Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

mercoledì 9 dicembre 2009

Dopo il passato (parte prima)


In questo piccolo frammento di storia dell'umanità io sono forse uno dei numerosi ripetitori che deve poi trasmettere su una distanza più lunga



Etty Illesum, Diario 1941-43


"Che bella bambina, è un peccato che stia lì scalza a giocare nella terra."


Avevo forse meno di tre anni e "la signorina"- così la chiamava mia madre - aveva fatto visita alla mia famiglia. Ero la settima figlia, e i miei genitori erano da poco emigrati dal Sud, come faceva in quegli anni tanta gente povera che faticava a vivere nella sua terra. Avevano comprato due stanze malridotte, in un quartiere periferico di una piccola città di mare, abitato in prevalenza da gente del Sud, e lì vivevano con tutti i figli (un altro ne sarebbe arrivato dopo di me). Lì mi aveva visto la signorina.
Non ho ricordi di quel periodo, e mia madre ne parlava solo per ricordare la miseria e la fatica; elogiava la benevolenza della signorina e puntualizzava, con la rabbia che le era abituale, che lei sì, aveva fatto qualcosa per la nostra famiglia, mentre il resto del mondo se ne fregava.
La signorina decise che sarebbe stato un bene per me crescere in un ambiente diverso - un posto pulito, sano, ordinato - e che sarebbe stato un bene per mia madre essere alleggerita dal peso di tanti figli.

Si chiamava Ospizio per l'Infanzia Abbandonata - ricordo bene la targa sul muro, di fianco al portone d'ingresso dell'Istituto. Mi portarono lì - avevo forse meno di tre anni - e lì sarei rimasta fino alla fine delle scuole elementari. Avrei poi trascorso ancora quattro anni in un altro Istituto, per "fare ritorno a casa" a quattordici anni.
Non ho nessun ricordo di quell'inizio. So che tanti anni dopo, quando ho deciso di ricostruire la mia storia nel corso di una lunga analisi, ho ricordato e ri-sentito un senso di smarrimento totale. Immagino di averlo provato quando mi hanno portato via da casa (nonostante il disastro, era quello il mio ambiente), quando mi hanno portato all'Ospizio per l'Infanzia Abbandonata e lì sono rimasta sola.


La mia era una famiglia devastata. Mio padre e mia madre avevano sempre vissuto in una condizione di povertà, materiale e affettiva. Erano incapaci di qualsiasi rapporto, tra loro e coi loro figli. La follia poteva esplodere all'improvviso. Minacciavano il suicidio, urlavano, mia madre si disperava, mio padre spaccava tutto e poi entrava in uno stato di indifferenza totale. Per mia madre qualsiasi difficoltà, anche la più piccola, si trasformava in tragedia. Era convinta che i parenti da parte di mio padre le volessero male, e che fosse "il malocchio" a provocarle quegli attacchi di tosse convulsa che le toglievano il fiato, o i conati di vomito che la lasciavano spossata. Faceva così perché non sapeva piangere. Io avevo paura di lei.

Mia madre era rimasta orfana di entrambi i genitori a nove anni; aveva perso prima il padre, emigrato giovanissimo in America, e poi la madre. Ancora bambina, era stata messa a servizio presso una ricca famiglia, in una città lontana dal paese in cui era nata. Di quella esperienza, vantava il fatto di essere cresciuta in una famiglia perbene, al contrario di mio padre.
Era piena di rancore, di odio, di disprezzo. Il primo oggetto del suo disprezzo era mio padre. Lo provocava continuamente, finché lui esplodeva in reazioni violente.
Non l'ho mai vista fare un gesto di tenerezza; io non ho mai avuto da lei un sorriso, un abbraccio, una carezza. Adesso capisco che era rimasta lì, nella sua infanzia, una bambina sola che non poteva capire niente di quello che le era accaduto. Non ha mai capito niente della sua vita, non ne ha avuto la possibilità.
Conosceva la rabbia e il disprezzo, la disperazione, ma non conosceva il dolore.

