Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 10 gennaio 2010

Vecchiaia, invalidità e famiglia


Moretti: “…come campi?”
Ragazza: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…”
(Nanni Moretti, Ecce Bombo)

Nel libro La forza del carattere (1999, trad.it. Adelphi, Milano, 2000) James Hillman afferma che “La patologia principale della vecchiaia è l’idea che ne abbiamo” (p.20). Con queste parole, l’Autore afferma, quindi, che una parte delle sofferenze dell’età avanzata non dipende dal tempo che passa, ma dal nostro modo di pensare. Pur condividendo pienamente quest’affermazione, credo che le convinzioni che creano tante sofferenze inutili (non giustificate da fatti oggettivi dovuti all’età) non siano convinzioni specifiche sulla vecchiaia: secondo il mio punto di vista, ciò che può guastarci la gioventù, la maturità e, di conseguenza, anche la vecchiaia è l’idea che abbiamo della nostra vita in generale. Credo, in altre parole, che esista un nesso strettissimo fra il modo in cui si vive ed il modo in cui si invecchia.
Hillman contesta giustamente il pessimismo di chi già a cinquant’anni va in crisi ai primi segni di invecchiamento e l’ottimismo di chi sfida la vecchiaia con lo sforzo costante di prolungare la gioventù. La soluzione che propone, però è l’idea consolatoria secondo cui “Gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il carattere” (op. cit. p. 12). Ovviamente Hillman non utilizza il concetto di carattere nell’accezione più consueta in psicologia (la struttura degli atteggiamenti difensivi individuali), ma concepisce il carattere come qualcosa che ha a che fare con “l’anima”,. intesa come il “terreno fondante dell’essere” (p. 16). L'autore, quindi, anche se in una prospettiva non scontata, manifesta una tendenza molto radicata: la tendenza ad opporre ad ogni mito, un mito di segno contrario. Al mito depressivo dei gaudenti secondo cui la vecchiaia è una sfiga insopportabile, egli contrappone l’idea consolatoria secondo cui la vecchiaia è una grande opportunità per completare il nostro percorso interiore.

L’Autore non può risultare convincente, perché ci sono giovani ben più saggi di tanti anziani inaciditi e insopportabili e perché qualsiasi sventura (e non solo la vecchiaia), anche se viene utilizzata per una crescita interiore, resta una sventura, cioè una “roba” per cui nessuno pensa a fare dei brindisi. Queste considerazioni elementari e ovvie, mostrano che, se vogliamo liberarci dalle “filosofie lagnose” sulla vecchiaia, (che completano le filosofie superficiali sulla gioventù) non dobbiamo cercare di dimostrare che la vecchiaia è una “grande occasione” per l’anima; dobbiamo piuttosto chiarire che nelle filosofie “lagnose” e in quelle “superficiali” si trova un nucleo di irrazionalità. Comprendere quest’irrazionalità ci può alleggerire la mente ed il cuore più di qualsiasi concezione consolatoria.

La vecchiaia e le tante possibili invalidità sono realtà dolorose. Partendo dal dato di fatto che tutte le sofferenze e tutte le situazioni che limitano la nostra integrità tolgono qualcosa al nostro piacere di vivere, dobbiamo capire quali operazioni interiori facciamo per gestire (in qualsiasi fase della nostra vita) i vari tipi di sofferenza. Non solo: dobbiamo capire i motivi per cui tanto spesso aggiungiamo delle stupide sofferenze psicologiche alle sofferenza “oggettive” che “ci capitano”.

Ho avuto la fortuna di conoscere delle persone impegnate ad affrontare in modo dignitoso e costruttivo situazioni realmente gravi, capaci di accettare il dolore che comportavano e quindi capaci di vivere intensamente, come nei loro momenti migliori. Il mio debito di gratitudine, tuttavia, si estende a persone che non ho conosciuto e che continuano a dimostrare che la normale propensione a recriminare, deprimersi e pretendere “accudimento” o “comprensione”, non è una scelta obbligata. Alcune persone, addirittura, di fronte alla morte [Cfr. i due POST su Randy Pausch] o ad una grave malattia (cfr. http://dimodica-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/) reagiscono alla loro nuova condizione con nuove forme di impegno.

