Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

venerdì 12 marzo 2010

Sognare realisticamente in grande


E’ una strada lunga, quella alle mie spalle (It’s a long road behind me)
è una strada lunga, quella che ho di fronte (it’s a long road ahead)

Se insegui tutti i tuoi sogni (If you follow every dream)
puoi anche perderti (you might get lost)

(Neil Young, The Painter, in Prairie Wind)


Ci spostiamo sempre, anche restando fermi. Ci spostiamo in continuazione nel nostro spazio interno e nel tempo. Non riusciamo mai ad afferrare una sensazione perché, appena tentiamo di farlo, vediamo che è già fuggita nel passato ed è stata sostituita da un’altra. Non riusciamo mai a fissare alcun pensiero nella sua immediatezza, perché appena nasce corre via, nel flusso della memoria. Fra memoria di ciò che è già stato e previsione di ciò che può essere, sentiamo ogni attimo della nostra vita come “inconsistente” perché già divenuto storia personale.
Eppure esistiamo tangibilmente, calati sia nella realtà delle cose che ci circondano, sia nella realtà del nostro mondo soggettivo.
Di fatto siamo sempre in movimento, sempre sospesi nel labile presente che unisce un probabile futuro e un definitivo passato. Questa è quella realtà non perfettamente concepibile su cui rimuginano i nostri compagni di strada da millenni e a cui ognuno di noi aggiunge una piccola riflessione, una sensazione o un barlume di vaga incredulità. E mentre facciamo ciò, le riflessioni sono già archiviate e saranno recuperabili solo come ricordi, in un futuro che diventerà presto passato. Le sensazioni sono già assorbite e anche le perplessità sono diventate le perplessità di ieri.

Questo è il quadro di riferimento del post, ma non è il suo contenuto. E’ la cornice, non il quadro. Il quadro infatti non riguarda la realtà ineffabile della temporalità in quanto tale, ma la realtà vissuta della storia personale.

In ogni momento della vita definiamo il nostro futuro proprio rimaneggiando il nostro passato. L’aspetto più importante del nostro presente è proprio questo rimaneggiare il passato. I nostri progetti (costruttivi o distruttivi), relativi al futuro immediato o al futuro lontano, dipendono da ciò che abbiamo “ricavato” dal nostro passato. Non dobbiamo considerare come una mera speculazione l’idea secondo cui costruiamo il futuro con i mattoni del passato; infatti, non è il nostro passato a determinare il nostro futuro, ma ciò che noi ricaviamo dalle nostre esperienze divenute elementi del nostro passato. Il futuro dipende non tanto dai “vecchi mattoni”, ma dal modo in cui decidiamo di utilizzarli per nuove costruzioni.

Il nostro tempo è sempre vissuto, ma è vissuto “in espansione” oppure “al risparmio” a seconda delle nostre convinzioni, dei nostri pregiudizi, delle nostre illusioni, cioè a seconda delle idee balorde o sensate che abbiamo sviluppato riflettendo sul nostro pasato.
Gli psicologi che pretendono di studiare “scientificamente” le relazioni causali fra esperienze “subìte” e comportamenti attuali, costituiscono l’esempio più illuminante di come si possano ricavare idee balorde dalle esperienze fatte, e di come si possano, quindi, costruire strumenti interpretativi sballati da applicare a situazioni future. Nel presente-futuro degli “esperti-psy” ci sono vittime del passato da salvare e questo blocca la comprensione del modo in cui le persone utilizzano nel presente il loro passato.

L’attività con cui ogni giorno (in modi rigidi o creativi) ricapitoliamo il nostro passato, e con cui costruiamo ogni giorno un pezzettino di futuro, può essere definita in modo asettico come “elaborazione dei dati in funzione di una progettualità”, ma io preferisco definirla in modo un po’ naive, ingenuo e magari “poetico” con l’espressione “sognare il futuro”.
Noi umani siamo stati definiti animali razionali, animali sociali, esseri spirituali e persino “bipedi implumi”, ma io preferisco pensare agli umani come a persone e quindi come ad esseri sospesi fra la nascita e la morte intenti a realizzare i loro sogni.

