Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 22 maggio 2010

Lavoro, ozio e tempo vissuto




Il primo articolo della nostra Costituzione contiene un principio importantissimo, secondo il quale la sovranità appartiene al popolo che esercita tale sovranità secondo precise forme e precisi limiti. Nulla da eccepire. Tuttavia i padri costituenti, nello stesso articolo, prima di fare tale preziosa affermazione, hanno sentito il bisogno di proclamare che "L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro". Nulla da eccepire sul richiamo alla democrazia, ma molto da eccepire sull'idea che una buona democrazia debba ritenersi fondata sul lavoro (cioè sulla sfiga). Come se si fosse scritto "la nostra repubblica è fondata sul mal di denti". Infatti il mal di denti, come il lavoro, è spesso inevitabile, va sopportato e ... ridotto al minimo. Se ci dobbiamo tenere il mal di denti (o il lavoro) non lo facciamo certo con "italico orgoglio", ma con mesta rassegnazione.

Poiché spesso chi vuole cambiare la Costituzione mira a peggiorarla, voglio andarci piano con le critiche, dato che in un mondo di pazzi a cui l'Italia partecipa a pieno titolo, la nostra Costituzione è un arnese in gran parte buono, cioè rispettoso delle persone che compongono la società. Lungi da me quindi l'idea di svilirla. Mi propongo solo di discutere in questo post un tema che a mio avviso la Costituzione sottovaluta e fraintende. Mi piacerebbe che la Costituzione venisse migliorata sul tema "lavoro" (come su quello "famiglia": cfr. il POST Il mito della famiglia e l'incubo dei "valori" famigliari), ma non ci spero proprio: quale partito potrebbe suggerire idee sagge sull'argomento e quale stragrande maggioranza parlamentare potrebbe condividere tali idee?! Certe idee possono svilupparsi solo in orticelli ben curati e non in terreni calpestati da mandrie al pascolo.

Dunque: perché parlo del lavoro come di una sfiga in una società in cui il lavoro è un mito tanto diffuso e in cui addirittura si blatera normalmente su temi bizzarri come la possibilità di "realizzarsi" sul lavoro? Gli impiegati sbavano per una promozione in ufficio e gli scienziati per un premio Nobel. Tutti pensano che il lavoro sia una "dimensione" importante della vita. Molti maschi pensano ancora che sia soprattutto una "una roba da uomini". In compenso, molte donne libere di prendersi un anno o due per dedicarsi ai figli appena nati, pensano che per il lavoro valga la pena ridurre al minimo il periodo dell'allattamento, in modo che non venga danneggiata la loro (fottuta) carriera, mentre altre donne sono costrette ad interrompere l'allattamento al sesto mese per non perdere lo stipendio. Nel nostro mondo, fascisti, democratici e comunisti, ricchi, poveri e ceto medio, imprenditori e lavoratori pensano normalmente che il lavoro sia molto importante. Più importante del tempo libero, dei figli e quindi della vita. Sono ben felice di essere pazzo, "deviante" e "poco integrato" in un mondo che manifesta "solide convinzioni" di questo tipo. Senza pretendere di raccogliere molti consensi, mi limito quindi ad esporre le mie ragioni.

Il termine "sfiga" viene definito così nel vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli (2009): "s.f. (pop.) Sfortuna, iella". E' appropriato al concetto di lavoro perché ciò che caratterizza in modo specifico il lavoro è la costrittività che è presente anche nei casi in cui l'ambito lavorativo consente l'espressione creativa o l'uso dell'intelligenza. E' sicuramente bello risolvere problemi, migliorare la realtà, esprimere se stessi, e quindi si dirà che scoprire in un laboratorio la cura di una malattia o ripianare con l'escavatore un terreno dissestato per consentire la costruzione di una casetta o girare un film sono lavori intellettuali, manuali o creativi affascinanti. Non è vero. Sono lavori di merda in cui si riesce almeno a fare qualcosa di affascinante. Lavorare in un laboratorio non equivale a "fare ricerca", ma a rispettare orari, gerarchie, tabelle di marcia stabilite da altri, essere condizionati da chi finanzia la ricerca, ecc. Tutte cose orrende. Usare delle macchine per fare cose belle significa lavorare in certe giornate e non in altre, sottostare alle decisioni dei responsabili dei lavori e dei committenti, e significa, tra l'altro, fare solo qualche volta cose belle. Girare un film significa tener conto delle esigenze di chi ci ha investito soldi fitti, dei capricci degli attori e delle esigenze del mercato.

