Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

martedì 20 ottobre 2009

Randy Pausch: quando il tempo vissuto sta per finire

Voglio fare qualche riflessione su un libro che merita di essere letto e anche di essere regalato agli amici, per le feste, al posto del panettone. L’autore, Randy Pausch, è recentemente scomparso dopo aver ricevuto un breve preavviso. I medici gli avevano garantito che si sarebbe sentito bene per alcuni mesi e poi sarebbe precipitato nella morte, dato che non si potevano tentare altre terapie e nemmeno altri interventi.
Questo giovane professore universitario ha capito, ha sentito, ha pianto con la moglie, ha cercato di non ingannarsi, di non confondersi. Poi ha deciso di vivere nel miglior modo possibile la sua vita, finché era vivo. E di lasciare ai figli tutto ciò che poteva.
Ha deciso di non concedere alla morte nessun giorno non vissuto, cioè sprecato, e ha fatto tutto ciò che è riuscito a fare con la sua famiglia e con le persone care. Il suo cruccio maggiore riguardava però i figli, troppo piccoli per conservare il ricordo di una figura paterna “utilizzabile”. Ha passato molto tempo con i figli e anche filmato molti momenti, ma ha poi deciso di fare una “ultima lezione” all’Università, di registrarla e di restare, in quel modo, stabilmente “presente” anche nella realtà del suo lavoro, che era stata una parte significativa della sua vita sociale. La lezione avrebbe però dovuto avere un senso per i suoi bambini, una volta cresciuti. Ha quindi scelto di non fare un’ultima lezione di informatica (la sua specializzazione), ma di fare la sua prima lezione sulla vita. Da quella lezione (recuperabile alla pagina web http://www.thelastlecture.com/ ) è poi risultato un volumetto agile e anche piacevole, ma “tosto” come un cazzotto e caldo come un abbraccio (Randy Pausch, 2008, L’ultima lezione – La vita spiegata da un uomo che muore, trad. it. Rizzoli, Milano, 2009).
Quello che ha scritto Pausch è un libro per i figli, per gli studenti, gli amici e tutti noi.

Nelle situazioni critiche tiriamo fuori il meglio di noi stessi, se amiamo qualcuno. Se non amiamo nessuno sprofondiamo in stati d’animo negativi. Il maggior punto di forza di Pausch, in una situazione così drammatica, è stato proprio il suo amore per la moglie e per i figli. Una risorsa più potente della sua intelligenza, della sua posizione sociale e di tante soddisfazioni professionali. L’amore è una cosa seria, più seria di quella di cui si parla spesso pomposamente o che si canticchia ripetendo un successo musicale. L’amore è fatto di ciò che si sente e di affermazioni e atti ben precisi.

“Ci sono così tante cose che voglio dire ai miei figli e adesso sono troppo piccoli per capire. Dylan ha appena compiuto sei anni. Logan ne ha tre. Chloe uno. Voglio che sappiano chi sono, in cosa ho sempre creduto e quanto li ho amati. Data la loro età, molte di queste cose ora non le comprenderebbero. (…) Quando a volte piango sotto la doccia, non è perché penso: ‘Non riuscirò a vederli fare questo o quello’. Il mio rammarico è che i bambini non avranno un padre. Sono concentrato più su quello che stanno per perdere loro che su quello che sto per perdere io. Sì, parte della mia tristezza è anche ‘Io non, io non, io non …’. Ma la più grande sofferenza è per loro”. (pp.217-218).
“Immagino anche il video della mia ultima lezione –e anche questo libro- come parti di me che posso lasciare loro in eredità. (…) Per come la vedo, il ruolo di un genitore è alimentare nei figli la gioia di vivere e stimolarli a inseguire i loro sogni. (…) E dato che non ci sarò, voglio essere chiaro: bambini non cercate di capire cosa avrei voluto che faceste. Voglio che diventiate quello che volete voi” (pp. 222-223)
“Sono tante le cose di cui io e Jai [la moglie] discutiamo … ‘Fortunato’ è una strana parola da usare per descrivere la mia situazione, ma una parte di me si sente fortunata per non essere stato investito dal proverbiale tram. Il cancro mi ha dato il tempo per affrontare queste discussioni fondamentali con Jai” (p. 225)
“Riguardo la domanda naturale che tutti si pongono, ecco la mia risposta.
Più di ogni altra cosa, voglio che Jai sia felice. Quindi se troverà la felicità risposandosi, sarà fantastico. Se la troverà senza risposarsi sarà altrettanto fantastico” (p.227).
Queste parole sono a mio parere una descrizione “operativa”, non poetica, del concetto di amore e provano che, proprio per questo sentimento, la vita di Pausch ha avuto senso prima della sua malattia e, con la consapevolezza dell’avvicinarsi della morte, ha mantenuto il senso che già aveva.

Ci ha passato la palla ed è affar nostro utilizzare questa risorsa per fare quattro chiacchiere intelligenti, prima di tornare ai soliti pensieri, oppure per fare qualche riflessione sincera sulla nostra vita.
La gente ha una spiccata tendenza a vivere male, con brutti pensieri e un senso di inutilità dovuto alle giornate trascorse senza passione e senza impegno. La gente ha una vaga voglia di vivere meglio, ma non sa dove sbattere la testa e continua a sbatterla nello stesso posto. A volte capita che una persona si conceda il lusso di fare un’esperienza diversa grazie ad un libro “insolito”, un film “profondo”, una poesia che “tocca qualche corda nascosta”. Allora questa persona ci pensa un po’. Magari vive meglio una giornata, sull’onda di una sollecitazione opportunamente calibrata per le sue esigenze, ma poi torna al grigiore. Per chi non decide di cambiare davvero, di uscire dal branco dei suoi simili drogati di passatempi, di dedicarsi a qualcosa di sensato, quel libro, quel film, quella poesia restano una boccata d’aria, prima del ritorno al buio ovattato della quotidianità.