Con queste considerazioni non siamo ancora giunti al quadro vero e proprio: siamo in quella zona della tela che sfiora la cornice.
Il quadro riguarda la libertà di realizzare sogni o di perdersi nei sogni, per usare le parole d’apertura di Neil Young. Il quadro vero e proprio è quindi una “roba” delicata ma molto intensa, non delineata con tratti netti, ma con sfumature. Come un quadro di Turner. Possiamo quindi provare a tuffarci in quei colori caldi e in quelle linee morbide, cercando di orientarci, pur sapendo di non poterci aggrappare ad angoli retti o a segmenti ben definiti.

Perché possiamo “perderci” nei nostri sogni? In quali casi i sogni sono un vortice che ci cattura in un circolo vizioso e in quali casi sono invece un faro che ci guida a destinazione? La parola “sogni” mi piace proprio perché ha un’ambiguità che permette di intendere sia i sogni costruttivi (si pensi ad “I have a dream” di Martin Luther King), sia i sogni distruttivi (quelli che identifichiamo quando diciamo che Tizio è solo “un sognatore inconcludente”).

Io sono convinto che i sogni che ci guidano positivamente nella costruzione di un buon futuro siano “sogni d’amore” (per noi e per gli altri, dato che le due cose procedono sempre assieme).
Se dai successi e dagli errori del passato (che hanno comunque determinato gioie e dolori) ricaviamo rispetto e compassione per noi stessi, possiamo solo cercare di esprimere il meglio di noi stessi e in questo modo costruiremo (per quanto dipende da noi) un buon futuro.
Se invece dai successi e dagli errori del passato (che hanno comunque determinato gioie e dolori) ricaviamo l’idea di non voler rischiare alcuna sofferenza profonda, faremo “sogni rattrappiti”, mireremo a delle “sicurezze” staremo attenti ad evitare delusioni e non cercheremo di esprimere fino in fondo le nostre potenzialità.
L’amore significa voler bene, cioè volere il bene: ha come priorità il fare cose buone ed implica solo in seconda battuta l’evitamento dei dispiaceri. Se la casa è in fiamme, un genitore cerca di uscire con il figlio, non cerca di uscire al più presto. L’amore è questo “fare il bene”; non è uscire di corsa, poi drogarsi di sensi di colpa. Ora, quante volte facciamo il bene dei nostri figli e quante volte facciamo delle sciocchezze che a loro fanno male? Non solo: dato che ognuno di noi è il primo “figlio” di se stesso (nel senso che, da adulti, noi siamo affidati prima di tutto a noi stessi), quante volte facciamo il nostro bene e quante volte facciamo sciocchezze che ci fanno male?
Se riflettiamo un attimo, ogni volta che facciamo del male siamo spaventati da qualcosa (magari da pregiudizi sballati derivati erroneamente delle esperienze già fatte). La paura irrazionale funziona come un freno a mano tirato al massimo e ci sottrae disponibilità verso chi amiamo (i figli, il/la partner, noi stessi, gli altri). Fare del male non è piacevole, nemmeno quando produce potere, ricchezza o notorietà. Le persone che fanno del male sul piano interpersonale o sul piano sociale e politico sono persone infelici. Vanno combattute, ma prima di tutto vanno comprese come delle persone perdenti: non fanno del bene perché non hanno capito niente del loro passato, sono accecate dalla paura e riescono solo a dire stronzate [cfr. il POST Stronzate e analisi filosofica] per giustificare le azioni che rendono infelici loro stessi e gi altri. Hanno l’orologio fermo e credono, da qualche parte, di essere ancora all’asilo o nella culla.

I sogni “distruttivi” possono essere sogni grandiosi o “miserabili”.
Chi sogna cose impossibili evita di soffrire in modo autentico (e costruttivo) perché, dopo essersi dissociato dalla realtà “montandosi la testa”, arriva sicuramente a delle delusioni, ma proprio per il fatto di essere partito in modo non realistico avrà buon gioco a interpretare vittimisticamente le delusioni come “ingiustizie”. I vittimisti non provano mai dolore, pur “stando male”. Non sentono una perdita, un fallimento: sentono solo rabbia per una (presunta) ingiustizia che “non si sarebbe dovuta verificare”. Stanno quindi in contatto con una realtà fantastica di cui la “realtà reale” è soltanto una copia “sbagliata” e “provvisoria”.
Chi sogna “in piccolo”, per motivi opposti evita di soffrire autenticamente: evita infatti di “subire una delusione”, dato che si programma un sogno già deludente. Non sente dolore, ma solo grigiore.