Ogni volta che scrivo un post risolvo problemi interessanti per me a modo mio e mi occupo delle cose di cui mi piace occuparmi. Si tratta di un bel lavoro proprio perché NON è un lavoro. Poiché non sono pressato né da un editore, né dal mercato, né dai lettori mi diverto come un matto. Se tale attività diventasse il mio lavoro (cosa del tutto improbabile) dovrei preoccuparmi di soddisfare esigenze che condizionerebbero le mie scelte, perché sarei incalzato dalla necessità di fare certe cose entro certe scadenze per non "perdere" il posto e per non trovarmi a non poter pagare l'affitto. Il lavoro è quindi quell'aspetto di costrizione (cioè di sfiga) che si aggiunge ad una attività interessante o a volte nemmeno interessante. Quando insegnavo nelle Scuole superiori mi trovavo benissimo con i ragazzi e con le materie, ma malissimo con gli orari, la pendolarità, i programmi, il preside, il consiglio dei docenti. Quando lavoravo all'ACI, da studente, oltre ad avere la sfiga di lavorare, avevo anche la supersfiga di fare un lavoro ripetitivo e stupido che ritenevo anche socialmente inutile.

Date queste considerazioni, dobbiamo inevitabilmente concludere che il lavoro è una vera disgrazia. Una disgrazia che quasi tutti ci cerchiamo solo per evitare una disgrazia peggiore (non aver denaro e quindi non avere i mezzi per fare altre cose necessarie e a volte anche davvero interessanti). Una domanda è quindi d'obbligo: data tale evidenza, perché quasi nessuno se ne accorge? La risposta è spiacevole: per lo stesso motivo per cui gli Stati continuano a finanziare eserciti, salvo poi finanziare "la ricostruzione" di paesi devastati dalle bombe, per lo stesso motivo per cui la gente continua a fare figli e a regalare ad essi un'infanzia atroce, per lo stesso motivo per cui la gente desidera tanto anche il "tempo libero" e poi lo spreca.

Se potessi riscrivere la Costituzione, inizierei con "L'Italia è una repubblica fondata sulla sacralità delle persone e del tempo vissuto dalle persone". Poi passerei alla sovranità del popolo, ai diritti, e alle altre belle cose, tra cui un effettivo riconoscimento del diritto al lavoro, con tutte le garanzie che attualmente NON sono assicurate a nessuno. La cassa integrazione è un oltraggio, non un "diritto". La cassa integrazione garantisce un po' di sopravvivenza in una società che ammette una cosa non ammissibile: la disoccupazione. Altri Stati europei fanno di meglio e danno garanzie reali a chi non ha ancora o non ha più il lavoro. Dovrebbero essere date garanzie assolute, perché uno Stato che non riesce nemmeno a proteggere dalla miseria chi è disposto a lavorare non è uno Stato rispettabile. La destra è disposta ad elargire qualche elemosina, la sinistra (indignata e inconcludente) vuole "più garanzie" per i lavoratori (solo qualche garanzia in più, per non disturbare troppo) e la gente che non lavora non è tutelata da nessuno. D'altra parte, tutto il "mondo del lavoro" è organizzato a misura del profitto e non della persona e i problemi di chi lavora davvero (o non riesce a lavorare) vengono presi in considerazione dalla politica nella misura in cui non disturbano gli equilibri del mercato, delle rendite finanziarie, dei profitti.

Tornando quindi al nostro tema, dopo la sfiga del lavoro viene la sfiga della mancanza di lavoro. Ma tale seconda sfiga non consiste essenzialmente nell'impossibilità di lavorare, bensì nell'impossibilità di vivere la vita dignitosa che il lavoro garantirebbe. Quindi, il vero valore da affermare, sia quando c'è lavoro, sia quando il lavoro manca è la vita delle persone (che include anche i mezzi materiali per vivere bene, cioè pensando a cose più interessanti di "come faremo a mangiare il mese prossimo?").

