Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

venerdì 28 maggio 2010

In superficie


1.

Quando si dice che una certa persona è superficiale o che un dato modo di trattare una questione è superficiale si ha in mente un’idea più o meno chiara di ciò che si intende. Il termine "superficiale", in realtà, non ha un significato ben preciso, anche se è chiaro a tutti che "superficiale" non equivale a "errato" o a "incompleto". Si parla superficialmente quando, trattando un problema, non si dicono falsità o sciocchezze, ma non si coglie la "profondità" del tema trattato. Per alcuni la profondità è questione di cultura e, in tal senso, raccontare la trama di un film senza accennare al messaggio che trasmette (o alla tragica mancanza di messaggi) può risultare superficiale.

Non parlerò di superficialità in questa accezione del termine specificamente culturale, ma in un’accezione emozionale. In tale prospettiva, che gradualmente cercherò di chiarire (ma che è forse quelle più comune) un discorso è superficiale quando non coglie gli aspetti "umani" dell'argomento, cioè non tira in ballo i sentimenti che possono risultare”scomodi”.

Anche qui però va fatta un’ulteriore distinzione. Molte persone non si sentono superficiali perché con gli amici credono di comunicare “robe profonde”: non vogliono perdere tempo a commentare sciocchezze sportive o luoghi comuni della politica o tendenze della moda. Vogliono “comunicare davvero”. Il guaio è che comunicano sul piano emotivo nel senso che “ti fanno due palle così” sui loro (confusi) sentimenti. Il bello dei sentimenti sta nella loro espressione, non nella loro trasformazione in interminabili e lamentose conferenze. In genere però le cose vanno così: o si parla di sciocchezze o si parla di “problemi personali” (nel senso che si parla di situazioni emotive confuse, complicate, senza né capo né coda).

Gli aspetti autentici della nostra vita più intima “passano” con una parola, uno sguardo, facendo un gesto o parlando “in un certo modo” di qualsiasi cosa. Mostra la sua interiorità chi dice semplicemente “quella musica mi fa venire in mente la Luisa ... eravamo così giovani!”, mentre nasconde la sua interiorità chi dice cose del tipo “sto attraversando un momento di crisi perché non so se amo ancora Giuseppina, anche se mi sento responsabile per lei, ma sento che anche lei non mi ama davvero e so che dovrei capire che forse ha dei problemi, ma anche io non so sempre come reagire di fronte ai problemi, dato che da una vita mi occupo dei problemi di tutti e tutti pensano solo a se stessi, e insomma, bla, bla, bla”. Nelle comunicazioni personali, quindi, si può stare in superficie sia nascondendo ciò che si sente, sia esibendo sentimenti fasulli, contorti, complicati.

Un altro indicatore della superficialità è costituito dal modo in cui vengono ricapitolati i fatti di cui si parla: ad esempio formulando giudizi sommari anziché articolati, sottolineando le conclusioni di una vicenda anziché le motivazioni di chi ha agito in certi modi, fissando (presunti) diritti o doveri anziché chiarendo le ragioni delle scelte prese in considerazione, confermando letture “ideologiche” anziché accurate di certe situazioni interpersonali.

2.

Per analizzare specifiche affermazioni superficiali si può procedere come nella soluzione delle equazioni, facendo ripetute sostituzioni di espressioni generiche o schematiche con espressioni aderenti ai processi interiori trascurati. In tale analisi, le cose tornano al loro posto, proprio perché la verità basilare era stata occultata o trasformata. Le cose però tornano in una posizione “scomoda” perché l’artificio della superficialità viene sempre adottato per occultare delle spine evidenziando petali di rosa staccati dal contesto.

Farò un esempio, passando da un’espressione superficiale di partenza ad espressioni sempre più aderenti alla realtà, correggendo gradualmente le distorsioni, le generalizzazioni scorrette, le svalutazioni, ecc.

a) I giovani sono incapaci di controllarsi, di riflettere, di prendersi delle responsabilità e pensano solo a divertirsi. Vanno indirizzati perché devono capire che la vita sociale comporta dei doveri e non solo dei diritti e quindi devono affrontare la realtà in modo costruttivo.

b) I giovani spesso agiscono in modi che alcuni adulti interpretano come mancanza di controllo e che altri adulti più consapevoli interpretano come ribellione. Così facendo si prendono la responsabilità di reagire a situazioni per loro spiacevoli, ma, limitandosi ad una semplice ribellione, non cambiano le cose. Per motivi da approfondire rifiutano di aderire a certi modelli di condotta e per altri motivi da approfondire cercano di distrarsi e si illudono di potersi divertire in modi semplici. La società impone a loro dei doveri e riconosce a loro pochi diritti e molti adulti pretendono che i giovani si adattino a questa situazione squalificando ogni loro esplicita o implicita opposizione.

c) I giovani, con dei segnali di ribellione controllano una rabbia profonda (che temono di esprimere) nei confronti di una società che li ha fin dall’infanzia ignorati e che all’improvviso li vuole “partecipi”. Spesso non vogliono sentire il dolore dovuto al fatto che non si sentono in grado di cambiare la società, pur essendo già in grado di percepire che essa non è a misura delle persone. Si sentono disarmati di fronte all’interpretazione squalificante e arbitraria di ciò che sentono e fanno, e sono smarriti di fronte alla pretesa degli adulti di farli aderire ad un mondo che non hanno organizzato loro e che non li rispetta.