La gente non fa sogni grandiosi o rattrappiti per stupidità, ma perché ha deciso di fare quei sogni in un momento delicato della storia personale (l’infanzia), in cui il contatto con la realtà era troppo doloroso [cfr. il POST Cuccioli umani]. Non sa perché fa ciò che fa.

Una delle cose più belle dell’età adulta è la capacità di tollerare il dolore. Non sto dicendo che sia bello attraversare il dolore, ma sto dicendo che è bello sapere di poter mantenere una completa integrità anche nei momenti più dolorosi. Tale consapevolezza ci rende liberi, non ricattabili realmente forti. Più forti di chi accumula potere in modo da causare dolore agli altri e da proteggersi dalla rabbia degli altri. Questi loro (pseudo) forza è in realtà una prigione ed è una prigione fragile.
Gli adulti hanno una notevole autonomia, anche se spesso non ne tengono conto. Possono, più dei bambini evitare alcune situazioni dolorose perché possono ritirarsi da rapporti o situazioni spiacevoli. Possono anche combattere con più forza dei bambini. Ma se non possono né fuggire né combattere possono comunque accettare, elaborare, attraversare e superare i dispiaceri inevitabili. Possono quindi risparmiarsi i “trucchi” con cui molta gente scappa mentalmente facendo sogni balordi. Potendo rischiare della sofferenza, gli adulti possono quindi “sognare realisticamente” e possono “sognare in grande”. Ciò rende la vita un’avventura anziché uno spot pubblicitario reiterato fino alla nausea. Per questi motivi, possiamo risparmiarci sia una vita “pericolosa”, sia una vita da addormentati nel bosco. Possiamo sognare una vita buona, una vita “nostra”.

Io sono un sostenitore dei sogni “in grande”. Mi prendo sempre la libertà di impegnarmi in progetti bellissimi, coinvolgermi con forti sentimenti, proporre cose importanti, anche se in genere sbatto il naso contro la paura degli altri. Mi rattoppo alla meglio e ricomincio. So benissimo che fare sogni realistici e grandi implica proprio molte delusioni, ma so anche che rende possibili delle grandi soddisfazioni e soprattutto la sensazione di non vivere in una cassaforte.
In terza media, avevo un sogno abbastanza sensato: baciare una ragazza molto carina. Avevo anche idee più sensate, ma abbastanza vaghe. Eravamo in montagna con molti amici e le rispettive famiglie. Una settimana bianca strappata alla routine della scuola. Io non sapevo esattamente cosa fare e ciò che avevo visto nei film mi sembrava fuori della mia portata, anche perché la mia amata era con me gentile, ma non proprio incoraggiante. Ero molto teso e aspettai inutilmente il “momento migliore”. Passai quindi a cercare il momento “meno peggiore” e le chiesi se voleva diventare la mia ragazza. Lei ebbe il merito indiscutibile di essere chiara e di non lasciarmi sulle spine. Strillò con gli occhi sbarrati “Cavatelo dalla testa!” e mi lasciò lì, nel bar dell’albergo come un appestato. Se ci ripenso, odo ancora quelle parole e ricordo benissimo di aver percepito lo scricchiolio di una botola che si apriva sotto i miei piedi facendomi precipitare in uno sconforto totale. Posso anche dire che non mi sentii solo, dato che, non per empatia, ma per i decibel della risposta, tutto l’albergo “condivise” in tempo reale la notizia che avevo ricevuto.
Sono ancora grato ad un amico, il quale mi disse che la fanciulla avrebbe potuto rispondermi in modi più garbati e restò mio amico. Risalii un po’ dalla “botola. Mi ritrovai al sicuro, dopo qualche ora quando vidi che nessuno mi aveva tolto il saluto e che quel disastro non era quindi la prova di una mia totale inaccettabilità da parte del mondo. Mi rassicurai un altro po’, dopo alcuni giorni, quando quella ragazzina si innamorò perdutamente del più coglione della compagnia (che poi la scaricò alla velocità della luce).
A conti fatti sono felice di non essere ancora alle prese con un tormentone del tipo “come sarebbe stata la mia vita se mi fossi deciso a “dichiararmi”? Tra le tante cose che so, includo anche che quel giorno è stato un disastro e che la mia vita non è però stata devastata. Sono rimasto una persona schietta, sia con le donne, sia con gli amici, sia con tutti. Detesto chiedermi “cosa sarebbe successo se avessi fatto la tal cosa”.