Questi fatti mi sembrano importanti per capire il nocciolo di un problema che, in un mondo normalmente folle, viene frainteso e collocato in un ambito improprio come quello dell’età o della salute.
La verità è che non esiste un problema della vecchiaia e nemmeno un problema della malattia. La vecchiaia e le varie forme di invalidità, limitano e peggiorano la vita, ma non le tolgono senso e soprattutto non determinano alcun particolare bisogno di “supporto affettivo” o di “compagnia”. La vecchiaia, le invalidità e tutte le esperienze spiacevoli della vita possono essere utilizzate come delle occasioni di crescita personale, pur restando delle sventure, se si presentano all’interno di un percorso esistenziale realmente vissuto. Diventano, al contrario, esperienze “intollerabili” proprio per le persone già abituate a vivere male negli anni della gioventù e della buona salute [cfr. il POST Crimini di tempo].

Non c’è alcuna “catastrofe” specificamente attribuibile alla vecchiaia o alla malattia, semplicemente perché la vera catastrofe, di cui non si parla mai in un mondo di pazzi, è quella relativa alla strutturazione del tempo e al modo di costruire l’esistenza personale. Infatti, credo che solo l’aver “costruito” una buona vita ci permetta di invecchiare serenamente, avendo elaborato nel modo più appropriato i momenti difficili dell’infanzia e della vita adulta.
Purtroppo, quasi sempre, anche da adulti, sentiamo un bisogno di ricevere amore che perdura dagli anni “non compiuti” dell’infanzia. Un bisogno che non è più un bisogno, ma che è una sensazione di bisogno. Una sensazione di bisogno che non può trovare appagamento, dato che è solo una sensazione. Una sensazione che, se viene compresa e associata all’impossibilità di una soddisfazione, è dolorosa. Se accettiamo questo dolore possiamo anche conviverci, avere rispetto per noi stessi, dedicarci a ciò che amiamo. Se ci opponiamo a questo “bisogno impossibile e doloroso”, tendiamo a ridurre la nostra sensibilità (in modi “distaccati”), oppure ad aggrapparci agli altri (in modi “voraci”), come se potessero “nutrirci” con la loro presenza. In entrambi i casi roviniamo il rapporto con noi stessi, con gli altri e con la nostra vita [cfr. il POST Cuccioli umani].

La vita reale è inevitabilmente intrisa di dolore e di gioia e la felicità è possibile solo se si mantiene la consapevolezza di questi due aspetti che, in varie proporzioni, caratterizzano ogni esperienza umana.
Poiché tutte le sottoculture che compongono la cultura di massa (ma anche la cultura accademica) concordano nella rimozione del dolore e dell’amore (quello vero, non quello demenziale-appiccicoso delle canzonette), quando si parla della vecchiaia o della malattia si finisce necessariamente per considerare tali esperienze come delle ingiustizie e si considera “naturale” quel frullato di rabbie, pretese, egocentrismo e distruttività che tanto facilmente i vecchi scaricano sui giovani e i malati sui sani.

In questa “trappola mentale” che cattura moltissime persone, i “sani” scambiano facilmente il vittimismo degli altri per un’autentica sofferenza e tentano di controllare (con drastiche auto-colpevolizzazioni) le proprie sensazioni epidermiche di fastidio per le persone che, avendo vissuto male, quando diventano vecchie o invalide, maltrattano tutti con le loro lamentele.
All’affermazione “Sono qua da solo/a e non ho nulla da fare” non è facile rispondere “E’ tua la responsabilità di fare qualcosa!”. All’affermazione “Nessuno mi viene a trovare” non è facile rispondere “Venirti a trovare è un peso terribile, perché nel bisogno che esprimi c’è più rabbia che amore!”. All’affermazione “questa condizione è intollerabile” non è facile rispondere “tu la rendi così intollerabile non occupandoti di te e nemmeno degli altri”. In pratica, è difficile rispondere con parole vere a chi (senza rendersene conto) mente, se entrambi i comunicanti condividono un’ideologia fasulla che è divenuta “senso comune”.

E’ difficile sottrarsi ai ricatti dei vittimisti (che ovviamente non sono solo persone anziane o malate), perché è difficile ammettere che non vogliono accettare il dolore della loro vita e pretendono “risarcimenti” impossibili dagli altri. E’ difficile, ma è possibile sottrarsi.
E’ possibile fare meno cose o dare lo stesso aiuto, o anche un aiuto maggiore, ma senza sentirsi “obbligati” (e colpevolizzabili). Ciò però costa il dispiacere di riconoscere che la persona che pretende aiuto in realtà sente un bisogno che non è un reale bisogno. Infatti sente un bisogno che deriva dall’aver vissuto una vita “povera”, dal non aver costruito relazioni profonde e dal non aver costruito una reale intimità nemmeno con le persone da cui pretende un’accudimento superiore a quello necessario, sentito come necessario e “mai sufficiente”.
Accudire le persone che ai bisogni reali della vecchiaia e dell’invalidità aggiungono ingombranti sensazioni di bisogno costa quindi dolore, perché implica la consapevolezza del fatto che le persone da accudire in realtà continuano ad evitare un senso di vuoto mai affrontato e mai superato, che non ha nulla a che fare con l’età o la malattia, ma che riguarda tutta la loro vita e soprattutto la loro infanzia.

