Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

giovedì 10 dicembre 2009

Dopo il passato (parte seconda)


Nota: questa è la seconda parte del racconto di Alba - vai alla prima parte.

Si può sopravvivere sul sentiero della conoscenza solo vivendo come un guerriero - perché l'arte del guerriero consiste nell'equilibrare il terrore dell'essere uomo con la meraviglia dell'essere uomo.

Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan



Non ricordo niente del passaggio da un istituto all'altro. Avevo dieci anni, un'età in cui si è abbastanza grandi per fissare nella memoria i ricordi. Forse c'è un vuoto di coscienza, perché in quel momento qualcosa si spezza, di nuovo: un altro smarrimento, un'altra frattura che non voglio sentire. La discontinuità, le interruzioni che hanno segnato la mia storia, hanno lasciato dentro di me un ricordo che, più avanti nella vita, si manifestava ogni volta che dovevo affrontare dei cambiamenti, o anche quando, più semplicemente, mi capitava di avere "troppe cose da fare": era la sensazione rovinosa che avrei potuto disintegrarmi, andare in pezzi. Per "tenermi insieme", dovevo vivere in uno spazio fisico e mentale ristretto; poche cose dovevano entrare nelle due piccole stanze in cui ho abitato per anni.

Dal vuoto di ricordi emerge l'immagine di una bambina vestita di nero: è il grembiule delle scuole medie, è il "colore" della divisa che porto sempre nel nuovo Istituto, come le altre bambine.
Eravamo dodici, e il numero non era casuale: il nostro era il gruppo delle "Apostoline"; dovevamo sentirci privilegiate per questo, bambine "prescelte da Dio".
Forse mi ero attaccata a quell'idea. A volte, nel periodo dell'adolescenza, e anche dopo, costruivo una "bolla chiusa" - distante, separata dal mondo - in cui avevo un rapporto esclusivo con qualcuno, fosse Dio, o la Madre di Dio - a cui una suora, con rito privato, aveva deciso di consacrarmi - o una persona che per qualche ragione "racchiudevo nella bolla", insieme a me.

L'Istituto Ghiselli era gestito dall'Ordine delle Serve di Maria. Le suore amministravano una scuola interna privata per maestre di scuola materna, e ospitavano ragazze che frequentavano quella scuola. Le educande - così si chiamavano - pagavano una retta, e avevano stanze singole graziose, ben arredate. Noi Apostoline venivamo da famiglie povere, non pagavamo la retta; per noi c'erano le camerate e il refettorio, niente spazi privati, ed eravamo al servizio delle educande e dell'Istituto.

Ho trascorso all'Istituto Ghiselli un periodo breve, forse meno di quattro anni. Il ricordo non è segnato in modo netto - come nella prima infanzia - da un senso di oscurità, di freddo, di desolazione. C'è qualcosa di diverso, un'atmosfera un po' torbida, morbosa. C'erano cose che dovevano restare nascoste, segrete: ad esempio, quello che accadeva alle novizie durante il periodo di preparazione ai voti di castità, povertà, obbedienza, o durante gli incontri in cui le suore praticavano la confessione pubblica.
La morbosità pervadeva i rapporti tra noi e loro, attraverso sollecitazioni, più o meno aperte, a confidenze intime, particolari. Anche all'Istituto Ghiselli era in vigore il bacio serale del crocifisso, però qualcosa era cambiato: da quel bacio passava un desiderio segreto di contatto. Avevo l'impressione che Suor Dolores mi porgesse il crocifisso in modo ambiguo.
C'erano i nostri e i loro segreti - peccati, chiamate divine, turbamenti. Quello che permetteva a noi bambine di entrare in quella sfera intima così confusamente evocata e desiderata, era la scoperta di "avere la vocazione"; essere chiamate a entrare nell'Ordine delle Serve di Maria doveva essere il desiderio e il destino naturale delle Apostoline.

Nella solitudine in cui vivevo, forse era naturale l'aspirazione ad essere un'eletta, una prescelta.
Cos'altro potevo desiderare? Ero sempre più lontana da me stessa.
L'adolescenza, gli anni in cui si fanno strada i sogni, in cui affiorano le possibilità, i talenti da custodire e coltivare per il futuro...Scoprire in sé e coltivare un talento, una passione, è come inscrivere nella propria vita un pezzetto di felicità. Ma io non avevo sogni, non avevo qualità, non avevo desideri; mi ritiravo nel mio mondo interiore, perduta nella solitudine, nel timore, incapace di vedere tutto quello che stava fuori da quel mondo.

