Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

venerdì 30 ottobre 2009

Appartenenza, religione e televisione

Parlando di convinzioni religiose si corre sempre il rischio di dimenticare una verità molto importante. Una verità che non turba i non credenti superficiali e superficialmente “anti-qualcosa” e che non turba nemmeno i bigotti impermeabili al dubbio. Questa verità scomoda si articola in due parti, perfettamente simmetriche:
a) i non credenti, pur trovando inquietanti e detestabili i dogmi, i tabù e i rituali delle persone religiose dovrebbero ricordare che, nelle persone religiose, molti sentimenti autentici risultano strettamente collegati alle convinzioni religiose;
b) i credenti, pur trovando inquietante e detestabile la “mancanza di certezze” o la “amoralità” dei non credenti, dovrebbero ricordare che, nelle persone non religiose, molti sentimenti autentici sono alla base del loro rifiuto delle convinzioni affermate dalle religioni.
Costa fatica tener presente il fatto che le idee (per noi) più assurde, una volta assorbite da una persona e convogliate in un particolare progetto di vita, possano mescolarsi ad una sensibilità umana profonda. Eppure questo sforzo va fatto per non cadere in polemiche sterili, che producono sofferenza.

Io cerco di fare questo sforzo proprio ora, perché nelle righe che seguiranno sarò tagliente, spietato. Non per una rabbia gratuita, ma per un’insofferenza profonda, soppesata, valutata, che considero ragionevole e che intendo coltivare. Voglio però precisare, qualora non risultasse chiaro dall’insieme del post, che ciò a cui mi oppongo e che francamente detesto sono certi atteggiamenti, pensieri e comportamenti. Tutte cose manifestate da molte persone, ma che non considero essenziali in tali persone [cfr. il POST L’intolleranza verso “gli altri”].
Persone che per me restano rispettabili anche quando agiscono in modi che non rispetto.
Persone rispettabili anche quando fanno del male a bambini indifesi o a me o ad altri adulti che sanno come difendersi.
Persone che restano sacre perché resterebbero le persone che sono se modificassero il loro modo di pensare e di agire. Ho fatto, ovviamente molti errori anche io e per me ho un rispetto assoluto, sia quando mi congratulo per una scelta che trovo apprezzabile, sia quando mi rendo conto di aver fatto ciò che non rifarei.

In altre parole non voglio concedermi il “gusto” della polemica, dato che trovo gusto solo nella sintonia. Sarò polemico perché penso che certe violenze gravi, anche se normalmente considerate di scarso rilievo o addirittura apprezzabili, vadano smascherate e (auspicabilmente) fatte vacillare.
Nel gusto della polemica si mira a far vacillare le persone. Io spero solo di far vacillare alcune idee e di incidere, per quanto possibile, su atteggiamenti e comportamenti che mi preoccupano.

Vita, morte, possibili piani di esistenza spirituali e trascendenza, sono temi importanti che però non sono davvero presi sul serio. In genere non sono presi sul serio nemmeno dalle persone che ne parlano spesso.
Negli insegnamenti scolastici, nella divulgazione scientifica e nella cultura religiosa sono decisamente marginali i riferimenti a tutte le discipline che possono illuminare sulle risposte ragionevoli alla domanda fondamentale: “c’è vita oltre la vita che conosciamo?”. Tali discipline, come la parapsicologia, la psicologia degli stati di coscienza non ordinari, l’ipnosi regressiva, le tradizioni esoteriche, ecc. sono delle vere Cenerentole ai margini della scienza, della filosofia e della stessa cultura religiosa.
Quando si nutre un reale interesse per un argomento, si studia, si impara, ci si confronta davvero con i fatti e con i ragionamenti pertinenti. Purtroppo, l’interesse per la conoscenza di ciò che unisce o separa la nostra vita e la nostra morte è quasi inesistente, mentre è dominante l’interesse per l’appartenenza a qualcosa, per l’acquisizione di un’identità condivisa, per l’ottenimento di un riconoscimento sociale.