La mancanza di lavoro, quando si riesce comunque a vivere, non è mai un problema. Io non ho mai lavorato un'ora più del necessario alla mia sopravvivenza fisica e psicologica. Anche se in questo particolarissimo periodo della mia vita lavoro molto, ora, come in passato, evito di lavorare più del necessario: appena ho il necessario cerco di non lavorare. Non a caso, il primo "lavoro" che ho cercato di svolgere seriamente, è stato quello del gioco d'azzardo. Non sono un giocatore di carattere (cioè non tendo a cercare guai), ma già in gioventù avevo in mente di lavorare il meno possibile e mi sono dedicato a verificare se una cosa simpatica come il tavolo verde potesse risparmiarmi tante pene. La prima volta ho portato con me tutto il denaro che potevo perdere (400.000 lire), cioè tutti i miei risparmi e ho lasciato il tavolo appena mi sono accorto di aver vinto "abbastanza" (altre 400.000 lire). A quel tempo "erano soldi" e per due settimane feci delle spese, dei regali e mi studiai seriamente dei libri sull'argomento. Trovai un sistema (detto "Bread-Winner", cioè il sistema di quelli che col gioco vogliono solo guadagnarsi il pane) e lo feci mio con piccole modifiche. Tornai a Venezia ad applicarlo, ma l'esperienza fu disastrosa. Si rischiava poco e si interveniva solo sulle serie molto lunghe, vincendo poco ma con margini ragionevoli di riuscita. Infatti l'abilità del giocatore deve controbilanciare la limitatezza dei capitali rispetto all'avversario (il Casinò), il caso e "lo zero" (cioè il vantaggio per il banco, dato che giocavo alla roulette). Il mio sistema era molto ragionevole, ma richiedeva i nervi di una macchina e io dopo due ore ne ebbi due palle così e cominciai a giocare "a sentimento", perdendo tutto ciò che potevo perdere. Riprovai anche con un amico, in modo da avere momenti di riposo alternando con lui la presenza al tavolo, ma quando stavamo recuperando il tavolo venne chiuso e tutte le nostre "serie" accuratamente annotate divennero inutili. Tornammo a casa con perdite modeste, ma con i sogni infranti. Il giorno successivo trovai un lavoro da facchino. Esperienza interessante, quasi come quella del gioco, ma più rassicurante. In ogni caso, da facchino o da rappresentante o da insegnante o da imprenditore o da professionista ho sempre lavorato per vivere e non ho mai vissuto per lavorare. Ragionando così mi sono anche sempre tolto dai piedi in fretta le persone "ambiziose" che non sopportavo e che mi trovavano "poco motivato al successo". Appunto. Gli animali hanno molto da insegnarci, a questo proposito. Non si vede mai un lupo che vada a caccia se ha la pancia piena, cioè che senta il bisogno di "realizzarsi nella caccia" se ha già mangiato [cfr. il POST Razionalità canina e irrazionalità umana]. Il mito del "lavoro in cui ci si può realizzare" è, in realtà una stronzata [cfr. il POST Stronzate e analisi filosofica].

Molte persone hanno un lavoro, ma fanno un secondo lavoro per "farsi la casa" o per mettere da parte un gruzzolo. E in cambio dei mattoni o del gruzzolo massacrano l'intimità con il/la partner o con i figli. C'è quindi anche il problema del "troppo" lavoro. Esso è presente nel caso dei proletari-formichine, ma anche nel caso delle persone agiate: hanno abbastanza per vivere fino a cent'anni ed anche per lasciare dei soldi ai figli, ma continuano a lavorare. Continuano a rubare posti di lavoro a gente che avrebbe bisogno di trovare un'occupazione. Oppure investono i loro capitali per creare posti di lavoro allo scopo di spolpare i dipendenti in modo da accumulare altri capitali. Il problema da un lato è un problema politico (che non interessa ormai nemmeno la sinistra): come togliere ricchezza ai ricchi senza farli incazzare troppo e senza spingerli a tentare colpi di stato? Il problema però, da un altro lato, è umano ed è di tutti: che fare in una vita non scandita dai rituali rassicuranti del lavoro?