Avevo un piccolo quaderno in cui scrivevo, non ricordo cosa. Una suora lo trovò e lo lesse, per giudicarlo "un diario insulso e sentimentale" e proibirmi di continuare. Mi opprimeva un senso di umiliazione e di vergogna per quello che avevo fatto.

Non ho avuto la possibilità di capire che cosa amavo, che cosa sapevo fare. Mi dispiace e ora è tardi, ci sono cose perdute per sempre, anche se, dopo le lacrime e l'amarezza, so che rimane ancora la possibilità di salvare tutto quello che resta.

Tendevo a usare la mano sinistra, ma mi correggevano come se fosse un brutto difetto. Tesa nello sforzo, le mani mi sudavano, e niente mi riusciva bene. Ancora adesso non so orientarmi, non ho mai imparato: mi perdo con facilità, non so dove sono, confondo la destra e la sinistra.
I bambini imparano giocando, imparano attraverso il piacere di scoprire, di fare esperienza diretta delle cose... Sì, gli odori, le superfici, i colori... e la consistenza, la fantastica pienezza del reale! A me è toccato di rimanere chiusa fra quattro muri fino a quattordici anni, di camminare lungo i corridoi, dentro cortili chiusi con recinzioni alte; nel toccare le cose, ricordo solo il sudore, la contrazione delle mie mani.

Suor Letizia era intelligente; capivo istintivamente che era diversa dalle altre suore, e il desiderio di essere vista da lei era come una ferita. Qualcosa mi spingeva verso di lei, una forza serrata dentro che non sapevo definire, che non sapevo tradurre in nessun modo. Era la mia insegnante di pedagogia, nella scuola interna all'istituto che avevo iniziato a frequentare. Stretta nel mio mutismo, un giorno non trovai di meglio che consegnare in bianco il foglio del compito in classe che ci aveva assegnato.

Da allora, l'intelligenza mi ha sempre colpito con la sua evidenza e la sua forza, e ho dovuto fare i conti col bisogno di "catturare" le persone in cui riconoscevo quella luce, e con l'impulso a disprezzare tutto il resto.

Finite le scuole medie, l'alternativa era tornare a casa o rimanere in istituto per frequentare la scuola interna. Rimasi in istituto, nessuno prese in considerazione altre possibilità. Tutto continuò nell'abbandono e nella noncuranza. Cominciai a frequentare la scuola magistrale senza alcun interesse.
Qualcosa di nuovo, però, cominciava a muoversi dentro di me.
Non so dire come e perché cominciò la ribellione. Ricordo qualcosa con chiarezza: un pensiero imprevisto, ma nitido e sicuro, occupava la mia mente: non potevo avere la certezza dell'esistenza di Dio. "Se Dio esiste, voglio scoprirlo da sola". Naturalmente non comprendevo la portata di quel pensiero; forse volevo soltanto cancellare tutto quello che mi avevano insegnato, come un'imposizione che non volevo più subire.
Non so nemmeno come presi la decisione di parlare dei miei dubbi. Mi rivolsi a suor Letizia; di quel colloquio, ricordo alcune cose di cui non capivo il senso. Cosa voleva dire, ad esempio, "Dio è pensiero di pensiero"? Ricordo però anche una frase che mi aveva affascinato: "Il Paradiso è la percezione totale della realtà, senza i limiti dei sensi".

Sulla strada del dubbio e della ricerca sono arrivata - per ora - fin qui, fino al pensiero che non si può dimostrare nulla riguardo a Dio, che esiste una realtà molto più vasta di quella che possiamo percepire, che da sempre la questione del divino ha a che fare col senso dell'esistenza umana. So che ci sono rari momenti, nel corso della vita, in cui possiamo fare esperienza dell'ineffabile; e penso che "avere il dono della fede" voglia dire semplicemente credere al fatto che attraverso la parola di Cristo ci è stata indicata una possibile via per realizzare la nostra umanità.

