Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

giovedì 18 marzo 2010

Il tempo vissuto e il tempo raccontato


“Avrà forse sapore di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo?”
(Rainer Maria Rilke)


Il timore espresso da Rilke nelle Elegie duinesi di non lasciare una nostra traccia (“sapore”), così come quello espresso da Karen Blixen di non essere ricordata dai nativi, dagli animali e dalle montagne del Kenya, una volta tornata in Europa (cfr. il volume La mia Africa e l’omonimo film di Sydney Pollack), si radica nel bisogno o nel desiderio degli esseri umani, spesso limpidamente cosciente, di essere rispecchiati, ascoltati, capiti dagli altri.

Un bisogno o desiderio che ha manifestazioni complesse, a volte estremamente serie (la ricerca di una condivisione di valori o di un’intimità sessuale), e altre volte banali, anche se soggettivamente pressanti (l’esigenza di “parlare di niente” o di “cercare compagnia” per non sentire “la solitudine”). Un bisogno o desiderio che vari filosofi hanno collegato alla “autenticità” della relazione con “l’altro” (Martin Buber) e su cui molti psicologi hanno versato fiumi di inchiostro. Il bisogno di non gettare “in un gorgo senza fondo le nostre vite randage” (Eugenio Montale). Come se solo nell’altro la nostra vita trovasse compimento.

L’idea di raccontare ciò che siamo e di “esistere davvero” grazie alla presenza di qualcuno che conosce il nostro pensare, il nostro sentire, il nostro fare, è un’idea profonda per certi aspetti e ingannevole per altri. Sicuramente è un’idea che trascende i concetti di tanti studi sul linguaggio e sulla comunicazione. Riguarda la nostra sensibilità, la nostra percezione di noi stessi e la nostra valutazione di cosa stiamo a fare in questo sperduto angolo dell’universo.
Il “raccontarsi” è condizione di possibilità dell’incontrarsi davvero, ma appena viene inteso come esperienza che dà un senso all’esistenza personale, si traduce facilmente in modalità relazionali manipolative e consolatorie.

Prima di approfondire la questione voglio riportare un brano tratto da Le rose di Atacama, di Luis Sepulveda (2000, trad.it. Guanda, Parma) che alcuni anni fa mi ha costretto a riflettere su questo tema. L’Autore inizia il libro riportando una sua visita al lager di Bergen Belsen, in Germania. “In un angolo del campo di concentramento, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie della pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: ‘Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia’ (…) Credo di aver letto un migliaio di libri, ma mai un testo che mi sia parso così duro, così enigmatico, così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra” (p.8).

Dopo aver letto questo brano, mi sono chiesto se con quel chiodo in mano avrei scritto le stesse parole e la mia risposta è stata negativa. Avrei scritto con rabbia, con dolore e anche con l’idea di regalare qualcosa ad un lettore del tempo a venire, una frase come questa: “Hanno il potere di uccidermi, ma non quello di rendermi arido come loro”. Oppure avrei lanciato un grido di lotta come questo: “Nessuno dovrà dare mai più il potere a coloro che non sanno ciò che fanno”. Forse avrei anche manifestato una dignitosa sfida come questa “Questa notte sono riuscito anche a ridere di cuore con gli amici, dopo aver pianto. Due cose che chi muore dentro, soffocato da una svastica, non sa fare!”.

No, non avrei pensato alla mia storia non raccontata, dato che non ci penso mai. Nella mia storia ci sono cose delicate, che non posso raccontare senza conoscere il mio interlocutore, senza avere la certezza di un’esatta comprensione. Non scriverei quindi mai un’autobiografia, anche ammesso che a qualcuno interessasse, dato che le autobiografie hanno senso solo se raccontano intrecci molto profondi di idee, emozioni, scelte, errori, progetti. Non ho segreti, non ho lati “deboli”. I ricattatori di professione con me resterebbero con il becco asciutto, però pur non avendo cose da nascondere non voglio dire tutto a chiunque. Questo fatto non mi crea problemi. Non mi sento “incompiuto” in quanto non perfettamente conosciuto. Mi basta conoscere e conservare con cura le cose più “mie”.
Racconto a volte (anche nel blog) dei pezzi della mia storia, come racconto pezzi della storia di persone che conosco, ma solo perché penso che in tali occasioni quei fatti possano sollecitare riflessioni utili. Ogni compagna della mia vita ha saputo tutto il “prima” e ha condiviso il resto, finché c’è stata condivisione, ma ho percepito la mia vita come una cosa integra anche nei (lunghi, a volte) periodi trascorsi senza una compagna, e quindi senza nessuno che “sapesse tutto”.
Non mi avrebbe quindi creato disagio a Bergen Belsen il fatto di morire senza testimoni. Mi avrebbe creato disagio il fatto di poter morire da un momento all’altro ed anche di vivere oppresso e umiliato, per volontà di persone folli ma purtroppo più forti di me.

