente procederemo alla deriva, aiutati anche dalle idee di tante scuole di pensiero di tipo “progressista”, è bello sapere che tanti nostri simili hanno vissuto una vita umana senza dover fare le scelte che noi a volte dobbiamo fare (selezionando la musica da ascoltare, dato che non ascoltiamo più il canto dei boschi, selezionando le persone da frequentare, dato che le normali circostanze della vita sociale sono entusiasmanti come un calcio nei denti e magari sforzandoci con tecniche meditative di “ritrovarci” dopo esserci “persi” mille volte in una giornata).

Avendo già detto il minimo per introdurre l’argomento, voglio invitarti ad allargare il discorso a tua discrezione.

ENRICO

Grazie Gianfranco per la bella presentazione che hai fatto del mio libro. Non sono un blogger e, sinceramente, non amo stare molto tempo davanti al computer. Confesso però che l’idea di collaborare ad una “recensione partecipata” di LIBERI DALLA CIVILTA’ mi è parsa da subito molto suggestiva, e in linea con lo spirito “divulgativo” che mi ha spinto a scrivere il libro. Spero che questa iniziativa possa essere apprezzata dai tanti visitatori del blog e che si apra un bel dibattito attorno ai temi del Primitivismo e della critica radicale al processo di civilizzazione.

Una sola precisazione: quando parlo di critica radicale al processo di civilizzazione intendo proprio “radicale”, cioè una critica che si sforzi di andare alla “radice” dei mali del nostro tempo, senza pregiudizi di sorta, senza timori reverenziali, senza “resistenze” ideologiche. Tutti sappiamo, ad esempio, che l’anarchismo classico, come il comunismo o l’antagonismo del Novecento, hanno guardato alle ragioni del nostro moderno immiserimento esistenziale rintracciandole per lo più nell’avvento della società industriale dei primi dell’Ottocento. Da Proudhon a Marx (tanto per citare i teorici più conosciuti) la crisi del nostro tempo sarebbe stata individuata nell’esistenza di un modello di società fondato sullo sfruttamento dell’individuo sull’individuo. Purtroppo oggi sappiamo bene che lo sfruttamento imposto dal mondo moderno non è uno sfruttamento circoscrivibile ai soli rapporti tra gli umani, ma generalizzato a tutte le componenti della Natura: è, insomma, uno sfruttamento dell’individuo sull’individuo, sugli animali, sui minerali, sui vegetali, sulle energie della Terra. Per noi civilizzati la Natura non è altro che una landa passiva totalmente asservita al nostro potere e destinata a servirci come fossimo i suoi padroni. Questo antropocentrismo non è certo nato con la società industriale. Proprio per questo, non sarebbe sufficiente eliminare l’industrialismo per “tornare” a vivere un'esistenza autonoma e libera. L’autorità e la gerarchia esistevano anche prima dell’avvento del capitalismo industriale; così come c’era il maschilismo e la società patriarcale, come c’era l’economia (con le sue logiche utilitaristiche e di esaltazione della speculazione in ogni campo), come c’era la politica (con le sue pratiche di imbonimento e di condizionamento ideologico), come c’era il controllo sociale, la tecnologia, lo sfruttamento ambientale, l’inquinamento ecologico. Per non parlare poi della guerra e della schiavitù che non sono certo delle invenzioni del sistema delle fabbriche.

Se vogliamo veramente andare alle “radici” della crisi del nostro tempo non possiamo allora fermarci alla nascita dell’industria. Se vogliamo rispondere affermativamente alla domanda che tu stesso hai riportato dal mio libro (“è mai esistita un’epoca in cui gli esseri umani siano vissuti in modo pacifico, gioioso, rispettoso, senza farsi la guerra, senza dominarsi…”), dobbiamo andare molto più indietro dell'Ottocento. Indietro quanto? Almeno fino a diecimila anni fa, all'epoca della comparsa dell'agricoltura, e cioè al tempo della nascita della civiltà.