Questa consapevolezza rende tristi, ma non manipolabili. Per queste ragioni, non solo l’accondiscendenza alle persone vittimiste (anziane, malate o anche giovani e sane ma sempre scontente) è irrazionale: è del tutto irrazionale anche la rabbia nei loro confronti, perché le persone che “fanno le vittime”, agiscono distruttivamente, ma senza esserne coscienti. Non sanno proprio che cercano cose impossibili per scordare dispiaceri reali mai elaborati. Con il loro vittimismo, tra l’altro, non rubano la felicità agli altri, diventando doppiamente felici, ma sprecano “in piena incoscienza” gli aspetti più delicati della loro vita e la disponibilità delle persone che le assistono.
Non possiamo arrabbiarci con una persona vittimista, perché questa non ci può “restituire la refurtiva”: tra l’altro, se siamo caduti nel gioco, siamo stati proprio noi a sprecare le energie che l’altra persona non ha realmente utilizzato.
Sulla base di queste premesse possiamo quindi affermare che, sia cadendo nel gioco e “facendo i buoni” (per evitare irrazionali sensi di colpa), sia “ribellandoci” (con un’ostilità altrettanto irrazionale), evitiamo di capire e accettare una situazione dolorosa, ma notevolmente peggiorata dagli atteggiamenti distruttivi di chi, purtroppo, avendo vissuto male e senza averne consapevolezza, continua a vivere male negli anni più difficili.

Le persone che da vecchie o da malate stanno male “rumorosamente”, hanno un problema: non amano abbastanza la vita. Hanno quel problema da prima di invecchiare o di ammalarsi. Negli anni precedenti si distraevano, riempivano la vita con passatempi, vacanze, (pseudo)relazioni sociali, (pseudo)interessi, (pseudo)attaccamento al lavoro. Non avendo dedicato i loro anni “buoni” né a loro stessi né agli altri, quando si trovano in un momento critico, si accorgono di aver perso tutte le distrazioni e di dover gestire sia il tempo, sia i sentimenti, cioè le realtà che non avevano mai imparato a maneggiare.
Già negli anni “buoni” o “facili” molte persone “non sanno che fare” da sole nei giorni festivi o nelle vacanze. Spesso non si rendono conto della loro difficoltà a stare con se stesse, perché “riempiono” le giornate libere con rituali interpersonali molto comuni, anche se bizzarri (chiacchiere, passatempi, inutili “uscite”, ripetitive frequentazioni di “amici” con cui in realtà non fanno nulla, tranne parlare del niente che abitualmente "fanno" in casa o con altri amici). Vivono una vita stiracchiata e molto “parlata”, ma non vissuta. Una vita non dedicata a se stessi, non dedicata al/alla partner, non dedicata ai figli o alla società di cui si fa parte. Anzi, spesso, non hanno la più pallida idea di come si sentano i figli o il/la partner o gli “amici” perché con loro parlano “tanto per parlare”, senza "voler sapere" e senza l’intenzione di "fare" qualcosa. Capita che una persona “scopra” che il/la partner la/lo tradisce da tre anni o che il figlio consuma abitualmente cocaina o che il loro amici “all’improvviso” decidono di divorziare. Questi “dettagli” erano “sfuggiti” alla loro attenzione.

