Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 12 dicembre 2009

Il mito dell’istinto materno

Da un po’ avevo in cantiere un approfondimento del post Stronzate e analisi filosofica. L’idea era (ed è rimasta) quella di fare una serie di post su alcuni temi specifici normalmente stravolti dal comune modo di pensare. Un modo di pensare normale che nulla ha a che fare con il buon senso e che sconfina facilmente nel pregiudizio. L’elenco è lungo e la follia diffusa garantirà lunga vita al blog. I miti più ingombranti (religioni, razzismo, patriottismo, maschilismo, femminismo, “socialità televisiva”, pensiero “politicamente corretto”, pseudo-spiritualismo, ecc.), sono già stati trattati da me, Marcello, Gaetano, Silvia ed Elisa. Ho pensato quindi che restavano i (moltissimi) miti minori: quello dell’istinto materno, quello della vecchiaia, quello della “autorealizzazione attraverso il lavoro”, quello della competizione e del successo, quello della presunta “sessualità troppo libera e dilagante”, e così via.

Bighellonavo in libreria, con in mente questi “appuntamenti” quando ho visto un libro appena uscito di Umberto Galimberti: I miti del nostro tempo (Feltrinelli, Milano, 2009). Uauu! “Sta a vedere che mi risparmio un po’ di “militanza” e me la cavo con una recensione!”. Da pigro e amante dell’ozio quanto dell’impegno, ho calcolato le ore di ozio che avrei guadagnato con un post “pubblicitario” (sintesi del libro e invito a leggerlo), raggiungendo lo stesso risultato “politico”. Il tema era calzante (anche se io credo che i miti non siano un vizio “del nostro tempo”) e così ho preso il volume e ho iniziato a divorarlo. A pagina 11, la prima pagina dell’introduzione, ho cominciato a mettere a margine dei punti esclamativi e delle note. A pagina 16 ho cominciato a sentire quel freddo a cui sono abituato dopo le scorribande che, con ostinato ottimismo, continuo a fare in libreria o all’edicola o in videoteca. Risultato: mi tocca fare questo ed altri post, come avevo previsto e devo aggiungere anche un commento ad un libro serio e intelligente, ma purtroppo per certi aspetti discutibile.

Il primo capitolo si intitola appunto Il mito dell’amore materno e inizia bene, con una citazione dotta (Euripide, Medea) che mette in rilievo l’occhio “feroce” di una madre. Iniziando la lettura viene da pensare che forse l’autore ci può togliere dai piedi il mito secondo cui “son tutte belle le mamme del mondo”, ci può attivare il cervello, e magari ci può anche toccare sul piano dei sentimenti profondi. Niente da fare, perché le prime tre righe di pagina 15 stroncano ogni speranza. “Tutti sappiamo che l’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio”. Non viene così denunciata una normalità che tradisce le potenzialità individuali, ma una “condizione” di base, un “dato” (pseudobiologico o metafisico). Infatti, a pagina 16 (la pagina in cui ho sentito il freddo) si legge: “Caratteristica del sentimento materno è la sua ambivalenza, che solo il nostro terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro non ci fa riconoscere”. Uno più ottimista di me, impegnato con lo stesso libro, magari non avrebbe sentito il freddo e si sarebbe aggrappato alla speranza di non aver capito bene, ma poi a pagina 17 (il numero della sfortuna) avrebbe dovuto comunque rinunciare ad ogni filo di speranza: “Nella donna … si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra: una soggettività dice ‘io’ e una soggettività che fa sentire la donna ‘depositaria della specie’. (…) Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuta e accettata come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o inautenticità del sentimento”.