L'avvento dell’agricoltura, infatti, segna il passaggio di un importante cambio di paradigma, perché con la coltivazione la terra cessa di essere considerata quel tutt’uno inscindibile del quale le popolazioni del Paleolitico si sentivano parte, per diventare un “oggetto” passibile di essere usato e sfruttato: insomma, un “fattore di produzione”. Abbiamo cominciato col considerare la terra come una cosa in nostro potere, e abbiamo finito per considerare tutto così: prima i suoli, appunto (agricoltura), poi gli animali (allevamento), poi le donne (società patriarcale), poi i bambini e gli uomini stessi (schiavitù, sfruttamento a tutto tondo, massificazione, burocratizzazione della vita). Oggi siamo diventati tutti dei numeri, funzionali all’espansione del mondo civilizzato e occupati a favorire questa stessa espansione. Nel mondo moderno, infatti, non contano più le Persone, le Relazioni, la Natura. Contano le Macchine, lo Sviluppo, il Progresso, l’Economia… Siamo ormai solo degli ingranaggi intercambiabili che servono al funzionamento della Megamacchina: di questo grande meccanismo che ci sovrasta, che si nutre di noi, che ci esaurisce in tutti i nostri aspetti vitali e alla fine ci getta tra i rifiuti non appena smettiamo di essere efficienti e diventiamo “vecchi”.

Guardiamoci attorno! Viviamo ormai in un mondo sempre più desolato e tossico, dove regna l’insoddisfazione, dove il senso del vuoto imperversa. La vita moderna è sempre più programmata, scandita dagli impegni, organizzata. Gli obblighi sono sempre più pressanti e i divieti ovunque. Tutto si risolve nel correre sempre più in fretta verso non si sa dove… Se c’è una causa al progressivo immiserimento esistenziale portato dalla vita moderna, questa è nei presupposti stessi della vita moderna: è nella civiltà!


GIANFRANCO

A p. 292 tu scrivi quanto segue. “Per ottenere la nostra accettazione di una vita in cattività occorre indurci alla paura della vita libera”. Non voglio polemizzare, ma solo invitarti ad approfondire il discorso. Tu, infatti nelle righe seguenti citi anche Marcello Bernardi e chiarisci che noi diventiamo “mentalmente adatti” alla cattività dopo aver subito una socializzazione infantile violenta. In altre parti del libro citi Alexander Neill ricordando che solo un atteggiamento educativo libertario e rispettoso produce adulti non inclini all’irrazionalità ed alla distruttività. Quindi siamo d’accordo. Quello che voglio sottolineare è che noi stessi siamo, in misura maggiore o minore (e quasi sempre in misura eccessiva) artefici di civiltà (cioè di follia). E lo siamo anche se non facciamo una strage. Lo siamo semplicemente rinunciando a dire cose semplici e sincere o a stare zitti quando servirebbe tacere. Da intransigente oppositore di ogni vittimismo vorrei evitare anche di sentirmi vittima della civiltà. La civiltà non “esiste”: siamo noi con le nostre stronzate a imprigionarci e a imprigionare gli altri (spesso anche quando pretendiamo di sentirci liberi o di liberare il prossimo). E’ già molto se pensiamo o facciamo qualcosa di buono ogni tanto. Parlo ovviamente per me, ma credo di poter pensare lo stesso dei miei simili. La civiltà viene da noi realmente “subìta” solo nei primissimi anni in cui non abbiamo scelta: se non ci danno il latte buono ci ciucciamo quello in polvere e non siamo responsabili di quella scelta. Ma poi siamo tutti attivissimi nel diffondere il contagio: cominciamo in prima elementare a puntare il dito su un bambino con la pelle scura e arriviamo da adulti ad accendere la televisione appena entriamo in casa. Dopo gli anni della prima infanzia siamo sia vittime, sia artefici della civilizzazione. Sottolineo questa ovvietà non certo per togliere valore alla tua critica alla civilizzazione, ma per sottolineare che una critica davvero radicale deve diventare una critica della nostra passione sfrenata per la civilizzazione. Ogni tentativo di liberazione (mentale o pratica, anche se, ovviamente, circoscritta) deve iniziare da uno struggente e compassionevole bisogno di qualcosa di meglio e non da una insofferenza diretta contro “chi ci limita”. E’ vero, in molti segmenti della nostra vita abbiamo a che fare con concrete aggressioni alla nostra libertà, ma chi ci aggredisce non lo sa più di quanto lo sappia un sasso che ci cade addosso per una slavina. Nessuno ci farebbe del male se sapesse cosa sta facendo. In situazioni concrete ovviamente dobbiamo reagire alle aggressioni, ma in un progetto (o in un dolce sogno) di liberazione (o di micro-liberazione) dobbiamo pensare PER la libertà e non CONTRO la civiltà). Credo che dobbiamo (lentamente, a piccoli passi e in ambiti circoscritti) costruire una cultura dell’ozio, dell’amore, della creatività.