Non so perché, ma io ho ricevuto in dono qualcosa che a mia madre non è stato concesso. Ho sempre sentito una forte spinta a cercare, a capire, e ho avuto il privilegio di incontrare persone che mi hanno aiutato a cercare il dolore: il dolore va cercato, la possibilità della gioia poi viene da sé. Nel corso del mio lungo viaggio interiore ho compreso la differenza tra il dolore limpido, profondo, che proviamo nel riconoscere e nell'accettare una storia dolorosa che non può essere né riparata né cancellata, e la sofferenza che viene dalla mancata accettazione e quindi dalla rabbia, dalle paure difensive, dalle pretese, dalle illusioni. Ho compreso il motivo per cui il dolore vero rimane sepolto in fondo al cuore.
Accettare senza condizioni la storia dolorosa della nostra infanzia ci rende liberi, e per questo può diventare una solida base su cui costruire.

Dal momento che non conosceva niente della sua storia e della sua tristezza, mia madre non sapeva niente nemmeno dell'amore; per questo mi ha abbandonata. So che non poteva fare altro, adesso lo capisco. Ma prima, con fatica, ho dovuto fare i conti con la paura, con il senso di colpa, con la rabbia, e poi col dolore di avere trascorso la mia infanzia in un deserto popolato da incubi. Se mi guardo indietro c'è un vuoto desolante, nessuna cosa buona da ricordare. Avrei voluto un po' di dolcezza, un po' di calore, e questo soprattutto: stare al sicuro tra le braccia di una madre, in pace. Questo mi è mancato, ed è irrimediabile.

Mio padre aveva il suo lavoro, forse l'unica cosa che gli interessava. Vendeva ai mercati e aveva un piccolo negozio - più che un negozio, un deposito per i suoi "stracci America"; così si chiamavano gli indumenti usati che arrivavano dall'America e che lui portava ai mercati con la sua Ape a tre ruote.
"Non c'erano i soldi, i figli erano tanti, non c'era nemmeno da mangiare". Così qualche volta mia madre si giustificava quando parlava degli anni che avevo passato in Istituto. Nei miei pensieri confusi, io la giustificavo.

Quel luogo, l'Istituto, era un concentrato di stupidità e di follia. Era gestito come una prigione per bambini dall'Ordine delle Suore di Carità. Me le ricordo bene le suore, il velo nero rigido, a punta, che lasciava scoperto solo il viso - bianco e flaccido, di solito -, l'abito nero lungo fino ai piedi e una grande corona del rosario appesa al fianco, col Crocefisso che dovevamo baciare la sera prima di andare a letto.
Una volta alla settimana, in una grande stanza con al centro due lunghi tavoli ricoperti di bucato, mentre da un grammofono uscivano canzoni religiose e patriottiche, noi bambine dovevamo inamidare i veli lavati, ripiegare asciugamani e lenzuola. Ricordo che in mezzo al bucato c'erano delle larghe fasce bianche che le suore usavano per comprimere il seno: la negazione della femminilità, e l'idea ossessiva che collegava il corpo al peccato.
A dieci anni ho avuto le prime mestruazioni. Non ne sapevo nulla, guardavo le macchie di sangue e non capivo, non sapevo cosa fare. Suor Taddea - questo era il suo nome arcigno - "mi scoprì" nel corso di quella pratica serale che consisteva nel metterci in fila davanti a lei prima di andare a letto, noi bambine, per mostrare la nostra biancheria. Non sapevo che cosa aspettarmi; lei guardò e mi disse di aspettare, in un angolo, la fine dell'ispezione, perché doveva parlarmi. Mi disse che ero diventata una donna, nel senso che da quel momento in poi avrei dovuto lavorare sodo (eravamo noi bambine a fare le pulizie nell'Istituto), che quello che mi era capitato era il castigo che Dio aveva inflitto alle donne per aver disubbidito (la logica era stringente: quel "peccato" di Eva, tutte le donne dovevano pagarlo per l'eternità).