I credenti delle varie religioni hanno un attaccamento emotivo fortissimo alla loro religione, ma spesso non sanno di cosa si tratti.
Sia i cattolici più devoti, sia gli islamici, sia i fedeli di altre religioni non hanno la più pallida idea del motivo per cui non dovrebbero essere anglicani o del motivo per cui tanti inglesi considerino ragionevole far parte di tale chiesa.
I cattolici non sanno quasi niente del cattolicesimo e i musulmani sanno quasi tutto del Corano perché ne imparano dei pezzi a memoria, ma non sanno per quali ragioni proprio nel Corano e non nei Veda o nella pubblicità della Coca Cola si possa trovare il messaggio divino.

La religione “accettata” è, nella stragrande maggioranza dei casi, un sistema di risposte a domande non fatte che blocca ulteriori domande. Per questo, le religioni, così come si esprimono nelle vite reali delle persone reali, sono delle forme di nichilismo rivestite di parole misticheggianti.
I cattolici si considerano tali perché non sanno come pensarsi senza quel vestito stretto che hanno indossato negli anni dell’infanzia. Potrebbero definirsi sulla base di altre convinzioni, ma per avere altre convinzioni (o le stesse, ma davvero “con convinzione”) dovrebbero interessarsi, appunto alla loro vita, alla loro morte, alla possibilità di sopravvivere alla loro morte o alla possibilità di esistere già ora anche a livelli non materiali di esistenza, oppure alla possibilità di esistere in una finitezza esclusivamente umana (e di dover trovare in tale finitezza delle ragioni per agire in certi modi o in altri). Potrebbero farlo, se a loro interessassero tali problemi. Non avendo quindi interesse per questi problemi, ma per la loro identità sociale, si definiscono credenti nel modo in cui tutti nel loro paese sono credenti e (di riflesso) credono alle soluzioni teologiche date a problemi che non si sono mai posti.

In realtà io non trovo niente di male in questo disinteresse: infatti, ad esempio, io non ho né interesse per il baseball, né conoscenze sull’argomento e non vedo cosa ci sia di sbagliato in un eventuale disinteresse per la reincarnazione o per l’etica protestante. Tuttavia non dichiarerei mai di essere un appassionato di baseball né farei sentire esclusi e rifiutati i bambini più propensi a giocare a nascondino che a dare delle legnate su una palla. Ecco il punto: ciò che mi irrita non è il (legittimo) disinteresse, ma il “disinteresse militante”, cioè l’apparente interesse per qualcosa e la mania di imporre idee confuse agli altri e soprattutto a quelli che sono troppo piccoli per reagire in modo critico.

La gente non vuole sapere niente della vita e non vuole decidere in piena coscienza come vivere. Fa moltissime scelte in modi automatici e correlati a qualche verità assoluta assorbita chissà quando, non vagliata e non realmente accettata. Sceglie e dice di scegliere perché “è normale così”, o perché “lo dice la religione” (quella, ovviamente, della famiglia, della nazione o del continente di riferimento). Se incalziamo le persone con alcuni “perché?”, reagiscono con un’occhiata perplessa (come ad una domanda troppo intima), oppure si arrabbiano perché si sentono costrette a discutere obiezioni “cervellotiche”. Restano però aggrappate a idee altrettanto “cervellotiche”, acriticamente assorbite e che considerano “scontate”, ma che a qualche centinaio o migliaio di chilometri di distanza tutti considerano assolutamente inaccettabili, sulla base di analoghe “giustificazioni”.