Questa storiella (che però costituisce una delle mie “fatiche di Ercole”, data l’età che avevo), nelle mie intenzioni dovrebbe chiarire il concetto di “sognare realisticamente in grande”. Se avessi sognato in piccolo avrei pensato solo a sciare e se avessi sognato in modo grandioso avrei probabilmente cercato di imitare quell’attore in quel film, ma io sapevo di non corrispondere a quel modello, dato che avevo ancora i brufoli. Credo di aver fatto bene a sognare in grande, ma realisticamente.

Io penso che se fossimo consapevoli di tutte le valutazioni che facciamo mentre diamo forma ad un sogno, faremmo solo sogni sensati, ma purtroppo molte volte facciamo valutazioni errate in piena incoscienza.

Un altro sogno, che mi ha accompagnato dall’adolescenza in poi, e che da allora continuo a realizzare giorno per giorno, ha comunque le sue radici nel modo in cui ad un certo punto ho inquadrato il mio passato (di allora).
A 16 anni, alla fine degli anni ’60 i “grandi” del mio liceo facevano discorsi nuovi e comunque tali da rendere necessarie delle scelte: richiedere l’assemblea generale degli studenti? partecipare a degli scioperi? occupare la scuola? Cose che per me grosse, ma la situazione era tale da rendere una scelta anche il non fare nulla. Ormai il dramma del primo bacio era stato risolto, ma il dilemma della collocazione politica era anche più complicato. Mi tuffai nei libri, nei giornali, nelle riviste. Era in ballo anche un’eventuale, possibile, ipotetica contestazione di tutto “il sistema”. Prima non mi ero accorto che ci fosse un “sistema”, eppure cominciavo a capire che ciò che succedeva nelle piazze era collegato a ciò che succedeva nelle fabbriche, e che ciò che succedeva in Italia aveva a che fare con ciò che succedeva negli Stati Uniti, in Uruguay o in URSS. Un bel casino. Mi avvicinai al Movimento Studentesco, da “pulcino”, ma deciso a capire meglio e a contribuire con ciò che avevo già capito.
Ora so che quello era solo l’inizio di un lungo percorso, ma allora era il mio presente ed era un presente intriso di sogni che riguardavano me e tutti gli altri, sia che fossero amici, o “fratelli”, o “compagni”. Cominciai a prendere mattoni del mio passato già usati per costruire un carcere e cercai di riutilizzarli per costruire un teatro.

In tutto il discorso sul “sistema” c’era un concetto che mi intrigava e mi inquietava particolarmente: il concetto di “demistificazione”. L’idea che molte idee o ideologie o consuetudini “mistificassero” qualche “vera realtà” mi affascinava perché, prima di quel momento, avevo vissuto con disagio molte esperienze che, se “demistificate”, sarebbero risultate sensate. Tutto però era confuso. Infatti il problema si radicava proprio nella confusione che avevo da sempre respirato nella mia famiglia.
Nella mia famiglia, spesso, le cose che percepivo come spiacevoli venivano descritte come giuste e tale operazione non includeva né alcuna dimostrazione di miei ipotetici errori percettivi, né una dimostrazione dell’inevitabile spiacevolezza delle cose giuste. Farò alcuni esempi.

Alcuni amici che “giocavano in strada” mi invitarono ad andare con loro al fiume a costruire una zattera con barili di plastica. La cosa poteva sembrare anche bizzarra, ma in realtà questi amici avevano genitori molto affidabili, giocavano in strade di un quartiere di estrema periferia in cui passava un’automobile al giorno e giocavano in un “fiume” che era in realtà un ruscello. La sfida non stava nel “governare le rapide” (inesistenti), ma nel far spostare la zattera senza farla incastrare fra i sassi. Il “fiume” scorreva a pochi metri dalla casa del “comandante” che era un mio compagno di scuola. Negandomi l’autorizzazione i miei genitori non trascurarono di sottolineare quanto io fossi fortunato ad avere una famiglia che non mi “trascurava” lasciandomi in strada. Ecco, io compresi che loro potessero non assecondare la mia richiesta, ma non riuscii a sentirmi fortunato. La gioia non sprizzò, ma non capii dove fosse l’errore.