Le pulizie nell'Istituto cominciavano al mattino presto, in camerata: tutti i giorni pulire i pavimenti, lucidare i piedi di metallo dei comodini, spolverare, pulire i lavandini e lucidare i rubinetti, rifare e allineare perfettamente i letti, abbassare le persiane, tutte alla stessa altezza; tutto questo mentre suor Taddea snocciolava le domande del Catechismo, a cui dovevamo rispondere. "Chi è Dio?" "Dio è l'essere perfettissimo creatore del cielo e della terra" ; "I sette vizi capitali" "Superbia avarizia lussuria ira gola invidia accidia" ; "Le quattro virtù cardinali". Non me le ricordo più, ma è possibile che, se ricordo la prima, le altre tre mi vengano fuori in ordine - tutte in fila.
Perché ogni giorno doveva iniziare lucidando i piedi dei comodini?

Al mattino c'era la messa, il pomeriggio il rosario, la sera la benedizione, poi le preghiere prima e dopo i pasti, le preghiere prima di andare a letto - chiedevamo di diventare buone e obbedienti, e di essere preservate dai peccati e dalla morte improvvisa - la confessione una volta alla settimana...I peccati erano sempre gli stessi: "Ho disubbidito ai superiori, non ho fatto il mio dovere, ho avuto pensieri impuri, ho mancato di rispetto ai miei compagni..." "Per penitenza dirai tre Pater Ave Gloria".
C'erano poi i racconti di demoni e di indemoniati, di esorcisti che scacciavano il diavolo dal corpo dei posseduti che si contorcevano urlando - i racconti della sera, prima di andare a letto.
C'è un racconto che non ho mai dimenticato. Di fronte a un uomo posseduto dal demonio l'esorcista pronuncia ripetutamente un nome: Maria... Il demonio non può tollerare di ascoltare quel nome, e tra spasmi e tormenti abbandona quel corpo gridando "Maria, Maria...se anch'io avessi una Maria non sarei quel che sono".

Chi commetteva un peccato e non lo confessava andava all'inferno, per l'eternità.

Io commisi davvero un peccato grave, quando abbassai i pantaloni di un bambino molto più piccolo di me, per vedere com'era fatto.
Eravamo rigorosamente separati, i maschi dalle femmine: due camerate per dormire, due refettori, il cortile diviso da una rete. Non ricordo in quali circostanze quel bambino mi era stato affidato. Mi nascosi con lui nel capannone della lavanderia. E così cominciò il tormento. Non avevo il coraggio di confessare il mio peccato, ma nonostante questo continuavo a fare la comunione, per non destare sospetti; i peccati mortali continuavano ad accumularsi. Non so quanto tempo ho vissuto con questo tormento prima di trovare il coraggio di confessare tutto, perché non riuscivo più a sopportare quel peso. Forse avevo dieci anni.

In seguito, c'è voluto molto tempo e molto impegno perché potessi ascoltare o pronunciare di nuovo la parola "Dio" senza provare un senso di rivolta, e per sentire che la sacralità riguarda, semplicemente, la realtà del creato. Non erano sacre le truci immagini dei santi che vedevo da bambina, non erano sacri gli ossessivi rituali quotidiani a cui ero sottomessa. Ora so che la religiosità scaturisce dal valore profondo che si attribuisce all'esistenza umana, dal senso di meraviglia di fronte al mistero dell'universo e delle infinite forme che assume la vita; il senso religioso non può risiedere in quella stupida serie di divieti, di colpe, di doveri, di dogmi che uccidono la vita e la ragione.

Penso che la religione cattolica, ridotta all'esercizio di riti vuoti e privi di significato, permeata ancora da regole e prescrizioni che servono soltanto ad esercitare il controllo e il potere, abbia perso ogni legame con le fonti della spiritualità; e credo che una delle "gravi colpe" della chiesa sia quella di precludere alle persone la percezione della sacralità che è inscritta nella realtà della vita.

Eravamo rigorosamente separati, maschi e femmine, ma c'era qualche eccezione. Ad esempio, in refettorio era proibito parlare. Trasgredire a questo o ad altri divieti comportava una punizione: stare in piedi, al centro del refettorio dei maschi, con un tovagliolo sulla testa. La stessa cosa succedeva quando a volte, di notte, una di noi bagnava il letto: la mettevano al centro del dormitorio dei maschi, col lenzuolo bagnato sulla testa.