Eppure il grido scolpito in quella pietra mi ha scosso, se da anni ci penso. Dice qualcosa anche a me, come dice qualcosa, forse, a chiunque.

La nostra storia personale inizia con un’esperienza di radicale incompiutezza e questo fatto non è secondario, perché determina l’importanza dei primi incontri e scambi emotivi dopo la nascita, nella prima infanzia e negli anni dell’adolescenza. I neonati sentono tutto e non capiscono nulla. Gradualmente, crescendo sviluppano la capacità di leggere la realtà, ma occorre molto tempo perché un bambino riesca a pensarsi come “qualcuno”. Fino ad allora, in pratica è un “flusso di pensieri e sensazioni”: funziona come un romanzo espressionista. Funziona così non per scelta o preferenza poetica, ma per un’impossibilità di fare di meglio. L’autocoscienza è una conquista preziosa: consente la comprensione di sé come soggetto stabile nel tempo e come soggetto e oggetto di (auto)comprensione. Prima di acquisire l’autocoscienza possiamo solo “essere compresi” oppure “sprofondare”. La presenza di qualcuno che ci “accompagna” e che rispecchia i nostri movimenti espressivi costituisce un punto fermo, indispensabile per sentirci “al sicuro”. Prima di garantirci autonomamente la “compagnia di base” abbiamo davvero bisogno della compagnia di qualcuno. Cominciamo quindi a vivere “appoggiati” alla madre e poi ad entrambi i genitori e solo in seguito, essendo coscienti di noi stessi e “radicati” in noi stessi abbiamo la possibilità di “incontrare” le persone concependole come “persone-altre-da-noi”.

L’incontro con le altre persone, nella vita adulta costituisce un importante ambito di esperienza, anche se non comporta quel senso di “bisogno” che lo accompagnava nell’infanzia: può risultare utile o piacevole, può arricchire la nostra vita, può permetterci di mettere a disposizione degli altri le nostre capacità. Non è un “nutrimento” come per i neonati ed i bambini piccoli, ma è un’opportunità. Ha a che fare con la curiosità, il desiderio, la creatività, l’amore, ma non con il bisogno.
Ho già accennato [cfr. il POST Cuccioli umani] all’intreccio fra intoppi nello sviluppo psicologico individuale e modi di pensare e agire “difensivi”, volti cioè a non sentire vissuti dolorosi che nell’infanzia non erano tollerabili. Non voglio tornare sull’argomento, ma devo riprenderlo “da un altro lato” per esaminare il “raccontarsi”.
Una volta divenuti adulti, a quale scopo raccontiamo la nostra storia? Di fatto non possiamo più raccontarla come bambini, mentre, come adulti, non abbiamo “bisogno” di raccontare nulla. Se sentiamo ancora quel bisogno, allora, più che tentare inutilmente di soddisfarlo dobbiamo avere un po’ di compassione per noi stessi, per il bisogno apparente (non reale, ma realmente sentito) di “essere ascoltati e quindi salvati da una presenza attenta a noi”. Un bisogno doloroso perché soddisfacibile (e in genere non adeguatamente soddisfatto) solo nell’infanzia.

Se tutti noi portassimo nel cuore la compassione per quel dolore, non solo non cercheremmo di “raccontarci” in modi inopportuni ("attaccare bottone" in autobus, raccontare migliaia di barzellette, fare interventi inutili in riunioni o convegni, scrivere romanzi depressivi, esibirci in programmi televisivi demenziali), ma avremmo più rispetto per noi stessi e per gli altri. Finiremmo inevitabilmente anche per raccontare davvero cose interessanti (per gli altri) e soprattutto per fare cose costruttive.

L’idea di essere animali sociali è diversa dall’idea di essere animali cannibali. La comunicazione divorante (a volte garbata, tollerata da tutti perché “normale” anche se banale e a volte sgarbata, intrusiva e quindi “sopportata” o respinta) si stabilisce quando “l’altro” è solo “oggetto”, nel senso di “oggetto che ascolta” e non viene considerato come un “soggetto”.
Trattare gli altri come soggetti non è una normale abitudine degli esseri umani, proprio perché l’esigenza irrazionale di rosicchiare l’attenzione altrui è un male endemico. In genere la fame di “conferme” o di “ascolto” (tutte cose indispensabili e in genere non ottenute nell’infanzia), spinge a volere qualcosa del genere “dal primo che passa” (inteso come semplice “distributore-di-attenzioni”). Parlare è invece una bella esperienza, un’esperienza creativa e costruttiva proprio se si tiene presente che l’interlocutore è “qualcuno”, cioè una persona. Qualcuno con cui “fare” qualcosa di gradito ad entrambi.
Già, questo è il punto: i bambini non hanno nulla da “fare”, a parte crescere e per crescere hanno bisogno di “ricevere” conferme. Il tempo vissuto di un bambino è un “tempo passivo” riempito da altri. I bambini inevitabilmente considerano gli altri come oggetti (buoni o cattivi), mentre gli adulti (se non fanno i bambini) hanno bisogno di capire se gli altri sono soggetti “compatibili” o “incompatibili”, se sono disponibili o indisponibili a fare cose interessanti con loro, se sono in grado di dare qualcosa volentieri o se hanno bisogno di ricevere qualcosa.