C’è da strapparsi i capelli. Dopo un secolo non siamo ancora in grado di toglierci dal groppone quella riedizione del peccato originale, confezionata da Freud ed etichettata “istinto di morte”, in deroga a qualsiasi evidenza clinica e conficcata nella cultura occidentale come un arpione. Una “stronzata” (nel senso dotto di Frankfurt) capace di resistere (nel mondo psicoanalitico) alle obiezioni di merito e di metodo avanzate da Otto Fenichel, da Wilhelm Reich, da altri e, ovviamente, di tanti psicologi estranei per formazione ai deliri freudiani. E capace di resistere, nel mondo più ampio della cultura, al buon senso e all’evidenza. Una stronzata che trascura il fatto che non sempre e non ovunque le madri vivono la maternità in modo tormentato, anche se purtroppo, la normalità (in un mondo normalmente folle) è quella che è.
Galimberti non cita Freud, ma prende spunto da una frase di Norman Brown (uno dei più inquietanti interpreti di Freud) e tratta questa “radicale” ambivalenza come una cosa “data”, evidente, che, in quanto tale, va accettata per non indurre i sensi di colpa derivanti dal dubbio che forse l’odio rivolto al figlio potrebbe essere un problema, una difesa, un disturbo. E dove sta scritto che dobbiamo sentirci in colpa se ci accorgiamo di aver pensato, sentito, detto o fatto una cazzata? Mica diamo dieci a tutti gli studenti per non farli sentire in colpa!
In altre parole, Galimberti afferma un’ambivalenza “basilare” nei sentimenti delle madri, e con questo pregiudizio, confezionato in termini intellettualmente raffinati, ci impedisce di capire le potenzialità del rapporto madre-figlio (e anche padre-figlio); oltre a ciò suggerisce una stoica “accettazione” di tale “fatto”, per prevenire sensi di colpa che i realtà non sono affatto inevitabili se cerchiamo di comprendere in termini non moralistici le difficoltà di tante madri. Nella prospettiva di Galimberti, quindi, ci liberiamo del mito dell’amore materno (che va comunque sfatato), ma ci prendiamo il fardello di un altro mito: quello della distruttività originaria che caratterizzerebbe la sfera emotiva delle madri.
In pratica, con questo testo “demitizzante” ci troviamo ad un appuntamento mancato: perdiamo la possibilità di comprendere i motivi per cui moltissime madri (ma non tutte!!!) sentono ostilità verso i figli. E anche la possibilità di individuare le soluzioni almeno parziali e possibili, almeno in alcuni casi, al problema. La “ambivalenza radicale” ci porta solo a fermare il pensiero.

Il peggio, però deve ancora venire, proseguendo nella lettura. Dopo la “descrizione dei fatti”, troviamo la “spiegazione” di tali fatti. “Rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, la condizione della madre è mutata in corrispondenza alle trasformazioni subite dalla famiglia, che oggi si presenta in una forma troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute più spesse, la recingono e la secretano, creando l’ambiente adatto alla disperazione … Il nucleo familiare è diventato oggi un nucleo asociale” (p.18). Inoltre, “senza sociale non si può gestire l’handicap, non si può accudire la vecchiaia, e neppure l’infanzia, se non con il sacrificio totale di un componente della famiglia, che a questo punto può vedere chiusi i suoi orizzonti di vita e, in un momento di disperazione, fare il gesto che uccide” (p. 19). Non avete letto male e non ho riportato il testo con alterazioni. Questo contro-mito è inquietante più del mito delle mammine felici. E’ inquietante almeno per un sempliciotto come me che continua a considerare l’odio verso i figli come un disturbo psicologico e non un’ovvietà da “accettare”.
I sempliciotti come me pensano che le mamme dovrebbero poter esercitare (se vogliono) il diritto di stare con i figli per almeno un anno, senza il peso del lavoro, senza la necessità (straziante per madri e figli) di portare dei bambini di pochi mesi al nido, senza la paura di perdere il lavoro se aggiungono un periodo di aspettativa al congedo di maternità. Per come la vedo io (e alcune mamme sempliciotte come me), il peso è costituito da una società di pazzi e dal lavoro in un mondo di pazzi e non da un neonato che ha varie qualità, tra cui quella di non essere ancora impazzito per adattarsi alla “realtà”. In altre parole né da parte mia, né da parte di alcune madri piene di buon senso, è da considerare ovvio che il figlio sia un “peso”, anche se, ovviamente, richiede moltissime attenzioni.