ENRICO

E' indubbiamente vero che siamo tutti artefici (volontari o involontari) di civiltà. Anzi la forza del processo di civilizzazione è proprio quella di porre tutti al servizio del processo di civilizzazione stesso. Lo siamo non soltanto quando rinunciamo a dire cose semplici e sincere, ma continuamente: lo siamo mentre parliamo (e accettiamo così di oggettivare il pensiero riducendolo a parole e strutture grammaticali), lo siamo mentre lavoriamo (e sosteniamo un sistema economico che ci allontana dalla capacità di saper provvedere da soli ai nostri bisogni di sussistenza), lo siamo mentre mangiamo o ci vestiamo (legittimando un sistema produttivo che ci ha reso strumenti dei nostri strumenti)... Questo però a me non pare vittimismo: è la constatazione di un dato di fatto CONTRO il quale dobbiamo opporci. Ha poco senso pensare di lottare per la libertà se non si ha chiaro cos'è che nel mondo moderno ci toglie la libertà. Quanta gente crede di lottare per la libertà comprando un nuovo sistema satellitare di allarme o votando alle elezioni politiche per quello o quell'altro partito? Credo che si debba avere coscienza del processo di civilizzazione, ossia del processo che ci ha distanziato dalla Natura e che ci fa sentire oggi i suoi padroni incontrastati. Senza questa lotta CONTRO una simile mentalità che ci fa considerare la vita in funzione puramente strumentale, ogni “costruzione” di una cultura dell'ozio, dell'amore, della creatività rischia di essere solo una nuova “costruzione” che si sovrappone a quelle già inventate nei millenni scorsi per renderci sempre meno umani. Come dici tu la critica alla civilizzazione deve essere una critica alla nostra passione sfrenata per la civilizzazione, ma anche una critica alla nostra attitudine a diventarne “portatori sani” senza saperlo.

GIANFRANCO

Oggi non possiamo tornare indietro. Possiamo in piccoli ambiti (nella nostra testa o in qualche spazio ristretto di dialogo interpersonale) stare nell’immediatezza, “esserci”, sentire e capire ciò che conta davvero senza aggiungervi cazzate. Però appena allarghiamo un po’ l’ambito della nostra espressione dobbiamo maneggiare la cultura, cioè dobbiamo usare gli strumenti migliori della nostra detestata civiltà. C’è, quindi, qualcosa di cui parli poco nel libro, ma che merita di essere discusso. Se siamo d’accordo sul filo conduttore delle tue riflessioni, cosa possiamo … fare?

Mi sembra che tu sia sostanzialmente sulle posizioni emerse nel blog: c’è poco da FARE. Cose minime. Piccole battaglie marginali senza pretendere di cambiare qualcosa con le prossime elezioni. Nelle circostanze più disparate, magari, scegliere il meno peggio. Soprattutto cercare di pensare bene, sentire bene e creare rapporti umani privati (non politici o istituzionali) basati su convinzioni e sentimenti rispettosi della vita umana e della natura.