Una volta, a tavola, non volevo mangiare: la gelatina della carne mi faceva schifo. Era obbligatorio mangiare tutto quello che passavano, ma la gelatina no, non riuscivo proprio a mangiarla. La suora di turno mi disse: "Mangia tutto, non fare storie e vergognati, che a casa tua muoiono di fame".

Come facevano a parlare della carità cristiana? Quanta ipocrisia, quanto odio, quanta stupidità albergava dentro le loro teste? Dove e come avevano imparato ad agire con quella violenza e quella crudeltà?
Penso che la chiesa, per la sua natura di istituzione chiusa, dogmatica, presunta portatrice di una verità morale assoluta - che non può essere tale, dal momento che si fonda sull'idea della colpa e del peccato - poteva e può ospitare in sé persone violente e strutture autoritarie in cui c'è sempre, comunque, lo spazio per l'ipocrisia e l'assoluzione.
Quale moralità può esserci nell'idea che "si salveranno solo i battezzati"?

Una delle cose che ho imparato nel mio lungo cammino è che le azioni distruttive, i pensieri e gli atteggiamenti non rispettosi di sé e degli altri nascono sempre dalla paura, da antichi dolori non elaborati. Anche "le vecchie suore nere"(1), allora, dovevano avere nascosta nel cuore la loro parte di pena.

Nel corso degli anni ho incontrato almeno due religiosi, Padre Leonardo Boff e Padre Alex Zanotelli, che hanno portato nella loro vita e nel mondo le parole di Cristo: "Ama il prossimo tuo come te stesso". E anche da loro ho imparato che la carità cristiana non ha niente a che fare con la pretesa delle certezze che escludono il dialogo, l'empatia, la compassione.
Le buone azioni che si fondano sulla paura, sulla pretesa di una ricompensa divina, sulle certezze assolute da imporre al mondo intero, sull'esercizio del potere per mandato divino, possono solo produrre effetti disumani. So quello che è accaduto nel corso della storia; nel mio piccolo frammento di storia, ho visto come si maltrattano i bambini con l'obiettivo di educarli alle "virtù" dell'obbedienza e della fede.

La carità cristiana può venire soltanto da un cuore limpido, dal limpido desiderio di agire per il bene comune, costruendo relazioni fondate sul rispetto per tutti gli esseri viventi; ma questo "stato di grazia" è al di là di qualsiasi appartenenza religiosa, e può realizzarsi - credo - solo attraverso un percorso di crescita personale, per certi aspetti misterioso, che può essere aiutato, ma non trasmesso o insegnato.
Padre Boff e Padre Zanotelli sono rimasti dentro la chiesa, in un rapporto conflittuale e difficile con le gerarchie ecclesiastiche, proprio perché al centro della loro azione non c'è nessuna richiesta di adesione passiva ai dogmi della fede; c'è piuttosto la fiducia nella forza dell'esempio e nel valore dell'esperienza come fonte di conoscenza.
Anche a loro devo gratitudine se, nel mio cammino interiore, ho compreso che era importante per me rinunciare a un ostinato pregiudizio.

Una bambina piccola deve giocare, in un prato, in un cortile, in una stanza calda e accogliente; deve giocare con gli altri bambini, andare a scuola con curiosità e interesse, ritornare a casa e lì sentirsi al sicuro. Non mi sono mai sentita al sicuro, e non mi ricordo di avere giocato.
Non avevamo spazi e oggetti personali, e nemmeno giocattoli. Gli abiti, non ricordo bene: forse portavamo dei grembiuli, mentre la biancheria era riconoscibile da un numero - il mio era il 56.

Questo è un grande rimpianto: non avere sperimentato la felicità del gioco, la felicità del corpo che si muove a contatto dell'aria, della luce, del calore; non avere il ricordo di un posto buono in cui svegliarmi e addormentarmi, non aver conosciuto il contatto di mani amorevoli.

