Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 23 ottobre 2010

Sherwood Anderson e i "Racconti dell'Ohio"



Sherwood Anderson (1876-1941), con il suo modo di scrivere scarno ed essenziale non ha solo influenzato (con Gertrude Stein) i migliori scrittori americani della “generazione perduta” (Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck e altri), lasciandoci testi letterariamente preziosi. Ha fatto qualcosa di delicatissimo e importante sul piano umano: qualcosa che produce in noi una gratitudine ed un senso di amicizia che vanno al di là del piano della stima che gli dobbiamo per il suo talento di artista delle parole.

Molti scrittori descrivono con grande abilità vicende interiori che i loro personaggi non comprendono e che loro stessi non comprendono. E che noi rischiamo di considerare “profonde”, o “umane” mentre sono solo contorte e tali da occultare gli aspetti davvero profondi degli esseri umani. La letteratura, purtroppo, riflette spesso una capacità degli scrittori di sentire, che in genere è limitata o distorta da chiusure interiori e per questo tende più a nascondere che a “svelare” la vera natura delle persone.

Il tema è intrigante, ma ora voglio limitarmi a parlare di un libro di Anderson che rivela sia un raro talento letterario, sia un grande rispetto per le persone e la loro dimensione interiore. Racconti dell’Ohio (1919, trad. it. Einaudi, Torino, 1950 rist. 1971), scuote la nostra sensibilità fin dalle prime pagine, da cui voglio trarre alcuni brani.


“Il vecchio scrittore, come chiunque altro al mondo, aveva raccolto nella propria mente durante la lunga vita molti pensieri. Nei tempi addietro era stato veramente un bell’uomo, e un buon numero di donne s’erano innamorate di lui. Inoltre, si capisce, aveva conosciuto molte, moltissime persone; le aveva conosciute in quel modo singolarmente intimo che è diverso dal modo in cui conosciamo le persone io e voi. Almeno, questo è quello che lo scrittore pensava, e pensarlo gli faceva piacere. Si può prendersela con un vecchio per quel che pensa?

A letto, lo scrittore ebbe un sogno che non era un sogno. Mentre, ancora sveglio, stava per cedere al sonno, cominciarono a presentarsi ai suoi occhi delle figure (…) Si capisce che tutto l’interesse della cosa sta nelle figure che sfilarono davanti agli occhi dello scrittore. Erano tutte caricature. Tutti gli uomini e tutte le donne che lo scrittore aveva conosciuto s’erano trasformati in caricature. Non tutte le caricature erano brutte. Ve n’erano di divertenti, di quasi belle o di bellissime (…).

Per un’ora la processione delle caricature sfilò davanti agli occhi del vecchio; poi, sebbene fosse per lui un’impresa penosa, il vecchio scese dal letto e si mise a scrivere. Qualcuna di quelle caricature gli aveva fatto un’impressione profonda ed egli desiderava descriverla.

A tavolino, lo scrittore lavorò per un’ora. Alla fine scrisse un libro che chiamò Il libro delle caricature. Non fu mai pubblicato, ma io lo vidi una volta e ne ebbi un’impressione incancellabile. C’era nel libro un pensiero centrale, molto singolare, che mi è sempre rimasto in mente (…) Il pensiero, naturalmente, non era espresso, ma una semplice esposizione di esso suonerebbe press’a poco così:

In principio, quando il mondo era giovane, c’erano molti pensieri ma non esisteva nulla di simile a una verità. Le verità le fabbricò l’uomo, e ogni verità fu composta da un grande numero di pensieri imprecisi. Così in tutto il mondo ci furono verità. Ed erano meravigliose.

Il vecchio aveva elencato nel suo libro centinaia di verità. Io non cercherò di riferirvele tutte. C’erano la verità della verginità e la verità della passione, la verità della ricchezza e quella della povertà, della modestia e dello sperpero, dell’indifferenza e dell’entusiasmo. Centinaia e centinaia erano le verità, ed erano meravigliose. Poi veniva la gente. Ognuno, appena compariva, si gettava su una delle verità e se ne impadroniva; alcuni, molto forti, arrivavano a possederne una dozzina contemporaneamente.

Erano le verità che trasformavano la gente in caricature grottesche. Il vecchio aveva una sua complessa teoria a questo proposito. Era sua opinione che quando qualcuno s’impossessava di una verità, e diceva che quella era la sua verità e si sforzava di vivere secondo essa, allora costui si trasformava in una caricatura, e la verità che egli abbracciava, in una menzogna” (pp. 8-10).