Questo secondo problema è terrificante e senza soluzione, probabilmente. La gente vive sostanzialmente per sentire poco, per non sentire cose profonde che sarebbero bellissime, ma anche dolorosissime. Con la scusa dei doveri, della cultura, della "vita di società" e (in buona misura) dei "problemi di lavoro", la gente riesce ad arrivare a sera senza aver sentito emozioni autentiche. Le emozioni autentiche sono accuratamente schivate quasi da tutti: da persone che non si accorgono di non essere amate dal/dalla partner, dato che non condividono altro che le sciocchezze della quotidianità, da persone che vedono i figli crescere come estranei e nemmeno se ne preoccupano, da persone che giurano di avere tanti amici quando nessuno dei loro "amici" rischierebbe la vita per loro.

Le persone riempiono le loro giornate di passatempi. Di "ammazzatempi". E il lavoro è uno degli ammazzatempi prediletti, perché socialmente "riconosciuto". Non a caso la maggior parte delle persone che vanno in pensione "vanno in crisi". Non sanno più che cazzo fare. Non amano niente e nessuno e il più delle volte si dedicano ai nipotini più per riempire le giornate che per amore dei figli che non hanno mai amato.

Chi ha il lavoro non smette di lavorare appena ha guadagnato abbastanza e chi non ha il lavoro non fa niente di interessante fra una ricerca di lavoro e un'altra. Le persone potrebbero "vivere" alla fine di una giornata di lavoro o dopo aver fatto tutto il possibile per trovare una nuova occupazione. Niente di tutto ciò. Il più delle volte, dopo una giornata di lavoro le persone si lamentano del lavoro e dopo una giornata di non lavoro si lamentano della disoccupazione. Se non si lamentano, si distraggono in vari modi: si deprimono, si danno colpe, fanno zapping alla TV. Le persone sono così abituate a "distrarsi" (con il lavoro o con altre cose) che non notano mai le cose più importanti della loro vita: constatano che il cane ha le zecche solo quando è moribondo, capiscono che il figlio ha dei problemi solo se rincasa strafatto, deducono che il marito ha un'amante solo di fronte al proverbiale rossetto sulla camicia. Non pensano mai che sia importante capire la vita e se comprano un libro comprano quello che hanno già comprato tutti e che il più delle volte piace a tutti perché descrive la vita in modi "banalmente intellettuali".

La cosa veramente importante nella vita non è il lavoro (che, appunto è un sfiga, in genere, necessaria), ma l'ozio. Bertrand Russell ha scritto nel 1947: "Le gioie di tutti i giorni, i momenti di liberazione dalle preoccupazioni, l'avventura e l'opportunità di dedicarci ad attività creative, sono cose almeno altrettanto importanti quanto la giustizia, nel condurci a una vita che gli uomini possano sentire degna di essere vissuta" (Autorità e individuo, trad. it. Longanesi, 1975, p.132). L'Autore, già nel 1935 aveva pubblicato un saggio sull'ozio che risulta quanto mai attuale e che dava il titolo ad un raccolta di scritti (Elogio dell'ozio, trad. it. Longanesi, Milano, 1974, rist. 2007). Bertrand Russell, in questo testo mette in discussione l'idea che l'ozio sia il padre di tutti i vizi, sottolineando che dall'ozio e non dal lavoro sono emerse le più alte conquiste dell'umanità e che proprio l'ozio rende la vita umana una vita degna di essere vissuta (se l'ozio non è sprecato in frivolezze e distrazioni). "Intendo semplicemente dire che quattro ore di lavoro al giorno dovrebbero poter assicurare ad un uomo il necessario per vivere con discreta comodità, e che per il resto egli potrebbe disporre del suo tempo come meglio crede. In un sistema sociale di questo genere, è essenziale che l'istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che miri, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero" (p. 23). "Il buon carattere è, di tutte le qualità morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I moderni metodi di produzione hanno reso possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi abbiamo invece preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire di fame altre. Perciò abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell'invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c'è ragione per continuare ad esserlo" (p. 26).