ENRICO

Sono certamente d’accordo nel considerare certe situazioni migliori di altre, ma attenzione a fare l’elogio del “meno peggio” perché il rischio è quello di trovarsi poi a lottare per il “meno peggio” invece che per i nostri sogni. Faccio un esempio. I pannelli solari sono un sistema di produzione energetica certamente migliore del nucleare. Dovremmo dunque essere tutti contenti nel vedere multinazionali e governi investire nell’energia “verde”. Non è così. Il problema di fondo del sistema civilizzato – si è detto – è il suo antropocentrismo. Noi cioè pensiamo di poter sempre fare alla Terra tutto quello che ci pare pur di ottenerne un vantaggio limitato alle esigenze della nostra specie. Il fatto è che, così facendo, continuiamo a creare danni irrimediabili senza nemmeno renderci conto degli equilibri naturali che turbiamo con le nostre stupide intromissioni civilizzate. Pensiamoci per un momento: chi è che sul pianeta Terra ha bisogno di tutta questa energia sempre crescente che il petrolio non è più in grado di fornirci? Sono forse gli animali, le piante, le pietre, le persone intese singolarmente? No. È la Megamacchina. È la civiltà che necessità di sempre maggiore energia per mantenere in piedi quel generale sistema di sfruttamento che ci sta portando alla rovina. Il problema, allora, non è come fare incetta di energia (più o meno verde), ma (ri)pensare a un mondo a “misura di Natura” in cui non serva tutta questa energia. Finché continueremo a considerare la Natura come una risorsa da sfruttare, continueremo a sfruttarla immiserendoci sempre di più: noi e la Natura. E poco cambierà se a distruggerla saranno le scorie nucleari o le miniere di silicio. Per far funzionare un pannello solare ci vuole infatti il silicio, e per fare piglia-piglia di silicio occorre estrarlo a forza dalla Terra. Migliaia di lavoratori vengono ancora oggi schiavizzati per 16/18 ore al giorno, e costretti appunto a scendere in queste miniere tossiche e buie che rappresentano l’emblema del falso ecologismo dei governi del “mondo verde”. Noi continuiamo ad estrarre, a togliere via, a rubare alla Terra e poi ci lamentiamo degli smottamenti, delle miniere che crollano, dei morti per lavoro. Cos’è che vogliamo ottenere con le nostre lotte? Vogliamo forse un mondo in cui poche centinaia di migliaia di Occidentali possano far mostra del loro finto ambientalismo radical-chic mostrando a tutti le loro pennellature solari costruite sulla pelle di migliaia di lavoratori schiavizzati nel secondo e nel terzo mondo? È questo il “nuovo” mondo che vogliamo? Io non ci sto. Questo mondo “verde” è assolutamente identico a quello grigio in cui già vivo: un mondo che mi addomestica, mi pone restrizioni, mi opprime, mi sfrutta e mi porta conseguentemente a soffrire e a stare male. Pur riconoscendo il fatto che un pannello solare inquina meno di una centrale nucleare, io voglio lottare CONTRO la mentalità antropocentrica che ci porta ad usare la Terra come fosse un oggetto (con tutte le conseguenze disastrose che questo sfruttamento del vivente comporta) e intendo lottare PER un mondo in cui prevalga l’essere sull’avere; un mondo in cui una pianta abbia la stessa dignità di una persona, di un animale, di una pietra. Un mondo di soggetti dediti alla cooperazione e al mutuo appoggio, non allo sfruttamento generalizzato e alla speculazione economica. Un mondo libero perché popolato da persone libere e non considerato libero per provvedimento dell’autorità o per legge costituzionale.

Non è vero che ci sia poco da fare. C’è tanto da fare. E ognuno può farlo cominciando dalle piccole cose quotidiane, dai tanti adescamenti che ci irretiscono e dalle infinite forme di costrizione che noi stessi abbiamo imparato ad infliggerci. Dobbiamo cominciare a guardare al nostro attuale stile di vita in modo radicalmente critico, rassegnando alla Natura il significato di Soggetto (non di oggetto). Oggi sappiamo che è possibile ricostruire un rapporto vivo e paritario non soltanto con le persone e con gli animali, ma anche con la terra: Metodo Fukuoka, Orto Sinergico, Forest Garden, Permacultura sono tutte pratiche cosiddette di agricoltura antiautoritaria in quanto escludono le classiche forme di aggressione portate dall’agricoltura (aratura, innaffio, concimatura, potatura, ecc…) allo scopo di favorire il recupero di un naturale equilibrio simbiotico tra pianta, suolo e ambiente circostante. E per chi non gode della possibilità di vivere una relazione diretta con la terra ai fini dell’autosussistenza, cambiare mentalità significa comunque ridare valore ai contatti curati di persona (e non mediati da un telefonino o da un computer), puntare a favorire i rapporti di affinità, sensuali e coinvolgenti. Significa ritornare ad abbracciarsi, a toccarsi, ad amarsi, non a usarsi o consumarsi (anche) sessualmente. Cambiare mentalità significa insomma cercare di opporre la logica del piacere a quella del potere cui ci educa la civiltà; significa opporre la pratica del dare a quella del prendere che c'impone l’economia; significa provare a vivere la dimensione dell’autogestione, dell’autoproduzione, della condivisione, del gioco libero (e cioè non strutturato e non competitivo), recuperando un rapporto pieno e organico con ciò che vive dentro e fuori di noi: compresi appunto gli istinti, i sentimenti, le pulsioni naturali, la capacità di immedesimazione negli altri e quegli antichi saperi che la scienza e la tecnologia ci hanno strappato di dosso per renderci dipendenti dalle macchine e dalle decisioni degli esperti.