La gente non vuole capire quale vita stia vivendo; vuole “star bene”. Purtroppo sta male e pensa di star meglio “appartenendo a qualcosa”. La religione è ancora un ambito di appartenenza, ma comincia ad avere dei rivali altrettanto potenti: la stupidità di massa e il culto dell’estetica (non l’estetica come disciplina filosofica, ma come pratica dell’abbronzatura, del tatuaggio, della dieta, del silicone).
Sia le religioni tradizionali (con le loro verità assolute e la minaccia di un’esclusione e di una dannazione), sia le religioni demenziali contemporanee (con le loro banalità e la minaccia di un’esclusione dal novero di quelli che risolvono i quiz o che sono belli e sexy) rispondono ad un bisogno di riconoscimento, di appartenenza, di conferma. Non rispondono a domande specifiche, ma rispondono (in ritardo) a domande implicite che, guarda caso, sono le stesse domande che si fanno tutti i bambini: “cosa devo fare per sapere che non mi abbandoni?”.

La cultura occidentale ha fallito. Non ha combattuto le religioni nell’unico modo possibile, cioè favorendo una genuina curiosità per la conoscenza e garantendo ai bambini esperienze di sicura appartenenza. Non ha curato la crescita dei bambini, ha scoperto tante cose sui virus e sull’astrofisica, ma non ha capito come i bambini possano diventare uomini e donne compiuti, integri, bisognosi di esprimersi anziché di essere riconosciuti.
Ha quindi prodotto, nei secoli, generazioni di nuovi adulti psicologicamente incerti, moralmente deboli, socialmente fragili, che hanno trovato nella religione un’appartenenza accogliente, sicura. Quasi sicura: cioè “sicura a certe condizioni”. E tali generazioni hanno sottoscritto (come dei bambini) qualsiasi condizione pur di non sentirsi smarriti. In Italia si sottoscrive la santissima trinità e in Iran si sottoscrive il ramadan. Qui nessuno si chiede perché dio sia uno e trino (e non uno e basta) e in Iran nessuno si chiede perché dio sia contento se qualcuno sta senza mangiare per molte ore. Qui e là nessuno si chiede perché dio sia così capriccioso da volere obbedienza come un genitore autoritario e perché sia così vendicativo da non perdonare per l’eternità.
Gli adulti, quando si sentono incalzati dal bisogno di appartenere a un gruppo, non fanno e non si fanno domande. Firmano tutto, pur di non essere nessuno, pur di non sentirsi soli come quando da bambini erano “cattivi” e non riuscivano a ritrovare uno sguardo dolce o un abbraccio.

La cultura occidentale ha in qualche misura messo in discussione le religioni, soprattutto la religione cattolica, sulla base di argomentazioni scientifiche o filosofiche, senza comprendere bene, però, che la religione in questione non era una teoria da giustificare o da contestare, ma un riparo per chi aveva paura della solitudine. La cultura laica o atea occidentale ha combattuto la religione come il barbiere che taglia i capelli: i capelli crescono dalla radice e non dalla punta e i capelli spuntati ricrescono, nonostante le varie “potature”. I cattolici possono restare un attimo perplessi se certi ragionamenti fanno traballare i loro dogmi, ma restano cattolici perché tali sono per necessità, non per convinzione.

Se i cattolici annacquano la loro religiosità o la perdono del tutto non lo fanno in genere in seguito ad una riflessione sui contributi intellettuali di Bertrand Russell o di Marx o di Wittgenstein, ma dopo aver trovato sicurezze altrettanto forti, altrettanto semplici e altrettanto solide: la possibilità di guardare lo spettacolo televisivo più “condiviso” allo scopo di “rientrare” nella grande famiglia dei telespettatori. I fedeli della “nuova religione” arrivano a casa e accendono la TV prima di andare in bagno, per essere sicuri di non doversi chiedere che cosa ci stanno a fare in quella casa, da soli o con altri. Anche la nuova religione, tuttavia, chiede qualcosa in cambio della “magia”: chiede rituali di conferma dell’appartenenza, cioè tutte quelle operazioni che non rendono “santi” ma rendono “affascinanti” (la crema per non invecchiare mai, il taglio di capelli “giusto”, il tatuaggio sul bicipite o sul culo).