d) I giovani spesso manifestano in modo esplicito o implicito (passivo) una profonda rabbia nei confronti della società per non sentire la loro impotenza: capiscono più o meno consapevolmente che per “integrarsi” dovranno rinunciare a rispettare i propri bisogni e sentimenti profondi e capiscono anche che rifiutando di integrarsi pagheranno dei prezzi altissimi sul piano umano e anche sul piano dell’autonomia economica. Finché non scelgono fra la resa alla “normalizzazione” e il rifiuto attivo di modelli sociali distruttivi restano sospesi in una bolla di generica insofferenza sorseggiando il piacere di piccole gratificazioni circoscritte e subendo varie forme di repressione.

e) In un mondo superficiale, spietato, privo di valori, indifferente ai bisogni dei bambini e capace di trattare gli adulti come oggetti da sfruttare, i giovani spesso non si sentono abbastanza grandi da tollerare tanto dolore, non si sentono abbastanza forti da affermare una consapevole opposizione, ma non si sentono nemmeno così piccoli da adattarsi a qualsiasi cosa. Per questo spesso manifestano forme circoscritte, parziali, “facili” di ribellione e di rabbia inconcludente. Gli adulti a loro vicini, che non hanno capito la loro solitudine negli anni dell’infanzia, non capiscono nemmeno la loro sofferenza negli anni dell’adolescenza e rispondono con prediche su ciò che è "giusto" e ciò che è "sbagliato" (per loro). Le autorità costituite trascurano in modo ancor più radicale il disagio dei giovani ribadendo le norme stabilite. Nel passaggio all’età adulta i ragazzi in genere cedono, cioè "si arrendono" e passano dalla loro confusione ad un'ottusa subordinazione ai miti ed ai riti di un mondo normalmente disumano.

Nel passaggio dalla frase “a” alla frase “e”, cioè dalla superficie alla profondità, cresce la consapevolezza del dolore dei giovani ed anche dello scarso rispetto nei loro confronti. La determinazione a fare riflessioni profonde riflette un amore per la vita che manca quando prevale la superficialità.

Di fronte ad un bambino che piange i genitori rispondono dicendo “non piangere, va tutto bene!” mentre se il bambino piange ha bisogno di piangere proprio perché qualcosa non va bene. Di fronte ad un ragazzino che arriva a casa con tre anelli nel naso i genitori reagiscono criticando quella “sciocchezza”, senza nemmeno tentare di capire che grazie a tale provocazione il ragazzo forse sta evitando di sbattere la porta e andare via di casa. Resta lì a rompere i coglioni perché non sa dove andare. Non sta bene e non sa come gestire la cosa. Le "cose" sono spesso difficili da “gestire” a quarant’anni con un conto in banca e un lavoro, perché le emozioni spaventano anche gli adulti; sono quindi particolarmente difficili da gestire quando non si hanno nemmeno quelle piccole, banalissime sicurezze materiali.

3.

Si deve riconoscere che la tendenza a "stare in superficie" è tanto diffusa da definire la normalità. Abitualmente le persone trattano gli altri come oggetti e non come persone. Tutti i ritardi, gli appuntamenti mancati, le mancanze di attenzione, le “dimenticanze”, implicano un’indifferenza per gli effetti sugli altri delle nostre azioni. Vi è mai capitato di conoscere un idraulico che telefona per dire che ha avuto un contrattempo e che tarderà un’oretta?

Tutte le adesioni incondizionate alle consuetudini implicano uno scarso rispetto per sé e un’ingombrante esigenza di “essere come tutti”. Quante persone si sposano dopo essersi chieste se il matrimonio abbia un senso?

Tutte le scelte di vita fatte senza una chiara consapevolezza dei veri motivi che le giustificano rischiano di essere irrazionali e di creare grandi sofferenze. Si pensi a chi fa dei figli per non avere una vita “vuota” o a chi fa dei figli “perché li fanno tutti”. E si pensi a quante persone fanno figli e accompagnano con una "presenza assente” la loro crescita, senza capire e senza voler sapere come realmente si sentano e di cosa abbiano bisogno.

Spesso le persone tradiscono (sessualmente) il/la partner senza avvertire particolari disagi, ma ancora più spesso tradiscono il/la partner in altri modi: attaccandosi a privatissimi stati d’animo confusi, esprimendo insoddisfazioni generiche, imponendo distanze sgradite, litigando per stupidaggini.