Tra l’altro (e questo mi fa sospettare di non essere così sempliciotto) non mi sembra che in epoche ormai lontane, in cui la famiglia era “estesa”, radicata nella società, cullata dalla chiesa, protetta da un bucolico senso di appartenenza al tutto, l’accudimento materno fosse splendido. Nel bel tempo che fu, come ai nostri giorni, molte madri stentavano ad accudire i figli con sufficiente amore. Nei tempi passati i bambini cresciuti in famiglie non ancora “ridotte ai minimi termini” sono diventati adulti tutt’altro che sereni ed equilibrati. I milioni di nazisti convinti della Germania prebellica non sono stati partoriti dalla società postmoderna. Non solo: nei paesi che ancora oggi collocano la famiglia nucleare nelle maglie fitte di una dimensione sociale totalizzante (penso alle società con una prevalente cultura islamica), i bambini non se la passano meglio dei nostri e la chiusura mentale attraversa la cultura di quei paesi come attraversa la nostra cultura. Io non vedo proprio come una società demenziale possa essere considerata un “supporto” per una madre impegnata nell’accudimento dei figli.
Insomma, quando si parla dell’irrazionalità e della distruttività si alternano i miti opposti della “giustificazione metafisica” (per cui tutto si spiega con la “natura” o con il peccato “originale” o con la biologia filosofica o con la psicologia poetica) o della (pseudo)spiegazione sociologica (per i marxisti tutto era colpa della classe dominante e per i postmoderni è colpa della “frammentazione” del “tessuto sociale”).

Se rinunciamo a queste idee, dobbiamo riconoscere che vivere con sentimenti profondi è difficile, perché cresciamo in una famiglia scadente [cfr. il POST Cuccioli umani], viviamo in una società scadente e interagiamo con compagni di strada “persi” nelle illusioni alimentate dai mass-media. Vivere bene non è impossibile e non lo è nemmeno crescere bene i figli, ma costa dolore. Vivere bene comporta la sfida alle nostre pretese infantili di poter essere felici “mangiando la vita”. Gli adulti, anche se si rifiutano di accettarlo, non possono essere felici “mangiando” la vita, ma solo “costruendo una buona vita”. Vivere bene è difficile e ciò non è colpa di nessuno. I nostri avi che costruivano famiglie estese facevano del loro meglio, ma succhiavano l’intimità della vita famigliare. I nostri contemporanei lasciano in pace chi sta nella sua famiglia, ma non offrono nemmeno quell’illusione d’appartenenza che molti adulti vorrebbero ancora “gustare”. Gli adulti vivono nel mondo dei sogni e in quel mondo sognano i loro figli come una soluzione ai loro problemi non risolti. I figli risultano quindi facilmente una delusione, dato che non possono rendere felici dei genitori incapaci di essere felici. La biologia, la metafisica e la sociologia non possono spiegare questa tragedia.

A questo punto è il caso di ricominciare da capo e di smontare davvero il mito dell’istinto materno.

1. Noi umani, in pratica non facciamo niente di istintivo. Forse buttiamo le mani avanti se inciampiamo o crolliamo dal sonno qualche volta o cambiamo il ritmo del respiro in alta montagna. Poca roba. Di fatto, non possiamo non pensare e prendiamo continue decisioni, anche se alla velocità della luce e inconsapevolmente. Anche se facciamo sesso con una persona che ci “travolge”, lo facciamo dopo aver dato almeno un centinaio di OK ad un centinaio di discussioni nella nostra testa sullo sfondo delle quali c’era una pressione istintuale. Noi non facciamo nemmeno una pisciata “istintivamente” perché prima di svuotare la vescica abbiamo già fatto cento metri, abbiamo valutato il bar, abbiamo deciso che forse è il caso di aspettare due minuti e siamo arrivati al bar successivo, in cui, dato che “si deve consumare”, almeno è possibile bere un caffè di una buona marca. Dunque, niente istinti.