L’Autore chiude così, bruscamente, una riflessione sulla nostra capacità di nascondere ciò che siamo, proprio aggrappandoci avidamente a delle certezze. Egli ci lascia, quindi, senza certezze alla fine della serie di racconti dedicati a vari abitanti di Winesburg, un paesino dell’Ohio. Senza certezze, ma con un senso di calore. Forse con la “certezza morbida” secondo cui ogni persona è un mondo, una soggettività fatta di vita vissuta e per questo intensa e carica di valore. Anderson non ci spiega molto dei suoi personaggi; li delinea rapidamente, lasciandoci il compito di riempire gli spazi vuoti con la nostra immaginazione e la nostra tenerezza. Egli ci “indica” le cose più “private” senza permettersi mai di “sviscerarle” o “spiegarle”. Come se fossero troppo fragili per essere “manipolate” dalle parole.

Ogni capitolo del libro è dedicato ad uno degli abitanti di Winesburg e le storie narrate sono storie di persone spesso abbastanza confuse. Alcune sono disturbate sul piano mentale, mentre altre sono rappresentative della “ordinaria follia”. “Oggigiorno un contadino accanto alla stufa nel negozio del suo villaggio ha la testa colma, fino a traboccarne, di parole altrui. Giornali e riviste gliel’hanno riempita. Scomparsa per sempre è molta di quell’antica ignoranza bestiale che era, al tempo stesso, una specie di incantevole innocenza infantile” (pp. 58-59).

In ogni caso l’Autore non fa sconti e non giustifica nessuno mentre scava fra situazioni non risolte, illusioni inutilmente tenute in piedi e vari tipi di malessere. Tuttavia, pur astenendosi dal giustificare si astiene anche dal condannare. Evita di assumere quell’atteggiamento paternalistico di vari scrittori (e anche di vari registi) con il quale le fragilità umane sono sezionate chirurgicamente senza passione e senza compassione. Anderson cerca piuttosto di narrare vite umane con il rispetto di chi capisce che ogni scelta cruciale degli esseri umani rientra in un progetto esistenziale, magari confuso o illusorio, ma sentito come necessario. Un progetto che in molti casi andrebbe rivisto e corretto, ma che finché permane è tenuto in vita da sentimenti intensi, anche se non compresi.

E’ questo tratto lieve della filosofia dell’Autore che, unito ad uno stile esasperatamente “essenziale”, ci permette di “entrare in punta di piedi” in queste esistenze, a volte isolate dalle altre e a volte intrecciate alle altre, ma sempre "vissute". Dietro questo atteggiamento c’è un’idea delle persone che l’Autore con discrezione cerca di trasmetterci. Fin dal primo racconto, Anderson spiega che nonostante l’età, lo scrittore aveva una cosa dentro di lui che era giovane e che era vitale. Era “come una donna pregna” (p. 8) e proprio tale “cosa giovane” era responsabile di quella specie di sogno che aveva ispirato il suo nuovo libro.

Mi sembra che Anderson avesse questa convinzione: in ogni persona, anche la più confusa, esiste un nucleo di vitalità, di consapevolezza e di sensibilità che rende preziosa la sua esistenza. Questa idea, decisamente condivisibile, a mio parere orienta la sequenza delle sue parole nei racconti e ci permette di comprendere sia la follia, sia la profondità dei personaggi scolpiti nelle pagine.

Una cosa va riconosciuta: i personaggi del libro non brillano per saggezza, ma attraversano la loro vita in preda a idee confuse, false certezze, illusioni e in molti casi rasentano la follia o vi sprofondano. Questo aspetto che accomuna l'Autore ad altri grandi scrittori e che piace molto agli studiosi non è di per sé segno di profondità e di autenticità. La vita umana è attraversata dal dolore, oltre che dalla gioia, e quindi non è trattata con rispetto da scrittori di basso livello che raccontano storie elementari o rozze; non è però vero che una storia profonda debba necessariamente essere la storia di una mente contorta. Su questo equivoco viene spesso fondata la divisione fra la letteratura "seria" (quella che è arte) e la letteratura di basso livello (che è solo commerciale). Lo stesso si può dire per i film.

In realtà le narrazioni (letterarie o cinematografiche) sono di elevato livello artistico nella misura in cui "raccontano bene" ciò che raccontano, indipendentemente dai contenuti sviluppati. Francis Scott Fitzgerald scrive in un modo incantevole storie interiori spesso terribilmente banali (i tormenti di giovani confusi, le aspirazioni al "successo" di persone non "arrivate", ecc.). Come artista egli si colloca fra i più grandi, ma come maestro di vita resta spesso in superficie. Perché il "contenuto" o "messaggio" di una narrazione non sia superficiale occorre che l'autore oltre a saper raccontare abbia anche "qualcosa" da raccontare. In questo caso, i romanzetti sentimentali o polizeschi, in genere non ci conducono da nessuna parte, se non all'auspicato matrimonio o alla scoperta dell'assassino. I romanzi "veri", invece, parlano della vita reale delle persone e quindi delle loro emozioni, delle loro battaglie interiori. Qui casca l'asino, perché non sta scritto da nessuna parte che le battaglie interiori debbano necessariamente essere costituite da tormenti moralistici o da ambivalenze psicologiche.