Quando la vecchiaia e/o un’invalidità cambiano le carte in tavola, molti passatempi o rituali diventano impraticabili. Le conversazioni “interessantissime” del tipo “Sai che ho incontrato Gaspare al Circolo della pesca sportiva? L’avevo perso di vista dai tempi del liceo; ha due figli e sta con una milanese”, diventano poco probabili, dato che non si va più a pescare e che Gaspare sta al Ricovero Zarattini. Quindi, “non potendo fare nulla”, si dà per scontato che i giovani debbano colmare i vuoti, raccontando cosa succede nella vita reale. Ovviamente il problema non sta nel fatto di avere aver avuto un hobby (la pesca sportiva) o di ricordare un vecchio compagno di scuola, ma sta nel non aver fatto nella vita nulla, se non lavorare, consumare e ammazzare il tempo.
Nella vecchiaia o nella malattia, i rituali del non-contatto vengono a mancare e il nulla si impone. Il nulla del tempo non vissuto riattiva sensazioni di vuoto da sempre esistenti, mai affrontate e mai superate. Da qui l’idea (sballata) della vecchiaia che “rovina tutto” e la pretesa di nuovi tipi di “compagnia” capaci di produrre nuove distrazioni da quel “vuoto” che è stato trascurato negli anni “buoni” della vita. Anni di fuga dal dolore e quindi di non-consapevolezza, di non-compassione, di non-passione, di non-impegno.
In altre parole, gli “sprechi emozionali” degli “anni comodi” si trasformano in vittimismi rabbiosi degli “anni scomodi” e in pretese rabbiose verso le persone che “stanno bene”, le quali preferiscono in genere sentirsi “responsabili”, “generose”, “buone” (nel senso di “non colpevolizzabili”), pur di non riconoscere una situazione tanto deteriorata.

Non sto facendo chiacchiere amene, tipo “se ascolti il canto degli uccellini dimentichi la sofferenza”. Sto parlando del modo in cui si vive il tempo: con il cuore aperto o con il cuore rattrappito. La gente fa fatica a volersi bene e quindi a voler bene agli altri. Vive male e non sa che farsene degli altri se non in senso predatorio. Vuole qualcosa e non sa cosa.
Soprattutto non riconosce che la vita degli adulti (giovani o anziani, sani o malati), a differenza della vita dei bambini, non può essere "riempita" da pseudo-gratificazioni ricevute in modi manipolativi, o da passatempi, ma solo da esperienze buone fatte, create, costruite. Infatti ci sono persone anziane o malate che riempiono la loro vita proprio impegnandosi per le persone care o dedicandosi ad iniziative significative.

I miti sociali della vecchiaia e della malattia si collegano al mito della famiglia [cfr. il POST Il mito della famiglia e l’incubo dei “valori” famigliari]. Quasi tutti non solo credono che le pseudosofferenze siano delle sofferenze reali (anziché delle forme di confusa ostilità), ma credono anche che i normali rapporti famigliari (superficiali, ambivalenti o conflittuali) siano rapporti profondi. Questa doppia illusione permette di considerare ovvio che proprio le persone della famiglia siano quelle “naturalmente” portate ad accudire anziani e invalidi. In altre parole, la cecità ideologizzata nella società “fondata sulla famiglia” porta a ritenere che proprio le persone normalmente meno adatte a condividere delle sofferenze siano quelle più adatte a farlo con sincera disponibilità.

Al di là della retorica “intimista” e “famigliarista”, le famiglie reali sono, in moltissimi casi, l’ambito della non comunicazione, della non comprensione, della non intimità e della non libertà. Un ambito reso compatto da colpevolizzazioni e sensi di colpa, da manipolazioni agite e subite, da rassicurazioni inconsistenti, da una paura della solitudine mai compresa e mai risolta in tanti anni. Spesso si scherza sulle comunissime svalutazioni degli uomini da parte delle donne e sulle svalutazioni delle donne da parte degli uomini. E si considera “normale” l’ostilità (ricambiata) che “fluisce” fra genitori e adolescenti. Tale ostilità è infatti normale (in senso statistico), ma è un normale incubo. La famiglia, normalmente, è il luogo in cui si genera, si trascura e si occulta la solitudine e dovrebbe, quindi, essere l’ultima spiaggia a cui approdare in situazioni oggettivamente critiche come quelle contrassegnate dall’età avanzata o da qualche tipo di invalidità. Di fatto, però, secondo il modo comune di vedere le cose (e anche per la legge), la famiglia è il luogo elettivo per l’accudimento delle persone in difficoltà.