2. Noi umani, facciamo fatica ad essere genitori, sia come madri, sia come padri. Questo non significa che siamo impediti dalla natura o dal peccato originale o dalla società. Significa che siamo più o meno folli. Un po’ funzioniamo razionalmente e con emozioni appropriate alla realtà e un po’ scappiamo dalla consapevolezza della realtà e dei nostri sentimenti. Più scappiamo, meno funzioniamo bene. Più temiamo emozioni profonde, più agiamo (e pensiamo e sentiamo e parliamo) in modo demenziale. Alcune persone sono abbastanza centrate (cioè ragionevoli E ANCHE passionali), ma nella maggior parte dei casi le persone manifestano comportamenti e atteggiamenti che (in modi più o meno gravi) non rendono costruttiva o comprensibile la loro vita.
La gente fa abitualmente stronzate in ambito calcistico, in ambito politico, in ambito sociale, culturale, ecc. E non sa perché. Nei casi peggiori pensa anche di essere nel giusto. La gente fa fatica a mettere un po’ d’amore nel sesso (quando non si rovina addirittura l’esperienza del semplice far sesso) e, ovviamente, stenta anche ad amare un figlio. Ciò vale per i padri e per le madri. L’istinto non c’entra. L’istinto spingeva la mia cagnona a fare inutili buche in giardino “per i cuccioli” (che nemmeno aveva “in mente”) quando era in calore. L’istinto non spinge le donne ad allattare i figli. La loro struttura biologica le rende in grado di allattare, ma se non sono psicologicamente “ben disposte” si trovano a “non avere latte”. Quindi, se l’istinto, negli umani non regola l’allattamento materno, non può regolare nemmeno le ninne nanne. Dunque, niente istinto materno.

3. Con il privilegio (o la condanna) che ci rende esseri poco istintivi, viviamo da persone in un mondo di persone. Più siamo in pace con noi stessi e più siamo in pace con gli altri. Più ci sentiamo persone preziose e sacre più siamo portati a pensare che gli altri siano dei “soggetti” e non dei semplici “oggetti”. Sia che gli altri siano donne, sia che gli altri siano uomini, sia che gli altri siano bambini o neonati.
Il femminismo ha messo in evidenza una mezza verità: l’utilizzazione delle donne come oggetti sessuali da parte di maschi dementi. Ha però omesso l’utilizzazione degli uomini come oggetti da parte di femmine con strane pretese. Femmine che promettono eterno amore, ma non hanno nessuna voglia di far sesso. Femmine che promettono di dedicarsi ad un compagno pretendendo, in realtà, di essere principesse anziché compagne. Femmine che giurano di volere un bambino “con il loro uomo” mentre hanno in mente di farsi “il loro bambino” e di mangiarselo piano piano, a discapito dei desideri del partner e dei bisogni del figlio.
Anche l'irrazionalità maschile è molto diffusa, ma non è una caratteristica “dei maschi”: è una caratteristica di molti maschi. La stessa irrazionalità femminile non è una caratteristica “delle donne” ma, purtroppo, di molte donne. E le donne “consapevoli dei loro diritti” non sono certo più amorevoli di quelle "retrograde”. Sfruttano in genere i maschi come le altre, ma con le spalle coperte da libri di successo. Io non vedo vittime (se non quando si va sul piano penale) né nel mezzo mondo femminile, né nel mezzo mondo maschile. Vedo, purtroppo carnefici, maschi e femmine che, senza esserne del tutto coscienti, esprimono sentimenti distruttivi.

Conosco però anche persone splendide che si permettono di sentirsi sole in un mondo barbaro come i mondo già passati alla storia. Persone splendide che sanno lasciarsi andare al pianto e all’orgasmo. Che hanno compassione di sé e degli altri. Che sentono il loro compagno o la loro compagna come una cosa importante (una persona sacra, un soggetto sensibile, un oggetto sessuale spassosissimo). Che hanno un progetto di vita che include il/la partner e che quindi può includere anche un’altra persona a cui dare tutto, senza pretendere nulla e confidando in un reciproco affetto.

In ogni caso, va sottolineato che, anche se tutti noi, in qualche misura agiamo in modo distruttivo (verso noi stessi e verso gli altri), siamo fondamentalmente capaci di non esserlo: la nostra distruttività è sempre un tentativo di evitare la consapevolezza del lato doloroso della vita. Nella misura in cui ci liberiamo della nostra paura di accettare la vita così come è (e quindi anche con tutte le sfaccettature della morte che essa implica), manifestiamo la nostra profonda umanità, senza sforzo.