L'idea dell'uomo "lacerato", "contorto", "confuso" non è un'idea "profonda" ma un'idea fasulla che nasce a sua volta da una lacerazione, da idee contorte e da emozioni confuse. Ciò che rende "tragica", nell'accezione seria del termine, la vita umana non è la presenza di disturbi psicologici, ma la consapevolezza dell'inevitabile compresenza di gioia e dolore nella trama dell'esistenza [cfr. il POST Salvatore Natoli e la felicità possibile]. E' quindi irrilevante che una storia filosoficamente matura sia lineare o complessa, o che abbia un lieto fine o un finale triste. Ciò che rende "umano" un racconto è la consapevolezza dei personaggi e il fatto che accettino e manifestino la loro umanità, la loro fragilità e la loro forza, i loro limiti e la loro vitalità. I tormenti moralistici o i conflitti psicologici sono mancanze di consapevolezza spacciate per "profondità". I finali "arricchiti" da idee suicide o depressive sono espressione di un'insensibilità alle reali sofferenze umane e non sono l'espressione di una "sensibilità particolare".

Queste considerazioni ci portano ad un interrogativo: cosa ci arricchisce quando leggiamo un libro o vediamo un film? Il buon livello espressivo (o "artistico") di un'opera ci permette di affrontare i contenuti (più o meno profondi) in modi particolarmente toccanti. Più la narrazione ci "sorprende", ci "scuote", ci "rapisce", più è ricca e capace di toccare corde profonde. Poi vengono i contenuti: più essi sono razionali ed emotivamente equilibrati, più ci permettono di capire e sentire cose della vita dei personaggi che riguardano davvero la nostra vita.

Una storia (ben narrata, possibilmente) ci aiuta a vivere se ci svela le cose veramente dolorose che non vorremmo vedere, ma anche se ci aiuta a capire che possiamo esprimere potenzialità che stentiamo a riconoscere, presi come siamo, spesso, dall'idea inconsapevole di essere ancora dei bambini. Sul piano dei contenuti, quindi un'opera letteraria (o cinematografica) è "umana" non nella misura in cui tratta cose sgradevoli o in cui ha un finale devastante, ma nella misura in cui esprime un'autentica compassione per le nostre piccole vite e nella misura in cui ci aiuta a capire che possiamo sempre vivere con libertà, dignità e rispetto.

Tornando al racconto di Anderson, vorrei evidenziare il lato migliore di questo capolavoro che, a mio parere, è tale sia sul piano artistico, sia su quello "filosofico". E' vero che quasi tutte le storie raccontate sono storie di fallimenti personali, di rassegnazione, di ostinazione o di confusione mentale. L'autore però non sguazza in questa roba. La attraversa tenendo sempre presente che le persone hanno quella "cosa giovane" nella loro più profonda interiorità e che non "sono" caricature: "diventano" caricature solo quando tradiscono se stesse per gettarsi avidamente su qualche "verità". E' quindi il primo racconto a darci la chiave di lettura di tutti gli altri. Anche il penultimo racconto rafforza tale prospettiva: infatti George ed Helen, due ragazzi che hanno sperimentato quel disorientamento che tanto spesso paralizza i giovani, riescono ad incontrarsi senza falsità e dimostrano che noi possiamo sempre sconfiggere le nostre paure ed i nostri fantasmi.

"Fu così che scesero la collina. Al buio si misero a giocare come due splendidi esseri giovani in un mondo giovane. Una volta, correndogli avanti, Helen fece inciampare e cadere George. Lui rotolò e rise. Sempre ridendo forte, si buttò a scendere la collina. Helen gli corse dietro. Per un attimo si fermò al buio. Non è possibile sapere quali pensieri da donna le passassero per il capo, certo è che quando arrivò in fondo e raggiunse il ragazzo, gli prese il braccio e camminò accanto a lui, con molta dignità, in silenzio. Per motivi che non avrebbero saputo spiegare, entrambi ebbero, da quella sera silenziosa trascorsa insieme, la cosa di cui avevano bisogno. Uomo o ragazzo, donna o ragazza, avevano per un attimo afferrato il segreto della cosa che rende possibile la vita agli uomini e alle donne ..." (p. 237).


Gianfranco






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