Della mia ribellione, di quello che ho fatto in quel periodo, ho un ricordo vago: so che non volevo più andare a messa e nemmeno pregare; se c'è stato qualche piccolo gesto di rivolta l'ho dimenticato. Sicuramente, non ho mai usato le parole; non conoscevo le parole per comunicare, dal momento che nessuno, mai, era stato in relazione con me - ero soltanto un oggetto su cui proiettare rabbia e frustrazione. Non conoscevo le parole per definire quello che confusamente sentivo, non ero abituata a percepire dentro di me qualcosa che assomigliasse a un sentimento. Ora so che riuscivo a muovermi soltanto in superficie; era più facile rifiutare qualche regola che ascoltare fino in fondo il senso di ingiustizia, la ribellione che provavo di fronte alle costrizioni e alle umiliazioni; era più semplice rifiutare di dire una preghiera che ascoltare e riconoscere un desiderio indefinito, doloroso, che - non so come - dentro di me sopravviveva, tenace.
Forse posso rintracciare in quel periodo anche l'inizio di un percorso: io ero viva, nonostante tutto, non mi ero arresa; il mio "spirito eterno" mi spingeva, allora come adesso, a percorrere una via che mi portasse fuori da quel buio, a capire il perché, il senso delle cose.
Come era naturale, la mia ribellione alle regole non poteva essere tollerata.
Non so come, qualcuno mi riportò a casa. Avevo quattordici anni, e anche di questo passaggio non ricordo nulla; non ricordo il giorno, chi era con me, il momento in cui ho lasciato l'Istituto, il momento in cui sono tornata nella casa dei miei genitori.

Fuori dall'Istituto, mi ritrovavo in un mondo minaccioso e brutale, priva di qualsiasi "strumento di bordo"; bisognava attraversare acque tempestose, deserti aridi - senza morire, senza naufragare.
Sono rimasta nella casa dei miei genitori per dieci anni- gli anni della mia adolescenza arida e spaventata.
Era una casa povera, sembrava tirata su col solo scopo di avere in qualche modo un riparo; muri tirati su in fretta, senza intonaco, un tetto che faceva filtrare l'acqua nelle stanze quando pioveva. Mio padre alzava lo sguardo e diceva: ci piove proprio in questa casa. Ma non faceva niente per rimediare, e mia madre era furiosa. Dormivamo in un letto a castello, io e mia sorella, in una stanza piccola in cui c'erano altri due letti per i miei fratelli. Sotto il mio letto c'era uno scatolone: lì dentro tenevo i miei libri di scuola. Sotto il letto di mio fratello mia madre riponeva le patate per l'inverno. Ricordo inverni gelidi, coi muri che trasudavano umidità, e le vecchie coperte del letto bagnate. In casa non c'era il bagno, e nemmeno l'acqua. Una pompa per l'acqua era fuori, vicino alla porta d'entrata, ma di notte in inverno gelava, e allora bisognava riempire una pentola la sera prima di andare a letto, così avevamo un po' di acqua al mattino per lavarci la faccia, prima di andare a scuola.
La stanza d'entrata era la cucina; mi ricordo soltanto un tavolo vecchio, e sotto al tavolo un catino per lavare i piatti. Il tavolo era sempre ingombro di tegami, piatti unti, roba da mangiare; sulla tovaglia di plastica che lo ricopriva c'erano sempre briciole di pane, chiazze di acqua sporca e di unto. Mia madre non apparecchiava mai, ognuno mangiava per conto suo quello che trovava. Mi ricordo pentole piene di cavoli e patate, oppure due cucchiai di ricotta come cena per la sera.
Negli anni successivi ho abitato diverse case. Ne ho sempre avuto cura; costruivo il mio spazio pensando all'armonia dei colori e delle proporzioni, alla bellezza degli oggetti, cercando la comodità e il calore, "perché la casa in cui abitavo non fosse mai più come quella in cui avevo abitato"(1).