La cultura laica e occidentale non ha coltivato la curiosità, l’amore e la solidarietà fra gli adulti e non ha garantito sicurezze ai bambiini perché si è dedicata alla tecnologia, alla potenza degli eserciti, al profitto (di pochi), alla produzione di oggetti da sprecare. Ha lasciato “l’anima” (e le emozioni) alla religione e questa (anzi queste, ognuna a modo suo, in ogni società malfunzionante e disumana) ha dato garanzie all’anima e ha proposto procedure di sicurezza convalidate. Procedure consistenti nel controllo, nella rinuncia alla felicità possibile, nell’esaltazione della sofferenza. Tutte forme di ostilità per la vita chiamate “amore”. La religione ha così garantito sempre una sensazione di appartenenza ad un prezzo accettabile.
Le nuove religioni però guadagnano fette di mercato consistenti con le “svendite”: compri tre e paghi due, cioè ottieni la stessa sensazione di essere parte di un tutto senza rinunciare alla superficie del piacere. Nei “saldi”, nei “prezzi stracciati” della nuova religione postmoderna, si può scopare anziché controllare gli ormoni: basta farlo in modo “togo”, farlo sapere a tutti, assomigliare a “quelli della foto” o a quelli del reality. Ci si controlla lo stesso, ma ci si controlla solo a monte, nei sentimenti, perché “a valle” ci si può lasciare andare (con gesti sexi, parolacce, sbronze, tante risate e pacche sulle spalle).

Le religioni tradizionali erano (e sono) guidate da persone fondamentalmente convinte delle verità predicate (rassicuranti per loro stesse) e fondamentalmente sottomesse alla stessa legge. Persone inconsapevoli di evitare la loro “umanità” profonda e convinte di essere “se stesse” facendo dei sacrifici (inutili). La nuova religione è guidata da persone altrettanto inconsapevoli e convinte, ma che evitano la loro “umanità”, facendo un sacco di soldi con pubblicità e contratti commerciali. A differenza dei vecchi sacerdoti che si sacrificavano (quasi tutti) con i fedeli in nome della rinuncia, i nuovi sacerdoti sanno di fregare i fedeli spennandoli come polli, ma non sanno proprio perché lo facciano. Se lo sapessero vivrebbero meglio anche loro.

La cultura islamica ha ragione a temere “il male dell’occidente”, la mercificazione di tutto, l’esibizione della sessualità come strumento di autoaffermazione illusoria, l’annullamento dei legami profondi famigliari e amicali. Come antidoto però propone, con alcune varianti, le stesse cose “tradizionali” del cattolicesimo: la “esibizione del pudore”, l’impasto colloidale dei legami famigliari, il controllo della spontaneità, l’indottrinamento dei bambini, l’idea di avere tutto “dopo” rinunciando a tanto adesso [cfr. il POST Pregiudizi e giudizi sulla religione islamica].
Non può farcela. I saldi di fine stagione della (in)civiltà postmoderna, globalizzata, sono più “vantaggiosi” SE le persone non stanno bene con loro stesse, SE non sono cresciute bene in una famiglia vera.
Gli islamici di terza generazione cresciuti in occidente, abbandoneranno la religione di Maometto e aderiranno a quella della demenza estetizzante, della competizione, della pubblicità. Infatti, i bambini islamici, come quelli cattolici, vengono indottrinati, minacciati e rassicurati solo a condizione di rattrappirsi e di diventare buoni e puri. Divenuti adulti, cercheranno nuovamente di diventare qualcosa (non loro stessi) per trovare nuove rassicurazioni; si accontenteranno di un’apparenza di accettazione e preferiranno una religione che li farà rattrappire solo un po’. Diventeranno quindi molto facilmente dei normali adoratori della religione del nulla, dell’apparenza, del “giorno dopo giorno”, del “finché le tette sono dure ho speranza” o del “finché ho i muscoli valgo qualcosa”. Il mondo dei ricchi che piace ai poveri e in cui ricchi e poveri non sanno che cazzo fare dalla mattina alla sera.