GIANFRANCO

Mi interessa sapere quali teorie o speculazioni sono state proposte per spiegare il passaggio dal tipo di vita che caratterizzava i raccoglitori-cacciatori a quello della rivoluzione neolitica. Io avrei un’idea (da profano competente solo in altre questioni), ma vorrei sapere da te quali ipotesi circolano. Infatti, in un mondo in cui la gente vive bene, se un fesso propone “Incateniamoci ad un fazzoletto di terra, spacchiamoci le ossa con l’aratro, imprigioniamo gli animali e facciamo una grande area “tutta nostra” e recintata”, gli altri si fanno una risata e poi lo coccolano un po’ per tranquillizzarlo. Se insiste lo eleggono “scemo del non-villaggio” (cioè della banda).

Faccio fatica a immaginare che una crescita della massa cerebrale abbia determinato un rincoglionimento generale. Infatti, anche ammettendo che solo ad un certo livello di sviluppo le capacità mentali abbiano portato molte persone a immaginare una possibile organizzazione (e divisione) del lavoro, non è scontato il fatto che tali idee siano state seguite dai fatti: se tutte le persone che hanno pensato per un attimo di rapinare una banca lo avessero fatto oggi in prigione ci sarebbero solo poche centinaia di devianti (cioè di non-rapinatori). Qualcosa deve essere accaduto, dato che il mondo pre-civile era troppo bello. Se non sapessi di avere un fisico reso fragile dalla civilizzazione e non adatto a quella vita partirei oggi stesso per farmi adottare da una delle poche comunità di raccoglitori-cacciatori. Rinuncerei anche a sentire Neil Young per gli anni che mi restano.


ENRICO

La questione del perché è nata l’agricoltura, con tutte le conseguenze tragiche che essa ha portato con sé, è una questione ancora molto dibattuta e rispetto alla quale non ci sono teorie prevalenti. John Zerzan ha cercato di fare il punto della situazione dando conto delle principali tesi esistenti. Per qualcuno (Gordon Childe per esempio) la ragione sarebbe da individuare in un aumento demografico della popolazione che spinse le persone a cercare di ottenere un surplus agricolo per sfamarle. Trasformare la terra in fattore di produzione ha certamente l’immediata capacità di moltiplicarne i frutti (cosiddetto surplus agricolo, appunto). Peccato, però, che alla lunga questo apparente “vantaggio” è terribilmente compensato da uno svantaggio irrimediabile. Quella istantanea capacità di moltiplicazione dei frutti della terra, ben presto esaurisce la terra, esaurisce i lavoratori della terra e compromette le relazioni sociali che si vengono ad instaurare (relazioni che infatti diventano sempre più aggressive e inclini alla difesa della terra, oltre che alla conseguente strutturazione gerarchico-burocratica dell'aggregato sociale). Per tornare alla teoria di Childe, comunque, essa non pare molto convincente. Ormai è infatti certo che l’aumento demografico seguì all’agricoltura (come effetto di essa) invece di precederla.

Una seconda teoria si richiama ai grandi eventi climatici avvenuti circa 11mila anni fa, alla fine del Pleistocene. Si ipotizza che la glaciazione portò all'introduzione di questo nuovo modello di vita immediatamente produttivo di surplus. In realtà l'agricoltura nasce in varie parti del mondo e in tempi diversi, e inoltre si hanno ipotesi di sistemi agricoli adottati e dismessi in ogni tipo di clima.

Qualcuno ha ipotizzato che le ragioni della nascita dell'agricoltura sarebbero ravvisabili in un intersecarsi delle due teorie appena citate. Si dice cioè che con l'ultima glaciazione (circa 11mila anni fa) si ridussero gli spazi praticabili di raccolta e caccia (per l'avanzata dei ghiacciai). La popolazione, dunque, si concentrò in particolari zone più calde della Terra, richiedendo una intensificazione della produzione di cibo.