Uscivamo dall'Istituto per andare a scuola (raggruppate in un angolo della classe, eravamo "quelle del collegio"), o per accompagnare ai funerali i ricchi benefattori che morivano, o i loro parenti - che bella impressione dovevano fare tanti bambini a un funerale!
La domenica, a volte, ci portavano in visita all'Opera di Santa Teresa del Bambin Gesù, l'Istituto dove erano ricoverati bambini e adulti handicappati; andavamo vestite con la divisa dei giorni di festa - era questa la nostra ora d'aria.
Ricordo che un'altra meta delle nostre uscite domenicali furono, per un certo periodo, le ripetute visite alla Mostra della Chiesa del Silenzio. Mi ricordo grandi pannelli con foto in bianco e nero dove si vedevano sacerdoti e suore incatenati, torturati, dietro al filo spinato. Era una mostra sulla condizione della chiesa nei paesi dell'Europa dell'Est. I comunisti erano malvagi, erano chiaramente "il prodotto diretto dell'industria del demonio"(2) e noi imparavamo, insieme, il dogma dell'anticomunismo e la devozione a Pio XII.

Ho lavorato tanti anni coi bambini piccoli. Da un certo periodo in avanti ho considerato questa una circostanza strana, difficile, ma per me opportuna. È stato un percorso faticoso, ma ho avuto la possibilità di imparare tante cose che riguardavano la mia infanzia e quello che ero diventata.
Una delle cose che mi toccavano era che, gradualmente, i bambini dovevano imparare a fidarsi di me, e questo potevo ottenerlo con l'attenzione, la cura costante, col creare delle consuetudini buone, in modo che i bambini imparassero a prevedere, ad anticipare quello che sarebbe accaduto nel corso della giornata, e a sentirsi al sicuro.
Ma io, nell'Istituto, cosa potevo aspettarmi? Giorno dopo giorno, sempre la stessa pena.

Ero una bambina devota, ubbidiente e passiva. Anzi, una bambina che, diligentemente, collaborava. Se una mia compagna era colpevole di qualcosa e trasgrediva le sane regole e i retti principi stabiliti dall'istituzione, io diventavo ostile verso di lei, e mi aspettavo che le altre bambine facessero altrettanto. "Non devi parlare con quella, questa notte ha bagnato il letto".
Ero silenziosa. Spesso mi ritiravo in un angolo. Cominciavo ad alzare il mio muro. "Non parla con nessuno", diceva la suora a mia madre quando lei veniva a trovarmi. Qualche volta veniva, non spesso.
Il parlatorio era il luogo dove i bambini incontravano i loro genitori; è il luogo dove mia madre compare nei miei ricordi, per la prima volta.
La regola era di non parlare mai di quello che succedeva in Istituto. Ricordo che suor Taddea si lamentò di me con mia madre, forse per quella mia tendenza a isolarmi. Mia madre, a voce alta, cominciò a rivolgermi parole cattive e volgari. Io me ne andai dal parlatorio, e non volli tornare. Non mi sentivo arrabbiata o ferita; soltanto, mi vergognavo delle parole che mia madre aveva usato. Come le suore mi avevano insegnato, c'erano parole, gesti e pensieri di cui ci si doveva vergognare. Suor Taddea mi rimproverò aspramente per il mio comportamento e mi fece scrivere una lettera di scuse a mia madre. Lei mi disse: "Se non avessi scritto quella lettera non sarei più venuta".

Ricordo alcune sensazioni fisiche: mi si annebbiava la vista, la testa mi girava. Una volta mi sono sentita così nella cappella dell'Istituto: c'era odore d'incenso e di candele accese, al centro della cappella una bara, e il colore livido, il gelo della morte. Io ero sola.

Mi sentivo goffa, ridicola. A volte mi sentivo dolorosamente al centro dell'attenzione, come se tutti gli occhi fossero concentrati su di me, e quella sensazione mi paralizzava. Qualcuno mi costringeva a muovermi: dovevo allora camminare tra due file di bambini, gesticolando a caso.