Ricordo mia madre, il suo corpo disfatto, rovinato dalle gravidanze e dalla mancanza di cura, dalla fatica e dalla povertà, ricordo il suo aspetto trascurato. I panni buoni li teneva dentro una valigia pronta per ogni evenienza - una visita dal dottore o il ricovero in ospedale. Aveva preparato un vestito per quando sarebbe morta, e lo teneva chiuso nell'armadio. Ricordo le sue frasi, sempre crude, violente; tra le altre cose diceva che dovevo essere pulita e cambiarmi la biancheria, perché se mi capitava qualcosa quando ero fuori casa, dovevano trovarmi "a posto". Sarebbe stato bello se mi avesse detto di mettermi un vestito, di farmi bella e di andare fuori, ad incontrare gli amici, o un amore... Ma lei pensava in quel modo alla vita; invocava la morte, e la malediceva perché non veniva mai a prenderla. Il suo universo era fatto di pochi pensieri sempre uguali, di una quotidianità per lei insopportabile.
Spesso al mattino, interpretando non so quali segni, diceva col suo accento cupo: oggi deve essere una brutta giornata, una giornata nera e scura.

Anni dopo ho ripensato a lei leggendo un libro; l'autore raccontava come iniziavano le sue belle giornate quando era bambino: il sole che filtrava attraverso le persiane, quando si svegliava, e il riflesso del mare sulla parete della stanza.

Mia madre malediceva il giorno in cui era nata, il giorno in cui aveva incontrato mio padre, imprecava e augurava cose orribili a tutti quelli che - dal suo punto di vista - le facevano torto. Era sempre ostile a mio padre, sempre affannata, tormentata da dolori fisici e da ossessioni di ogni genere. Accusava noi figlie: in modo pesante, brutale, ci faceva sentire responsabili del suo malessere, della sua disperazione; non chiedeva nulla, però mostrava senza pudore lo sfacelo del suo corpo, il suo sfinimento, e ci buttava contro frasi allusive piene di minacce, ricatti, maledizioni; non si rivolgeva a noi direttamente, ma io sapevo cosa voleva dire quando profferiva: "chi non mi ha onorato in vita sia maledetto se porta un fiore sulla mia tomba"; oppure: "la vita è una ruota che gira, oggi a me domani a te". E mi sentivo morire.

Come potevamo darle aiuto? Non si poteva fare nulla per lei; in ogni caso, non bastava mai. Non sapeva chiedere aiuto, non era capace di gratitudine, di affetto, sapeva soltanto accusare e pretendere. Voleva una madre - la madre che non aveva avuto quando era bambina - e invece si trovava ad avere otto figli. L'ho vista una volta nel suo letto, un po' rannicchiata, il respiro affannoso, il cuore che pulsava veloce mentre chiamava mamma, mamma...
Avevamo bisogno di una madre - noi eravamo i suoi figli - e invece avevamo a che fare con una bambina furiosa e disperata chiusa dentro al suo mondo, in un caos indistinto dove si mescolavano odio, rabbia, pretese, disperazione, una bambina piccola che si riteneva e voleva essere considerata una madre esemplare in virtù della sua sofferenza, della sua abnegazione. In realtà confondeva la sofferenza con il vittimismo, l'abnegazione con l'annullamento, con l'incapacità di amare se stessa e di amare la vita.

Credeva di essere, e voleva essere considerata, la mamma buona, la mamma santa che si immolava per i propri figli. Tutti i sacrifici, tutte le sofferenze erano per loro: "se non fosse per i miei figli l'avrei fatta finita, ma non voglio che si dica che ho rovinato una famiglia". Il mostro era mio padre, e tutti credevano - dovevano credere - a questo.
Era impossibile e pericoloso concepire un pensiero diverso; lei imponeva la sua verità con una forza che sembrava travolgere chi non era con lei.
All'inizio non mi era chiaro tutto questo: solo, non mi sentivo dalla sua parte; avevo paura di mia madre, sentivo il bisogno di stare lontana da lei e mi sentivo in colpa per questo. I miei fratelli - inconsciamente - l'hanno temuta e si sono illusi fino al punto di credere alla sua integrità di madre. Non hanno osato avere dubbi; non hanno avuto cuore di riconoscere tutto quel dolore, e hanno distrutto la loro vita per questo. Perché vivere senza riconoscere e accettare la realtà di una storia dolorosa è come costruire una casa senza fondamenta.

Per me la durezza e la solitudine che stavano dentro la necessità di svelare quel segreto - la follia di mia madre, la rimozione di questa verità, l'abbandono definitivo a cui lei aveva consegnato la mia infanzia - si accompagnavano a una possibilità nuova: la dolcezza di riavvicinarmi a me stessa.