Randy Pausch è una persona che ci offre l’opportunità di riesaminare la nostra vita come una totalità, come la realizzazione di un progetto buono e veramente nostro.
Da tempo ho preso l’abitudine di chiedermi se sto vivendo una vita davvero mia e le riflessioni di Pausch non mi hanno risvegliata da un sonno profondo. Ero già sveglia, ma le sue pagine mi hanno sollecitata a considerare meglio il rapporto fra ciò che faccio, ciò che ho sognato di fare e ciò che voglio davvero realizzare. Ne parlo perché questa preoccupazione di vivere in modo trasparente, costruttivo mi unisce a vari amici del blog non meno della preoccupazione per la deriva culturale e politica della nostra società. I due temi, quello personale e quello sociale si intrecciano e nessuna politica può essere davvero costruttiva se trascura il valore delle persone, dei loro sentimenti, della loro battaglia quotidiana all’interno di una storia personale che comunque finirà. Da questa convinzione è uscito il nome del nostro blog. Per questo motivo la battaglia di Randy Pausch merita un post nel nostro “mosaico” in costruzione. E forse sarà tenuta presente in altri post.

Nel suo libro Pausch parla del modo in cui ha deciso di affrontare la morte, ma anche di come ha vissuto (e di come è cresciuto), dato che le due cose difficilmente possono essere separate. Paradossalmente il libro è un libro “lieve”, pieno di aneddoti spassosi, di riflessioni acute, di affermazioni piene di buon senso. Una di queste, che ricorre più volte è la concezione che Pausch ha dei muri: “I muri esistono per una ragione. Ci offrono l’opportunità di dimostrare quanto desideriamo realmente qualcosa” (p. 87). Di fatto, per tutta la sua vita Pausch ha superato muri anziché ritirarsi per compiangersi e sentirsi vittima di un’ingiustizia. Fin da bambino aveva sognato di lavorare, una volta divenuto adulto, a Disneyland ma, ottenuto il dottorato di informatica, fu respinto dalla Walt Disney Imagineering. Divenne professore universitario, lavorò sodo e ottenne un colloquio dopo anni con un imagineer che dirigeva il team di Aladdin. Disse che stava per iniziare il suo anno sabbatico e che sarebbe stato disponibile a collaborare con il team. Fu accettato. Dopo anni si sentì in un modo che poi descrisse con queste parole: “Eccomi qua, la versione adulta di quel bambino stupito di otto anni a Disneyland. Finalmente ero arrivato. Ero un imagineer” (p. 62). Nel libro, si trova quindi una persona e il suo bilancio complessivo di tutta una vita, di cui la morte costituisce un punto critico. L’ennesimo muro.
Un muro insuperabile, ma che comunque rende possibili due opzioni: morire con dignità o senza. In questo, direi, Pausch ha superato la prova.

Non voglio fare troppe citazioni perché desidero che il libro venga letto. A questa, però non rinuncio: “Abbiamo tutti energia e tempi limitati. E’ davvero difficile che passare il tempo a lamentarci ci aiuti a raggiungere i nostri obiettivi. E non ci renderà neanche più felici” (p. 150).

La morte inquieta tutti e per questo le persone tendono a non pensarci o a parlarne a sproposito. I preti, nella maggior parte dei casi sfruttano la paura della morte per giustificare il loro sforzo di imprigionare la vita, dato che hanno paura della vita. Gli psicologi, in genere, riescono a dire banalità rassicuranti anche su questo argomento. I filosofi, se parlano della morte, sono inopportuni perché ne parlano come di un quiz “elevato” da risolvere, mentre, quando hanno buon gusto, tacciono sull’argomento perché lo ritengono razionalmente non abbordabile. I politici tacciono perché non hanno proprio in mente l’idea di una società di persone corresponsabili della loro vulnerabilità e unite dalla solidarietà in un progetto comune di vita condivisa. Idee troppo difficili per persone impegnate ad amministrare lo schifo di sempre con qualche variante.
E noi, tutti noi, ci siamo trovati da piccoli alle prese con la morte di un gattino o di un parente (o di un genitore!), ma non abbiamo avuto né risposte né sostegno. Qualcuno ci ha preso per mano, ma allo scopo di spiegarci che se si muore si può andare all’inferno, tanto per tirarci su il morale. Qualcun altro ci ha invitato a non pensare a cose troppo serie. Così siamo cresciuti cercando di non pensare alla morte e manteniamo, in genere, l’abitudine di non pensare né alla nostra vita né alla nostra morte.
In questo modo, però, viviamo una vita in cui i conti non tornano mai. Io penso che ci faccia un gran bene pensare alla nostra morte, perché proprio la consapevolezza di un’irrimediabile conclusione ci aiuta a trattare con cura la nostra vita.

Elisa

Per scriverci

Inviare eventuali commenti o contributi (senza allegati) scrivendo a:
many.bloggers@gmail.com

Note legali

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge 62 del 7/3/2001.

Questo blog non effettua trattamento di dati personali ai sensi della legge 196/2003.

(Copyright) Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.