D'estate ci portavano qualche giorno al mare, nella città dove abitava la mia famiglia, ma quella circostanza non era rilevante, dal momento che i miei genitori non li incontravo mai. Al mare facevamo ginnastica in cerchio, sotto il sole. Costruivamo castelli di sabbia decorati con le conchiglie che avevamo raccolto sulla spiaggia - le conchiglie avevano un nome: si chiamavano torri, ventagli, regine, madreperle, e c'erano ancora cavallucci e stelle di mare - ma anche in questo ricordo non c'è nessuna gioia. Non sentivo più nulla, tranne il senso di colpa, e quel pensiero costante di essere sbagliata.
I ricordi che ho dell'Istituto, in fondo, non sono molti, ma ho nella mente l'impressione di giornate che si ripetevano sempre uguali, ossessive, come in una prigione.

Tornavo a casa una o due volte l'anno, e quando ero lì desideravo solo tornare in Istituto. A casa mia ero spaventata: sentivo bestemmie, imprecazioni, litigi furiosi, e pensavo che saremmo andati tutti all'inferno.

Quella concentrazione di autoritarismo, di stupidità e di follia che vivevo ogni giorno era spaventosa, ma mi teneva incatenata. Mia madre mi aveva abbandonato nelle mani di persone sadiche con le quali si alleava nel respingermi, nel rifiutarmi. Mi sentivo colpevole, sbagliata. Nel lungo cammino per ritrovare me stessa ho imparato che i bambini si sentono così: si alleano con gli adulti nel sentirsi colpevoli e sbagliati, perché non possono sostenere il vuoto e la solitudine a cui vengono condannati.

C'è una vecchia fotografia in cui sono ritratta insieme a mia madre e alla signorina. Forse ho sette anni, è il giorno della prima comunione. Cerco di scoprire qualcosa nell'espressione del mio viso. Una vecchia amica mi dice: "Sei rigida, hai l'aria assente".
Quella fotografia mi ricorda che fare la comunione, per un certo periodo, è stato un modo per sentire qualcosa di "buono" dentro di me. Forse avevo bisogno di "tornare indietro", di sentirmi in uno stato simbiotico in cui trovare un po' di quiete. Ma non durava molto, la presenza di Gesù si dissolveva in fretta.

Sono sopravvissuta. Sono andata in fondo al mio abisso, ho attraversato le mie paure, le mie difese, per raggiungere quel dolore che era mio da sempre.
Ho imparato a utilizzare la mia storia, a guardare apertamente, senza indulgenza, i lati distruttivi del mio carattere, per comprenderli e superarli. Ho imparato a riconoscere la mia forza, la mia libertà di pensare, la profondità e la sensibilità del mio sguardo, il mio amore per la bellezza. Ho imparato a parlare a me stessa in modo amorevole e rispettoso.

Il senso profondo del perdono cristiano non me lo hanno insegnato le suore; l'ho imparato da un laico che crede nella vita - l'unica fede, per coloro che mettono Dio nell'ordine delle possibilità, non delle certezze: "Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno". Non sanno quello che fanno: non c'è colpa; piuttosto, non c'è consapevolezza, è questo il fatto che può produrre tragici errori.

Avrei voluto avere dentro di me "le solide basi indistruttibili"(3) che si costruiscono nel cuore di un bambino che sperimenta la protezione, la sicurezza, l'amore.
Non è stata questa la mia storia. La mia solida base indistruttibile, oggi, è la consapevolezza del vuoto, della solitudine, della desolazione irreparabile in cui ho trascorso la mia infanzia. E' questa la mia storia, non c'è niente altro a cui appoggiarmi. Ma, a partire da questo, so che posso contare sempre su di me, come si conta su una buona madre.

Cammino sulla spiaggia, respiro, guardo il cielo, e davanti alla misteriosa infinità del mare mi vengono in mente le parole di Melville: "Sì, eravamo adesso in quella calma incantata che dicono si nasconda nel cuore di ogni tempesta".

Alba


1. F. Guccini, Piccola Città
2. C. Dickens, Oliver Twist
3. L. Tolstoj, Guerra e pace

LA SECONDA PARTE DI QUESTO TESTO E' STATA PUBBLICATA - vai alla seconda parte

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