Il piccolo negozio di mio padre era vicino alla stazione, e lui passava lì buona parte delle sue giornate. A volte andava in treno a fare spesa in qualche città; dopo alcuni giorni arrivavano in negozio pacchi o scatoloni pieni di coperte messicane, gonne a pieghe, pantaloni da lavoro, maglie della marina americana, eskimo, giacche per la caccia che lui buttava sugli scaffali.
Ho un ricordo pieno di malinconia: le sbarre del passaggio a livello automatico che si abbassano, accompagnate da un suono stridente, acuto, il buio che incombe, e mio padre che torna solo.
In inverno si addormentava seduto davanti alla stufa; mia madre era furiosa perché lui non si incaricava mai di fare il rifornimento di carbone, ed era furiosa perché si addormentava - come poteva dormire, mentre lei si portava addosso tutto il peso del mondo? C'erano giornate peggiori delle altre, in cui esplodeva la follia; mio padre diventava violento e mia madre taceva, dopo averlo provocato per ore. Altre volte era mia madre che urlava, minacciando di uccidersi con un paio di forbici che stringeva nelle mani. Una volta l'ho vista, più quieta, mentre stava davanti allo specchio, in silenzio, un rasoio puntato alla gola. Uscivo di casa senza respiro e continuavo a girare a vuoto per le strade, finché faceva buio, poi rientravo sperando che per quel giorno fosse finita. A volte mio padre andava via furibondo, e non tornava a casa.

Si accanivano uno contro l'altro; passata la furia lei diceva di mio padre: "voleva buttarsi sotto il treno, e invece l'ho trovato in negozio che dormiva sui suoi stracci". Lui la derideva: "dice sempre che vuole morire, ma dovete vedere come sta attenta a tutti i suoi mali!"

Mi piacevano i libri - i libri che aveva Marina, mia sorella, più grande di me di tre anni.
Leggevo e rileggevo le poesie di Quasimodo, di Pavese, di Ungaretti, ricordavo i versi a memoria, li ripetevo dentro di me... Lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata... Altri versi mi tornano in mente adesso, mentre ripenso ai miei genitori e alla casa in cui ho abitato: ...Vicolo: una croce di case/ che si chiamano piano,/ e non sanno ch'è paura/ di restare sole nel buio.

Marina aveva libri di Hemingway e di Fitzgerald, libri di poesie, libri di Camus e di Sartre.
Scriveva poesie, le piaceva dipingere, colori forti e contrastanti. Mio padre la chiamava Marinella, e un poco si interessava a lei. Me ne accorgevo perché qualche volta reagiva male se tornava a casa tardi, e anche perché quando parlava di lei gli scappava un mezzo sorriso compiaciuto. Non si sorrideva nella mia famiglia, ma mio padre qualche volta si divertiva a raccontare storie buffe del suo paese; recitava nel suo dialetto filastrocche senza senso, parlava di suo padre con una certa ammirazione - suo padre che andava in America, ritornava e poi ripartiva, suo padre che teneva testa ai notabili del paese.
Mia madre non sopportava quei rari momenti di leggerezza, e reagiva agli scherzi di mio padre con parole acide, cattive.

C'è un sogno di tanti anni fa che ricordo con chiarezza; avevo iniziato un percorso, volevo capire la mia storia, che cosa era accaduto, e il sogno mi diceva in quale modo avevo interiorizzato mio padre e mia madre.
Nel sogno ero in una stanza di fianco a una bara; deposta nella bara c'era mia madre. Stavo piangendo. Dalla bocca di mia madre usciva del sangue; una grande chiazza di sangue scuro si allargava anche in basso, usciva dalla pancia di mia madre. Piangevo sempre più angosciata. Dall'altra parte della stanza c'era un letto simile ai letti d'ospedale; vi era disteso un uomo con la pelle giallastra, avvizzita; sembrava morto. Qualcuno si avvicinava al letto: voleva fare una iniezione all'uomo, tentava di soffocarlo con un cuscino- vedevo le sue gambe agitarsi convulsamente. Poi sembrava di nuovo tutto quieto, l'uomo si alzava, guardava verso la finestra e diceva: fuori c'è il mercato.