Purtroppo normalmente le persone “fanno cose ieri”, cioè compiono nel mondo di oggi, azioni (giustificate con mille scuse) finalizzate ad ottenere risposte che servivano solo nel passato.
A che serve lavorare quando non si ha più bisogno di soldi? A sentirsi “importanti”: ma a quale età?
A che serve aspirare a ruoli pubblici quando non si ha nulla da offrire? A sentirsi “visti”: ma a quale età?
A che serve fare del male agli altri, umiliarli, sfruttarli? A sentirsi “forti”: ma a quale età?
Ovviamente esiste un abisso fra chi istituisce le ronde per alimentare la xenofobia e raccattare voti e chi semplicemente “attacca bottone” su banalità metereologiche. Esiste un abisso fra chi sfrutta il lavoro minorile, organizza attività criminali, scatena guerre e chi vende qualche caffè senza dare lo scontrino o racconta qualche balla per sembrare “figo”. La malvagità, aggiunta alla normale follia è disastrosa, ma è comunque segno di una trasposizione nel presente di bisogni antichi non compresi e dolorosi. In altri termini, la follia normale degli adulti nella dimensione sociale è comprensibile solo se riferita ad un’infanzia priva di sicurezze di base e mai accettata [cfr. il POST Bambini politici?].

A questo punto dobbiamo riflettere molto seriamente sul nostro bisogno di raccontare la nostra storia.
Vogliamo permettere agli altri di conoscerci (in modi e circostanze ragionevoli) e quindi valutare la possibilità di fare cose buone con loro? Oppure vogliamo solo “farci accogliere e salvare” da qualcuno che “sa che ci siamo”?

La scelta fra comunicazione costruttiva e comunicazione “divorante” determina conseguenze immediate e a lungo termine. I due tipi di comunicazione attraversano la realtà delle relazioni interpersonali, ma anche le manifestazioni della cultura di massa, dell’arte, della filosofia, della politica.
Molte persone dichiarano spudoratamente di avere moltissimi amici: provate a chiedere quanti di tali amici rischierebbero la vita per loro o farebbero delle gravi rinunce per loro e verificate cosa tali persone vi rispondono con lo sguardo, prima che con le parole.
Molte persone affermano di avere una vita sociale molto intensa. Provate a chiedere a queste persone cosa fanno nella loro “vita sociale”. Creano, costruiscono qualcosa o ammazzano solo il tempo fra un aperitivo, un pettegolezzo e una frase seria detta solo per mostrare di aver letto il libro che “hanno letto tutti”?

La mancanza di compassione per sé, per la solitudine da cui si è emersi a fatica, limita la compassione per gli altri e limita la disponibilità a considerare sacre le persone, tutte le persone. La compassione è la benzina della vita. La voglia di “farsi accettare” produce buone accelerate, brevi corse, ma immancabilmente ci lascia a piedi. La compassione ci porta lontano e ci porta lontano in compagnia di noi stessi. Ci aiuta anche ad incontrare davvero gli altri.

Io amo molto la compagnia degli animali, non perché li consideri più sensibili o intelligenti degli esseri umani, ma perché proprio per il loro deficit di intelligenza non sanno recitare copioni assurdi. Ve lo immaginate un cane che perde tempo a mostrare a tutti la forza delle sue mandibole? Vi immaginate un cavallo che fa idiozie con altri cavalli per “ammazzare il tempo” e per non sentirsi solo. Gli animali arrivano dove possono, ma hanno una naturale e profonda serietà. Non danno mai informazioni su un libro appena uscito e non sottoscrivono mai una petizione. Tuttavia se si avvicinano cercano solo di stabilire un buon contatto e se minacciano o aggrediscono cercano solo di respingere un intruso sgradito. E comunicano ciò che vogliono in modo diretto, senza farlo sembrare un’altra cosa per “paura del rifiuto”. Gli animali non “temono il rifiuto”. Se subiscono rifiuti, con evidente dispiacere si spostano più in là. Noi invece, se vogliamo andare a Parigi, ancor prima di uscire di casa cominciamo a chiederci quali balle dovremo raccontare per non essere rifiutati. E tutto ciò, per dimenticare quella volta che chiedemmo una carezza e “non c’era tempo”.
Eppure, alla fine del nostro tempo non conterà più quel rifiuto e non conteranno forse nemmeno le esperienze di accettazione. Saremo felici del tempo vissuto a fare cose buone e rimpiangeremo il tempo sprecato a raccontare.

Gianfranco

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