Ovviamente parlo di normalità statistica e non dico che necessariamente e in tutti i casi le famiglie siano delle pure apparenze.
Nelle famiglie in cui l’amore di una coppia si è “dilatato” e ha dato luogo a quell’avventura consistente nell’accudimento dei figli, si fanno esperienze preziose: la vicinanza e la comprensione producono, negli anni, conoscenza reciproca e autentici rapporti fra i due genitori, fra genitori e figli e fra fratelli. Come negli autentici rapporti di amicizia, con in più l’esperienza di una lunga storia condivisa.
In famiglie come queste, nessuna retorica, nessuna pretesa, nessun senso di colpa hanno spazio quando qualcuno è in difficoltà. Chi ha bisogno non indulge nell’autocommiserazione, non impone doveri e, gestendo il proprio dolore, è grato per ciò che riceve. Chi accudisce non si sente “tenuto” a fare nulla, ma desidera fare tutto il possibile perché desidera il bene dei suoi cari.
In queste condizioni, il dolore realmente esistente è da tutti riconosciuto, condiviso, ben gestito. I bisogni sono espressi e non drammatizzati e l’aiuto è offerto e non “dovuto”. L’espressione “voler bene” (cioè “amare”) ha senso solo come sensazione di “volere il bene di qualcuno”. Voler bene è una libertà, un desiderio, un piacere. Sta in un capitolo in cui non compaiono voci come “doveri”, “diritti”, “meriti”, “colpe”.

In questa situazione reale, non certo esaltante, ma che sarebbe bene non nascondere sotto la retorica della famiglia e sotto la cappa dei presunti “problemi della vecchiaia” (o delle varie invalidità), crescono come funghi due assurdità complementari e quindi doppiamente assurde.

Da un lato, i bambini, che hanno veramente bisogno della famiglia e che solo i genitori (nei limiti delle loro capacità) possono accudire nel modo migliore, vengono normalmente affidati alla società. Le donne che lavorano hanno un semestre di congedo retribuito e questo sembra più che sufficiente, dato che la società mette a disposizione gli asili nido. Se la società non fa abbastanza si pensa che la società debba fare di più (più nidi). In pratica, se le madri non hanno i mezzi economici per interrompere l’attività lavorativa o per chiedere un periodo di aspettativa (non retribuito) devono tornare a lavorare e “smollare” i neonati alla società!
Da un altro lato, gli anziani (anche nei casi in cui non hanno costruito dei buoni rapporti con i figli), sono trascurati dalla società, a meno che i figli non siano in condizioni talmente disastrate da non poter fornire alcuna assistenza e da non poter nemmeno pagare per un’assistenza privata agli anziani (o agli invalidi). Si consideri poi che, anche nei casi (rari) in cui i famigliari sono realmente desiderosi di accudirli, possono non avere la capacità di fornire un’assistenza continuativa, dato che in genere devono lavorare e occuparsi dei figli.
In pratica, l’assenza di un rapporto fra società e persone anziane o invalide è colmata da un discutibile obbligo di accudimento degli anziani e degli invalidi da parte dei famigliari. Ciò crea disagi notevoli di tipo interpersonale (situazioni forzate di convivenza fra persone che di fatto sono estranee, a parte i “legami di sangue”) e disagi di tipo economico e relazionale (il ricorso alle “badanti”).

La famiglia, pur non riuscendo normalmente a garantire sufficienti sicurezze di base, di fatto è l’unico ambito che in qualche misura può garantire questo grande dono ai neonati ed ai bambini piccoli. Purtroppo, la famiglia è esentata dalla società, dalla cultura e dalla legge dalla responsabilità di svolgere compiutamente questa sua specifica missione nei confronti dei bambini.
La società, pur non potendo fare tutto, ha invece un debito nei confronti dei cittadini anziani e invalidi che per anni hanno contribuito alla sua esistenza. Purtroppo, la società scarica gli anziani e gli invalidi sulle spalle delle famiglie. Non delle famiglie realmente unite in cui ognuno sente una sincera disponibilità ad accudire gli altri, ma delle famiglie esistenti sul piano anagrafico.

Qualcosa non torna. Una società basata sulla famiglia, anziché sulla persona e che inventa il “problema della vecchiaia e della malattia” per nascondere le difficoltà a vivere razionalmente e con sentimenti veri, è una società strana, anche se nessuno se ne accorge. Se si afferma che qualcosa non torna in un mondo contrassegnato normalmente da ideologie fasulle, si corre il rischio di sembrare pazzi alle persone normali.
Al di là di ciò che può sembrare, le cose che realmente accadono, continuano ad accadere e le affermazioni che corrispondono ai fatti restano vere. A meno che il contrario non venga dimostrato.

Gianfranco


Filmamici

B. Beresford, A spasso con Daisy
I. Bergman, Il posto delle fragole
R. Howard, Cocoon
R. Howard, A Beautiful Mind
A. Kurosawa, Dersu Uzala
B. Levinson, Rain Man
D. Lynch, Una storia vera
P. Marshall, Risvegli
P. Mazursky, Harry e Tonto
M. Nichols, A proposito di Henry
M. Rydell, Sul lago dorato
I. Winkler, A prima vista

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