Mia madre mi trasmetteva sensazioni di morte; mio padre, nonostante tutto, qualche bagliore di vita.
Con Marina andavo a ballare qualche volta, la domenica pomeriggio - in realtà, ricordo che rimanevo seduta tutto il tempo. Marina mi aiutava a comperare qualcosa da indossare - una maglietta, un paio di pantaloni - e mi insegnava a truccarmi.
In estate andavamo a lavorare, lei faceva la segretaria in un albergo, io lavoravo in una gelateria; in agosto continuavo a fare coni di gelato fino alle tre di notte. In questo modo avevamo un po' di soldi per pagare la scuola, comperare qualche libro, qualcosa da mettere addosso. Mia madre detestava Marina, la considerava una puttana perché rientrava tardi la sera. Mio fratello più piccolo la considerava una ladra - forse l'aveva sorpresa mentre prendeva qualche spicciolo dalle tasche della giacca di mio padre.
Marina è andata via di casa a diciotto anni, appena finita la scuola. E'andata a lavorare in Svizzera, dove ha raggiunto i miei fratelli più grandi, emigrati qualche anno prima. Non ha più scritto poesie, non ha più dipinto. È rimasto in lei un bisogno irreale di sradicare la sua storia, e di essere qualcuno.
"Qualcosa sarebbe stato, che non ha mai potuto essere"(2).

Non ho conosciuto i miei fratelli; nel periodo in cui sono stata nella casa dei miei genitori alcuni erano già lontani, sposati o emigrati in Svizzera. Aldo aveva tirato su due stanze misere, accanto alla nostra casa, e lì viveva con la moglie e i due figli. Gianna era molto giovane quando è partita, per raggiungere in Svizzera l'uomo che poi avrebbe sposato. Se ne andò con la "benedizione" di mia madre: "se esci da questa casa non ci rimetti più piede".
Partita anche Marina, a casa erano rimasti Federico, Romano e Margherita.
L'unica cosa attraverso cui mia madre ci teneva insieme era l'ostilità verso mio padre.
D'altra parte, la risposta che ognuno di noi era capace di dare alle sue aspettative ci divideva e ci allontanava. Margherita era la più brava. Si occupava costantemente di mia madre - i dottori, gli ospedali, le medicine, i panni da stendere e da raccogliere, la spesa, i piatti da lavare -; l'assecondava sempre, si alleava con lei, era la brava figlia. Si era guadagnata l'approvazione di mia madre, e la sua "fedeltà" la metteva al di sopra di tutti. Quanto le è costato questo "privilegio", questa illusione?
Dietro la bontà e la dedizione nascondeva una rabbia feroce; i bersagli preferiti delle sue frasi secche, violente, erano gli stranieri, gli immigrati, e "quei ladri che stanno al governo e cercano solo di fregarci".

Margherita, a ventiquattro anni, ha subito un intervento chirurgico al cuore - quel suo cuore come stretto in una morsa. Ha sposato un uomo molto più anziano di lei, separato dalla moglie, subendo all'inizio l'ostilità dura di mia madre, che non voleva perderla in quel modo; mia madre ha ceduto il giorno in cui "povera figlia, l'ho vista appoggiata a quella porta, mezza morta, bianca come un lenzuolo".
Margherita, anche dopo il matrimonio, correva da mia madre appena le era possibile.
Ha avuto un figlio, e ha perso il marito molto presto. Il figlio, su cui riponeva grandi speranze - "avrà una laurea, una bella scrivania, una segretaria che lavora per lui" - ha smesso di andare a scuola a quindici anni; si è chiuso nella sua stanza, assieme al suo computer, ed è ancora lì, lontano, separato dalla vita.

Andavo a scuola con un senso di frustrazione e di ribellione; mi sembrava una scuola misera, che non prometteva niente. Avrei voluto di più, ma non sapevo cosa fare.
Studiavo poco, le uniche materie che un po' mi interessavano erano la storia e la letteratura. Ricordo di essere stata rimandata, il secondo anno: Economia Domestica e Lavori Donneschi, quattro - era scritto così, sulla pagella.
Ma sono ancora i versi di poesie che echeggiano nel mio ricordo a raccontare qualcosa di me - la solitudine, la malinconia di quegli anni, la mia vita che si svolgeva tra una quotidianità inerte e obbligata, pensieri incessanti e nessuna cosa reale - nessuna cosa che mi scaldasse il cuore.
...Nell'isola morta,/ lasciato da ogni cuore/ che udiva la mia voce,/ posso restare murato (3).