Un’altra cosa che non riuscii a trovare ragionevole fu il rapporto fra la benevolenza dei miei genitori verso gli animali e il rifiuto di tenere un cane. In vacanza, sulle Alpi, a circa sette anni, incontrai una cucciola di Collie (Ava) che i proprietari di un bar volevano cedere a qualcuno che ne avesse cura. Io ero già abituato a mantenere gli impegni presi e chiesi di portare con noi Ava, che si era letteralmente innamorata di me. I miei non dissero né sì né no, ma essendo abituato ai no, interpretai l’incertezza come un sì, soprattutto per via dell’assidua frequentazione della cagna che mi fu concessa. Ogni giorno chiedevo solo una cosa: di andare al bar. E ogni giorno Ava scalpitava appena imboccavamo la stradina. Alla fine delle vacanze sentii quanto un “no” possa infilarsi nel cuore come una lama. Ma sentii anche l’inconsistenza delle “ragioni addotte”: i cani sporcano e io non me ne sarei potuto occupare perché andavo a scuola. Io sapevo già che le case si possono pulire (mia madre non faceva altro) e sapevo benissimo che mi sarei preso cura di Ava come di me stesso. Anche lì non riuscii a comprendere perché la mia sofferenza fosse davvero necessaria. Soffrii per Ava e anche per l’impossibilità di far combaciare sensazioni e ragionamenti.

Piccole cose che, però, unite a molte altre, creavano in me sensazioni confuse di fastidio. I conti non mi tornavano, anche se non riuscivo ad argomentare di fronte alla risolutezza con cui i miei genitori affermavano delle stupidaggini. I miei genitori avevano una mitologia domestica relativa alla stanchezza: la mamma "si affaticava tanto" ad occuparsi di me e della casa e papà "si affaticava tanto" a lavorare. In pratica, mamma non aveva mai passato un giorno in fabbrica e papà lavorava nel negozio, non in fonderia. Io vedevo in TV storie riguardanti gli schiavi nell’antica Roma (Spartacus di Stanley Kubrick mi colpì molto), o i servi della gleba o gli operai nelle fabbriche dell’800. Non frequentavamo molte persone povere, ma alcuni nostri amici contadini mi facevano sospettare che nei campi si lavorasse sodo. La cosa ancor più strana, per me, era il fatto che anche io fossi incluso in questa mistica del duro lavoro, perché a volte mi si diceva che svolgevo con molto impegno il mio dovere a scuola. Io avevo dei buoni voti, ma in realtà non studiavo mai. Non leggevo nemmeno libri. Prima della mia personalissima “rivoluzione culturale” avevo letto solo un libro per bambini e avevo iniziato e mai concluso alcuni libri di favole. Se “quella roba lì” era “il mio duro lavoro” perché veniva esaltata una fatica che non sentivo?

Queste ed altre cose egualmente irrazionali ma difficilmente contestabili da parte mia, per via dell’età, mi portarono a vedere il primo psicoterapeuta in prima media, dopo due o tre anni in cui ero progressivamente andato fuori di testa, senza che in quell’oasi ufficialmente felice (a parte la “stanchezza”), nessuno se ne fosse accorto.