Quando però siamo presi dalla paura e facciamo fatica a volerci bene e a voler bene, rischiamo di pretendere la felicità “agganciandoci” ad un/una partner. Ma ciò non basta, dato che il/la partner non può riempire i nostri vuoti non compresi e non elaborati. Allora ci possiamo illudere di trovare la nostra “realizzazione” con un figlio. Ma anche il figlio non può darci ciò che cerchiamo, perché il figlio se ne frega della realizzazione dei genitori: vuole la pappa e la nanna, tanto per cominciare, poi vuole un sacco di altre belle cose.

Da questo crollo di sogni irrealizzabili (e non riconosciuti come illusori) nascono i sentimenti ostili verso i figli e le forme più assurde di accudimento. Quindi, sono le illusioni che rendono le madri (e anche i padri) deluse dai figli e ostili. Non ci servono proprio le speculazioni sull’istinto di morte o sul peccato originale o sulla mancanza del sostegno del “tessuto sociale”. Se non guardiamo la realtà con le lenti delle nostre illusioni, vediamo in quale misura le persone siano propense a illudersi, a sentirsi deluse e poi a incazzarsi. Se si incazzano in maniera aperta colpiscono gli altri con le parole, con le mani o con altri mezzi. Se lo fanno in modi più contorti, sprofondano in un vittimismo rancoroso, o in un’indifferenza che ferisce come una lametta, oppure “vanno in depressione”. In ogni caso, lasciano gli altri nella merda. Le femmine e i maschi possono sempre liberarsi di un/una partner fuori di testa, ma i bambini non possono, né vogliono, né riescono a immaginare di “liberarsi” di nulla. Inevitabilmente, si chiudono, “si assentano” o “si agitano” … e si preparano a diventare adulti pieni di illusioni e di rabbia. Tutto qui.

Mi manca una proposta risolutiva. Ho pensato alle vitamine, alla riduzione dell’orario di lavoro, a corsi di educazione alla maternità gestiti da donne che sanno andare a cavallo. Nessuna idea, però, mi ha convinto. Non dobbiamo “accettare” alcun fato crudele, ma possiamo capire come si sviluppa la crudeltà in noi stessi e negli altri. E possiamo rinunciare alla nostra, cercando di schivare quella degli altri, per quanto è possibile. Il primo passo è la rinuncia alle illusioni o ai “miti”.
La vita è difficile, ma è una bella avventura. Se la smettiamo di dar colpe a qualcuno e a credere a presunti istinti, possiamo accettare di vivere la nostra avventura, che non contempla comunque la realizzazione di alcuna illusione. Nella vita reale possiamo essere teneri con noi stessi e amare qualcuno, se accettiamo il dolore che inevitabilmente accompagna la nostra esistenza. Solo questa accettazione ci porta a gioire nella stessa misura e ad essere felici di essere vivi, sia nei momenti prevalentemente belli, sia nei momenti prevalentemente brutti. Solo questo modo di vivere il tempo della nostra esistenza ci può portare ad amare i figli e a fare una cosa in fondo semplice: trattarli con cura.

Gianfranco


Filmamici

Non ho trovato film che toccassero il tema specifico del post, ma ho deciso di elencare alcuni film (come al solito, capolavori e non) accomunati dal fatto di presentare in modo convincente e corretto un tema affine: l’importanza di atteggiamenti verso i bambini ed anche verso i giovani, finalizzati alla loro crescita e allo sviluppo delle loro potenzialità.
Sarebbero stati d’obbligo i riferimenti ad alcuni film “di denuncia”, ma ho voluto sottolineare proprio la descrizione di comportamenti che rispondono alle esigenze di chi ha una personalità ancora in formazione.

S. Daldry, Billy Elliot
R. Mulligan, Il buio oltre la siepe
M. Nichols, A proposito di Henry
R. Redford, Gente comune
R. Redford, L'uomo che sussurrava ai cavalli
J. Schumacher, Il cliente
R.Scott, L'Albatross
J.A.Smith, Pensieri pericolosi
R. De Niro, Bronx
S. Wood, Addio Mr.Chips


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