Se non esiste una teoria prevalente che spieghi le ragioni della nascita dell'agricoltura, ce n'è certamente una che merita di essere esclusa a priori: quella di una sua invenzione casuale. Questa teoria, infatti, non solo mostra la nostra incapacità di comprendere la vita primitiva nella sua pienezza organica, ma è permeata di un tono razzista assolutamente inaccettabile. Implica cioè il fatto che nei due milioni di anni di vita sulla terra i raccoglitori paleolitici non avessero compreso che il cibo cresce a partire da un seme germogliato e che solo diecimila anni fa qualcuno, e cioè un genio capace di liberarci dal giogo delle clave e delle caverne, l’avrebbe scoperta dando lustro e splendore al nostro mondo (la valenza che si dà alla teoria della “scoperta casuale” nasconde proprio un’implicita giustificazione di “superiorità eroica” tipicamente civilizzata). In realtà, la conoscenza della flora e della fauna che l’umanità paleolitica possedeva non solo non è paragonabile a quella che possediamo individualmente oggi, ma è ben più profonda di quella che noi stessi possiamo attribuire alla “scienza moderna”, circostanza che rende ridicola questa teoria.

Probabilmente come hanno proposto Hahn, Isaac e altri, l'agricoltura nacque come prassi religiosa, ossia come bisogno di soddisfare una crescente esigenza di produzione di cibo da destinare alla donazione votiva verso la divinità. Questa teoria, che sembra effettivamente la più plausibile, si mostra anche perfettamente in grado di spiegare perché i prodromi dell'avvento della civiltà siano tutti da ricercarsi nella nascita della cultura simbolica (linguaggio, arte, rito, mito, religione) che precedettero appunto l'avvento dell'agricoltura e lo giustificarono.

Resta il fatto che, una volta entrati nel cerchio chiuso imposto dalla mentalità agricola, il processo di civilizzazione prese il sopravvento sulla vita che ne risultò via via emarginata. Quella condizione di completa comunione con il Pianeta, di condivisione tra esseri della Terra e di egualitarismo sociale che aveva caratterizzato i due milioni di anni di vita paleolitica venne pian piano disgregandosi secondo un percorso “logico”, ancor più che “ideologico”. Infatti, mettere a frutto la terra significa prima di tutto lavorarla (nascita del lavoro). Ma la terra è dura da lavorare e chi ci si dedica sviluppa prima o poi il bisogno di “recintarla” per evitare che altri approfittino di quel duro lavoro (nascita della proprietà privata). Ma se taluno non riconosce il potere di privatizzazione, e vuole abbattere i confini di esclusività imposti dal proprietario, ne sorgerà un conflitto (nascita della guerra). La guerra presuppone sempre l'esistenza di capi che diano ordini e di sudditi che li eseguano (nascita della società gerarchica e della discriminazione di classe). In una società formata da individui sempre più posti gli uni contro gli altri sorse l'esigenza di inventare tecniche che preservassero una forzosa pace sociale (nascita della politica). Eppure, la bella oratoria da sola non è sempre sufficiente ad ottenere la “spontanea” sottomissione delle classi subalterne al potere di quelle privilegiate, e allora si dovette intensificare le forme di restrizione e addomesticamento estendendole a tutti i componenti della società e a cominciare dall'età più giovane (nascita del controllo sociale con tutte le sue varie tecniche di domesticazione: socializzazione, disciplina, educazione, istruzione, pedagogia, sociologia…). È un dato di fatto: tutte le comunità che nel tempo abbandonarono quel rapporto di profonda e intima comunione con la terra per cominciare a dominarla (attraverso l’agricoltura), innescarono questo tremendo processo autodistruttivo che chiamiamo civilizzazione. La civiltà, insomma, è un grande cancro che ci sta divorando. Prima ci accorgeremo di essere malati e prima potremo provare a fare qualcosa per guarire.


GIANFRANCO

Bene. Con questa chiacchierata abbiamo aperto degli spiragli per ulteriori approfondimenti. Ad esempio, anche la “spiegazione religiosa” dell’avvento dell’agricoltura non sembra far altro che spostare la domanda un po’ più in là: “come viene in mente a questi fortunati e felici cacciatori-raccoglitori di mettersi ad adorare e temere divinità?” Ovviamente, se ci mettessimo a discutere questo punto appesantiremmo troppo questo post.

Se sei d’accordo, possiamo riprendere questo ed altri temi (magari con il contributo di altri amici) in un prossimo “post dialogato”.


ENRICO

Molto bene. La questione è molto complessa ed ogni aspetto analizzato è sempre in connessione con altri mille. Per poter fornire un quadro critico d'insieme bisogna dunque cercare di prendere in considerazione un po' tutto. E se uno volesse, te lo assicuro, la cosa potrebbe non aver mai fine... Io comunque resto a disposizione per chiunque voglia dire la sua.

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