Mi piaceva un ragazzo che abitava nel mio quartiere; era biondo, aveva gli occhi chiari come mio padre.
Lo vedevo ogni mattina alla stazione, quando prendevo il treno per andare a scuola, e mi bastava; a volte tornava da scuola più tardi, in un orario diverso dal mio, e allora tutto quello che mi concedevo era nascondermi nella stanza che si affacciava sulla strada, dietro le imposte della finestra, per vederlo passare. Non ci siamo mai scambiati un saluto, una parola.

È stato quello l'inizio di un "percorso sentimentale" difficile, che si è dipanato tra oscurità e disordine. Non mi sentivo esistere; ero assente, passiva, ma mettevo in scena un coinvolgimento intenso. Mi truccavo perché non volevo che si vedesse il mio viso. Erano sempre gli uomini a decidere: non stavo bene con loro - ed era sempre così, dal momento che ero piena di rabbia e di paura - ma non potevo lasciarli; se venivo lasciata mi sentivo morire. Non sapevo quello che facevo; avrei compreso più tardi, pagando nel frattempo un prezzo alto. In quel periodo potevo giustificare la promiscuità - quella malintesa idea di libertà sessuale - con gli echi degli anni '70, che giungevano fino alla piccola città in cui abitavo.
A diciotto anni ho fatto l'amore per la prima volta. Ricordo di avere pianto alla fine, e non era un pianto di gioia.

D'altra parte, che cosa conoscevo della sessualità, dell'amore? In Istituto avevo imparato a vergognarmi del mio corpo, avevo imparato il "valore" della purezza e il senso del peccato; il nostro ideale doveva essere Santa Maria Goretti, che si era fatta uccidere, ma non aveva permesso a un uomo di toccarla. Ricordo una bambina che "sapeva certe cose" e le raccontava anche a noi, curiose, in modo morboso. Suor Anna scoprì il fatto; ci convocò una sera e, in mezzo ad aspri rimproveri, ci mise in guardia da quel "demonio che si era infiltrato in mezzo a noi".
A casa sentivo mio padre imprecare, infuriato con mia madre che lo rifiutava; a volte lui rinunciava, altre volte la costringeva. Quando mio padre, un po' più avanti negli anni, si lamentava della vecchiaia alludendo al sesso, mia madre lo derideva soddisfatta. Ricordo le parole maligne e volgari che diceva quando in un film vedeva la scena di un bacio. E ricordo quella parola - biscia! - sibilata da suor Anna di fronte a una scena del film Cleopatra.

Camminavo sola sugli stretti passaggi che separano i bacini di acqua delle saline; il cielo era alto, c'era uno spazio grande intorno, silenzioso, chiaro. Dentro di me, ancora gli echi di una poesia: ...Ma posso amare tutto della terra/ in luce di cieli in tenebra di vento (4); ... Mi chinai a raccogliere una piccola pietra, colpita da un pensiero: ecco che cosa vorrei essere, una piccola pietra che sta qui in eterno, insensibile, ma esistente.

Volevo esserci, ma non essere toccata da niente.
Il mio bisogno di vivere, e il desiderio di morire.

In quel periodo la politica ha avuto una funzione vitale. Lì ho concentrato una rabbia di cui non ero consapevole, lì ho cercato di dare un senso alle cose. La politica per me era l'evidenza, la certezza del reale; accantonato il pensiero di Dio, s'imponeva la realtà, l'unica imposizione che volevo accettare.
Andavo ai cortei e urlavo fino a perdere la voce. Nelle pagine di Gramsci trovavo certezze a cui aggrapparmi. In un mio vecchio quaderno di appunti ritrovo una sua frase:
"La disciplina borghese è cosa meccanica e autoritaria, la disciplina socialista è autonoma e spontanea...Chi è socialista o vuol diventarlo non ubbidisce, comanda a se stesso, impone una regola di vita ai suoi capricci, alle sue velleità incomposte. Sarebbe strano che mentre troppo spesso si obbedisce senza fiatare a una disciplina che non si comprende e non si sente, non si riesca a operare secondo una linea di condotta che noi stessi contribuiamo a tracciare e a mantenere rigidamente coerente. Poiché questo è il carattere delle discipline autonome: essere la vita stessa, il pensiero stesso di chi le osserva."
La disciplina dunque, di nuovo - era questa l'impronta che portavo dentro - ma mi illudevo che sarei stata io a sceglierla.
In realtà non sceglievo nulla: credendo di ribellarmi, entravo in un partito che, come la vecchia chiesa, si reggeva su una struttura chiusa, gerarchica, a cui si poteva aderire senza pensare, in cui confermare una separazione netta tra bene e male, tra buoni e cattivi. Potevo urlare ai cortei, disprezzare le chiesa e i suoi preti, l'intero sistema e tutti quelli che non la pensavano come me, e credere di rovesciare in questo modo la mia storia. Ma dove era il mio cuore, cosa ne facevo del mio corpo, che cosa stavo perdendo ancora, dopo aver già perduto la mia infanzia? Il disprezzo aveva messo radici profonde dentro di me, e lo portavo ovunque, senza saperlo.