L'ozio consente l'espressione dell'intelligenza, della creatività e dell'affettività in modi non condizionati dalle necessità del lavoro. L'ozio consente anche il divertimento, che equivale a regalarsi piacere, mentre l'ammazzare il tempo equivale a proteggersi dal dispiacere negandosi qualsiasi vero piacere. Come le persone non sono inclini all'ozio, non sono nemmeno inclini al divertimento. Non sanno proprio fare a divertirsi, prese come sono dalla mania di ammazzare il tempo e di distrarsi da se stesse anche con forme artificiose di "divertimento".

Gli adulti "si divertono" stando a casa di fronte alla TV o incontrando persone con cui non hanno nulla da fare, tranne riempire il tempo. I giovani fanno le stesse cose in modi più “strascicati”. A casa dei genitori si sentono oppressi e fuori di casa si mostrano depressi: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…” (Nanni Moretti, Ecce Bombo). Altre volte, però sono “su di giri”: vanno in discoteca a sfondarsi i timpani, a impasticciarsi e ad esibire la loro sensualità soprattutto se non hanno nessuna voglia di scopare (per molte ragazzine, la minigonna o la scollatura non vanno intese come un richiamo sessuale, ma come un modo di “esprimersi” e, se corteggiate, si lamentano del fatto che i ragazzi “pensano solo a quello”). I giovani sono pieni di tabù sessuali o di confusioni sessuali o di insicurezze sessuali e solo gli ingenui credono che la società sia imbevuta di sesso [cfr. il POST Perché il sesso non interessa (quasi) a nessuno].

Altre volte gli adulti cercano di divertirsi andando in vacanza. In vacanza, le persone mangiano, dormono, fanno delle passeggiate, litigano come in città, non fanno sesso come in città e si impegnano ad ignorare i figli come in città. Non assillano i figli con i compiti, ma con le foto da scattare e con le firme sulle cartoline inviate a parenti lontani. Tornano annoiate più che riposate dalle vacanze e ricominciano a lamentarsi di una vita troppo faticosa. Alcuni adulti si divertono in altri modi: frequentano altre famiglie (a cui raccontano tutte le cose noiose che fanno), oppure vanno “in centro” a fare shopping, cioè a mettere a frutto le poche cose che hanno appreso dalla TV.

Altri adulti, invece, nel tempo libero non cercano di divertirsi, ma “si impegnano”. Molti si impegnano completando o approfondendo problemi di lavoro. Altri si impegnano sul piano religioso. Non sanno nulla della "loro" religione (pensano che il Concilio di Trento sia un raduno dei fan del Giro d’Italia), ma sono convinti di dover sostenere la parrocchia per trasmettere il messaggio divino a chi non lo ha ancora capito. Altri fanno politica. Se togliamo le donne che fanno politica femminista contro gli uomini e gli uomini e le donne che fanno politica contro gli extracomunitari, restano alcuni che fanno politica per qualcosa. Peccato che lo facciano in genere con partiti che non fanno niente per nessuno.

In pratica, le persone, quando non lavorano, tentano (senza riuscirci) di divertirsi o di impegnarsi, perché in realtà cercano di “riempirsi”: in pratica cercano di ignorare un senso di vuoto. Ciò crea disastri esistenziali. Infatti, solo per i bambini il senso di vuoto è colmabile (dalla presenza di una “figura di accudimento”). Purtroppo, agli adulti non è più data questa possibilità. Finché gli adulti concepiscono la loro vita nei termini di un vuoto reale e attuale da riempire continuano a sprecare il tempo che potrebbero occupare facendo cose buone.

Viviamo male riempiendo i nostri vuoti con illusioni lavorative o vacanziere e poi ci accorgiamo che “è subito sera”, e ci accorgiamo anche di non aver mai vissuto il tempo, digerito il dolore e gustato la gioia. L’ONU dovrebbe fare qualcosa per questo genocidio di attimi, giorni e anni ammazzati. Ammazzati con il mito del lavoro e con la rinuncia all'ozio. Ma il problema non è all’ordine del giorno.


Gianfranco







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