Questa diffusa tendenza alla superficialità NON è una realtà "spontanea" che solo alcune persone austere evitano in nome di "robe profonde e complicate", ma è il risultato di un progetto di vita fondamentalmente distruttivo (non consapevole) tradotto in scelte e azioni giorno dopo giorno [cfr. il POST Cuccioli umani]. Noi tutti siamo fondamentalmente sensibili e "profondi" e se per vari motivi cerchiamo di vivere una vita "superficiale" che in realtà è "non nostra", agiamo in questo modo per schivare molte consapevolezze dolorose e "difficili". La realtà ci sorprende ogni giorno con i suoi doni ed anche con le sofferenze che con altrettanta generosità ci dispensa. La realtà non è una cosa semplice: ci scalda e ci spezza il cuore in continuazione e proprio la consapevolezza di questa complessità della nostra vita rende “profondi” i nostri pensieri, “autentici” i nostri sentimenti e comprensibili i nostri comportamenti.

Si dirà che nessuno ci obbliga a fare la fatica di mantenere il contatto emotivo con la gioia ed il dolore della nostra vita e che abbiamo il diritto di restare in superficie, di “non pensarci troppo” e di mettere qualche distanza fra noi e la realtà nei momenti più penosi [cfr. il POST Le seghe mentali]. Verissimo. C’è però un dato di fatto che merita molta attenzione: se “ci corazziamo”, non mettiamo un diaframma fra noi e la realtà, ma fra le nostre sensazioni e la nostra consapevolezza. Questa cosa va chiarita. Se Gaspare ci offende e noi “facciamo finta di niente” e magari reagiamo facendo spallucce e un sorrisino, possiamo riuscire a non sentire un’emozione corrispondente alle circostanze, ma in questo caso non ci proteggiamo davvero da Gaspare (così come l’ombrello ci protegge davvero dalla pioggia). L’offesa arriva a noi e “ci tocca”. Fra le parole di Gaspare, la nostra sensazione e la nostra emozione, tutto scorre senza alcun ostacolo, senza alcuna “protezione”. Se noi “ci irrigidiamo” e “reagiamo con indifferenza” interrompiamo solo il flusso fra la nostra emozione e la nostra consapevolezza. Riusciamo ad essere poco consapevoli di un'emozione che comunque è già “nostra”. Come se anziché un ombrello esterno che ci ripara dalla pioggia aprissimo un ombrello interno che ci rende inconsapevoli della pioggia: siamo consapevoli di una bellissima giornata, ma l’acqua ci inzuppa comunque.

Se Gaspare è un amico, una persona cara, la sua reazione distruttiva ci ferisce e ci addolora; non sentiamo immediatamente rabbia come quando ci colpisce un estraneo. Un amico che ci colpisce, non è un semplice ostacolo da combattere perché non vorremmo escluderlo, ma vorremmo che ci manifestasse del bene. E il bene non si conquista con i cazzotti o con le risposte offensive. La risposta emozionale appropriata è quindi costituita dal dispiacere, dal dolore, dalla tristezza. Se noi restiamo in superficie non evitiamo che questo dispiacere “ci attraversi”. Possiamo sentirci poco toccati, ma non possiamo non essere toccati. Possiamo anche sentire un’altra emozione al posto del dolore, nel senso che possiamo coprire quel dolore (comunque “esistente”) con una rabbia inappropriata alle circostanze (dato che Gaspare è un amico), o con una reazione vittimistica (“ecco cosa si ottiene ad essere buoni!”), o con una squalificazione (“povero Gaspare, deve essere andato fuori di senno!”), o con una minimizzazione (“Gaspare è volubile, bisogna prenderlo così come è e poi gli passa”). Noi possiamo pensare o dire queste fesserie e sentire, di conseguenza, poco dolore. Restando in superficie, tuttavia, non interrompiamo il contatto con Gaspare, ma con il nostro dolore.

Queste strategie difensive che ci permettono di sentire poco sono molto comuni. Pensiamo e diciamo tante fesserie e quindi sentiamo “solo ciò che vogliamo sentire” perché abbiamo (più o meno consapevolmente) deciso di stare in superficie e di non sentire la nostra vera vita. La nostra vera vita però ci appartiene comunque e “scorre” comunque, anche se sotto la superficie [cfr. il POST Crimini di tempo].

La nostra consapevolezza spesso non è scalfita dalla nostra reale profondità ma, purtroppo, finisce inevitabilmente per essere scalfita dagli effetti indiretti degli imbrogli che mettiamo in atto per restare anestetizzati. Le persone, abitualmente manifestano pochi sentimenti, oppure giocano con sentimenti fasulli e non fanno alcuno sforzo per immaginare i sentimenti degli altri, ma poi finiscono per sentire il “pattume emotivo”, cioè finiscono per sentire le esalazioni della vita reale compressa sotto la superficie: depressione, invidia, gelosia, competitività, strane ansie, “nervosismo”, “irritabilità”, “timidezza”, “voglia di vacanze”, “una strana stanchezza”, una strana necessità di “sfogarsi con gli amici” (come se fossero dei pisciatoi), ricorrenti “mal di testa”, incomprensibili “disturbi sessuali”, ecc. Alla fine , stando in superficie, non si coglie il lato scomodo della nostra “vita profonda”, ma ci si deve ciucciare la massa di “prodotti di scarto” che dalla profondità filtrano come deformazioni o caricature della nostra vita interiore.

Forse la superficie non è la nostra vera dimensione e ammetterlo è la condizione per vivere il nostro tempo e smettere di ammazzarlo.

Gianfranco




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