Viviamo in un mondo senza passioni e senza un futuro collettivo. Non credo che in passato andasse meglio: basti pensare al nazismo, all’imperialismo, alle crociate, alla decadenza dell’Impero Romano. Da sempre cerchiamo di non sentirci piccoli e fragili e cerchiamo in qualche “grande famiglia”, la famiglia che ci è mancata. Da sempre cerchiamo un “non futuro” collettivo per sentirci immediatamente meno soli, anziché accettare le nostre sensazioni di solitudine e costruire realistici momenti di incontro. Da sempre non osiamo riempire la nostra vita di ciò che amiamo, perché da sempre cerchiamo solo di sentirci amati e di sentirci accolti e rassicurati.
Qualsiasi religione va bene per questo scopo. Si sceglie la religione del posto, quella frequentata nel quartiere della casa dell’infanzia. Ma si può scegliere anche la religione della scatola che sta nella cucina, nel salotto e nella camera da letto della nuova casa in cui si abita. Lì, nella scatola tutti sono contenti. Se sono incazzati sono contenti di esserlo. Se sono confusi forse avranno un’altra possibilità su un altro canale. Lì si ride tutti assieme, anche se in casa non c’è nessuno o se c’è qualcuno che, nell’altra stanza, guarda un’altro programma. Lì si impara cosa fare e cosa non fare. Si è parte di un mondo ipnotico che implica l’ovvietà e non deve quindi dimostrare alcuna verità.

I bigotti nostrani reclamano un ritorno alla religione e chi è cresciuto in altri paesi sotto l’ombrello di altre religioni rivendica un’appartenenza a valori più profondi di quelli del consumismo, della stupidità organizzata, del corpo giovane e bello, del tempo ammazzato e mai vissuto.
I seguaci di tutte le religioni “storiche” si scandalizzano di questa ossessiva ricerca del piacere proponendo una vita di rinunce, di ordine e di controllo. NON CAPISCONO che la postmoderna cultura del nulla NON è una cultura del piacere, ma una cultura della paura. Della paura di non essere accettati, di non andar “bene”, di non essere qualcuno (ed è “qualcuno” chi va in TV a far finta di essere qualcuno).
Non capiscono che questa cultura del nulla è una cultura terrorizzata e terroristica come la loro cultura religiosa. I seguaci delle vecchie religioni, per capire davvero la nuova religione dovrebbero capirsi.

La cultura della paura (cioè quella dell’appartenenza al popolo di dio o al popolo della TV) è una cultura che non rispetta il piacere, la conoscenza e le persone. Tale cultura è violenta perché porta a diffidare di se stessi, a cercare una legge in vecchie pergamene o in nuovi telecomandi, anziché nella compassione e nell’amore per la propria vita e per quella degli altri.

Hannah Arendt ha stigmatizzato la “banalità del male” analizzando la mentalità semplice e l’ottusità emozionale di un esecutore meticoloso della follia sterminatrice nazista (H. Arendt, 1964, La banalità del male, trad. it. Feltrinelli, Milano, rist. 2009).
Qualcuno dovrebbe fare la stessa cosa per la “banalità” delle religioni, che propongono una solidarietà giustificata dalla paura anziché dall’empatia e che cercano di “placare” il senso di precarietà che attraversa l’esistenza umana con norme “spirituali”, che non sono altro che diete bizzarre, caricature della bontà, rinunce incomprensibili e disprezzo per il piacere, il sesso, il gusto della vita.
Qualcuno dovrebbe fare la stessa cosa anche per la religione del nulla, della postmodernità mediatica, della misurazione del corpo e della “dismisurazione” delle sciocchezze. Una religione che con l’adorazione dell’apparenza e la speranza di un’eternità fugace in uno spot o in un reality o in un incarico parlamentare concepito come ambito di visibilità, richiede sacrifici immensi: la rinuncia ad un’identità personale, ad una storia condivisa, ad una consapevolezza di ciò che si è anche quando nessuno applaude.

Gianfranco

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