Ricordo i viaggi per andare alle manifestazioni - ricordo Napoli, Firenze, Venezia; forse il mio cuore era lì, nella scoperta che si poteva andare altrove, nella percezione - fragile ancora - di una bellezza che avrei scoperto negli anni, poco a poco: il mio Sud antico e assolato, l'incanto delle isole, e le città che mi attiravano nei loro labirinti, a cercare la bellezza, o la rivelazione improvvisa.
Ho imparato a guardare le belle facciate dei palazzi antichi, la prospettiva di una vecchia via, mi sono fermata a lungo nelle piazze delle città, conosco la meraviglia di camminare dentro una rete di vicoli che all'improvviso si apre verso il mare.

La separazione rigida tra bene e male, tra buoni e cattivi, era il mio modo di guardare le persone e il mondo; non distinguevo la critica dal giudizio - il giudizio disprezza le persone, la critica rispetta le persone pur riconoscendone gli errori; nei "cattivi" proiettavo la mia ostilità, la mia rabbia segreta, il mio bisogno di sentirmi diversa, speciale - l'altra faccia del mio sentirmi niente.

Dell'esperienza politica, è rimasto in me il desiderio di capire quello che succede nel mondo, un senso della giustizia che mi porta a comprendere le ragioni dei più deboli, un riconoscermi nei valori dell'interesse sociale e collettivo piuttosto che negli egoismi e negli interessi di parte.
Ma c'è voluto tempo per interrompere la proiezione della mia storia personale sulla realtà esterna, per capire che io non ero buona e gli altri non erano dei mostri, che il bene e il male si mescolano in ciascuno di noi in quel modo complicato e misterioso legato alla realtà interna della nostra coscienza. Credo che il cuore del problema, allora, sia in quale modo si determinano quei processi in cui la crescita della consapevolezza individuale può intrecciarsi all'azione per il cambiamento sociale.

F. Capra ne La scienza della vita propone una comprensione delle comunità e delle organizzazioni umane in termini di "sistemi viventi":
"...I principi di organizzazione degli ecosistemi, che stanno alla base della sostenibilità, sono identici ai principi dell'organizzazione di tutti i sistemi viventi. Sembrerebbe quindi che la comprensione delle organizzazioni umane come sistemi viventi sia una delle sfide cruciali del nostro tempo.
...Se creatività, apprendimento, cambiamento e sviluppo sono caratteri intrinseci di ogni sistema vivente, in che modo questi processi vengono di fatto a manifestarsi nelle comunità e nelle reti viventi delle organizzazioni?
...Al fine di edificare una società sostenibile per le generazioni future dobbiamo rivedere drasticamente molte delle nostre tecnologie e delle nostre organizzazioni sociali, in modo da saldare la vasta frattura che si è creata tra i progetti umani e i sistemi ecologicamente sostenibili del mondo naturale."

Occorre riconoscere torti e ragioni di tutti, assumere atteggiamenti più empatici che permettano di ricostruire il filo della nonviolenza che lega gli esseri viventi, interrotto dalla violenza. Questo è il sogno di un mondo futuro che possa diventare la casa di tutti, in cui vivere in pace. Occorrerà anche combattere, tutte le volte che sarà necessario farlo, ma si può combattere senza odio nel cuore - perché è la pietà che può interrompere la lunga catena della violenza.

Alba


1. Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra
2. J. Saramago, Le piccole memorie
3. S. Quasimodo, In luce di cieli, in Tutte le poesie
4. S. Quasimodo, op.cit.

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