Perché racconto questa storia? Non certo per avere un aumento di stipendio dalla redazione del blog, che non mi dà un euro e che è composta i buona parte da persone che hanno avuto storie altrettanto complicate. Racconto la storia perché il tema è la costruzione del futuro sulla base della elaborazione del passato. La mia prima psicoterapia non funzionò. La formazione freudiana dell’analista non poteva produrre alcuna comprensione sensata del mio disagio. Tuttavia, a parte la mania dell’analista di trascrivere con molta cure tutti i resoconti dei miei sogni, la pazienza di tale persona adulta nell’ascoltarmi senza contraddirmi e senza spiegarmi quanto fossero belle le cose brutte o brutte le cose belle, mi aiutò ad avere più fiducia in ciò che sentivo. Egli fece (lo capisco ora) alcune trasgressioni alle regole standard dell’analisi, forse per via della mia giovane età, o della sua giovane età (credo di essere stato uno dei suoi primi pazienti): mi disse che ero intelligente, che avevo dei buoni sentimenti, che lui non credeva in dio e che io potevo piacere alle ragazze. Gli sono ancora grato per non avermi mai detto di essere “fortunato” a frequentare psicologi a quell’età e nemmeno di “stancarmi eroicamente” nelle sedute. Qualche ansiolitico in dosi minime e la tempesta ormonale (vissuta con le rassicurazioni necessarie) fecero il resto. Riuscii a riprendermi in tempo per non perdere l’anno scolastico e consolidai alcune certezze.

Pur non ricavando da quell’esperienza alcuna illuminazione sulla mia famiglia, trovai il modo di crescere. Poi, una buona analisi (non freudiana) mi aiutò, da adulto, a chiarire le cose non chiarite da ragazzo. Tuttavia, la mia prima ricerca consapevole di una “illuminazione” riguardante le cose della mia vita, iniziò a fine liceo con quella storia della “mistificazione”. Cominciai, infatti a collegare alcune cose:
a) il fatto che si possano avere sintomi che nulla hanno a che fare con la vita reale di cui si è coscienti,
b) il fatto che i miei genitori (in perfetta buona fede) avessero detto e dicessero cose che erano contraddette dalla realtà,
c) il fatto che ideologie consolidate (come il liberismo o la dottrina sociale della chiesa) giustificassero un assetto sociale che calpestava la libertà, ostacolava l’eguaglianza fra gli uomini e giustificava delle palesi ingiustizie
d) il fatto che varie filosofie o “scienze sociali” tentassero di spiegare queste contraddizioni, ma che, paradossalmente, proprio milioni di persone sfruttate non comprendessero il loro sfruttamento ed adorassero personaggi politici completamente fuori di testa o alti prelati che sguazzavano nell’oro.

In quel periodo della mia vita decisi di demistificare tutto il possibile. Decisi di rispettare i miei sentimenti, i fatti ed i buoni ragionamenti. Decisi di avvicinare gli altri per migliorare una società che mi disgustava e per migliorare la vita di persone che immaginavo potessero essere vulnerabili come me. Mi occupo ancora dell’irrazionalità individuale e sociale.
Ci sto ancora male perché vedo ogni giorno che la sofferenza degli esseri umani deriva in massima parte dalle convinzioni demenziali della gente, non dai virus, dai terremoti o dall’invecchiamento. Anzi, non riusciamo ad affrontare adeguatamente queste minacce naturali alla nostra incolumità proprio perché siamo stupidamente dediti a costruire bombe atomiche, a invidiare i vicini di casa e a “spararci in vena” il Festival di S. Remo. Le famiglie continuano ad apparire meravigliose anche se sono disastrose, le fedi religiose continuano ad essere vendute come “robe spirituali” (mentre in misura significativa calpestano la spiritualità con il moralismo e il dogmatismo) e la politica continua a tutelare interessi particolarissimi ipnotizzando persone sprovvedute con idee che qualsiasi marziano di media intelligenza considererebbe balorde [cfr. il POST Favole e marziani].

Questi sono anche i temi del blog, ma questa piccola storia personale può (spero) chiarire che le nostre convinzioni non si formano a causa del passato o a causa di qualche sollecitazione attuale: noi rispondiamo alle sollecitazioni attuali proprio utilizzando ciò che abbiamo compreso o frainteso del nostro passato. Se non avessi mantenuto dei dubbi sui “conti che non mi tornavano” e se non avessi ricevuto (ma anche utilizzato) alcune sollecitazioni per mettere in discussione delle certezze prive di giustificazioni, ora starei sognando altre cose e non mi vorrei bene.
Non possiamo non sognare, ma se facciamo sogni che producono infelicità dobbiamo chiederci quale fetta del nostro passato stiamo cercando di non capire o di non sentire. Da quel che sono riuscito a concludere, solo in questo modo possiamo sognare senza perderci.

Gianfranco

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