Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

giovedì 8 ottobre 2009

Pregiudizi e giudizi sulla religione islamica


Truman (da bambino) - Voglio fare l'esploratore, come il grande Magellano.
Maestra - Oh, è troppo tardi! Non c'è più niente da esplorare!
(P.Weir, The Truman Show)


Elisa ha “recensito alcuni libri di Oriana Fallaci, sia apprezzandone la provocatoria e scomoda spinta critica, sia evidenziando alcuni aspetti discutibili [cfr.il POST Oriana Fallaci, la cultura islamica e la sinistra]. Io farò lo stesso per un volume altrettanto di parte (di parte opposta) manifestando sia i miei apprezzamenti, sia i miei dissensi.
Il libro, scritto nel 2003 (Edizioni Erickson, Trento) ha un titolo molto intrigante: L’anti-islamismo spiegato agli italiani. Ovviamente, per spiegare l’anti-islamismo e per dimostrare la sua inconsistenza i due Autori si sono presi l’onere di chiarire nel modo più accurato possibile (dal loro punto di vista) la natura specifica dell’islàm e la sua irriducibilità a ciò che spesso si ritiene che sia.
Le posizioni che esprimerò sono simili a quelle degli altri bloggers che hanno firmato il post L’intolleranza verso “gli altri” e che pubblicheranno altri contributi. Le nostre idee non rappresentano necessariamente le idee di tutti quelli che collaborano al blog, anche se alcuni punti fondamentali, di carattere generale contenuti nel nostro “manifesto” sono condivisi da tutti [cfr. il POST C’erano una volta la destra e la sinistra].

Veniamo al libro. Il testo in questione, davvero pregevole per molti aspetti, è stato scritto da un professore di psicologia dell’Università di Padova (Sadi Marhaba) e dalla moglie, una pedagogista e mediatrice culturale (Karima Salama). Il libro riguarda l’anti-islamismo inteso come “odio contro l’islàm e gli islamici” e quindi non mi riguarda personalmente, dato che non odio né l’islàm né gli islamici, pur essendo preoccupato per le ideologie religiose (anche non islamiche) e per i conflitti interiori che certe forme (prevalenti) di educazione famigliare determinano (in occidente come in altre culture) e che (tutte) le religioni rinsaldano. Ciò che auspico (senza coltivare illusioni in proposito) non è quindi un clima di ostilità nei confronti dei musulmani o dei fedeli di qualsiasi religione, ma un radicale, intransigente e conseguenziale laicismo da parte dello Stato.

Non tento nemmeno di riassumere il volume, di cui consiglio la lettura, perché è articolato come un manuale ed è una miniera di distinzioni concettuali, precisazioni terminologiche e definizioni, assolutamente necessarie per una comprensione di ciò di cui realmente si sta parlando quando si parla dell’islàm (con l’accento sulla “a”, tanto per cominciare), dato che di tale realtà in genere si parla confusamente e, purtroppo a volte, con atteggiamenti rozzamente svalutativi. Trovo sostanzialmente valide le definizioni di integralismo, fondamentalismo e tradizionalismo suggerite dagli Autori e per tali concetti rinvio al testo.

Una cosa particolarmente condivisibile è la sottolineatura che gli Autori fanno di alcuni aspetti della cultura e della storia islamica che scandalizzano molte persone e che tuttavia hanno il loro corrispondente nella cultura cattolica: il velo (hijàb) dà fastidio a persone che però trovano del tutto appropriato nell’abbigliamento delle spose un’analoga “velatura”, o che trovano del tutto naturale l’analogo occultamento dei capelli fatto dalle suore e voluto dalla gerarchia ecclesiastica. Anche gli ovvi richiami alle teocrazie cristiane o alle guerre o alle persecuzioni realizzate in nome del cristianesimo sono svolti con cura. Per gli Autori, ovviamente, quelle sottolineature degli errori altrui sono solo delle dovute precisazioni e non delle “giustificazioni” per gli errori compiuti da persone di fede islamica o da Stati a maggioranza islamica. Mi concentrerò quindi sull’esame del “nocciolo buono” dell’islàm che gli Autori con tanta cura vogliono isolare dalle deformazioni integralistiche e fondamentaliste.
Dando per scontato che ci siano tante brave persone di fede islamica, come ci sono tante brave persone di fede cattolica o di altre fedi o di nessuna fede, cercherò di capire se la religione islamica aiuti le persone o le ostacoli nel loro essere “brave persone” (e soprattutto ad essere libere, “intere”, capaci di esprimere le loro potenzialità). Questo è il punto a cui mi atterrò e solo per questo non perderò tempo a scandalizzarmi per ovvie bestialità come il terrorismo, i regimi dittatoriali fondametalisti, le lapidazioni, le fustigazioni e cose di questo genere. Cercherò quindi di capire il cuore del problema più che di “infiammare gli animi” e articolerò in cinque punti le mie considerazioni.

1) Il primo punto è un punto di forza e anche di debolezza dell’islàm. “Nell’islàm non esiste un’autorità religiosa centrale riconosciuta da tutti i musulmani del mondo, come il papa per i cattolici” (p. 27), tuttavia “Se uno dice ‘io sono islamico (o musulmano)’ si riferisce non solo alla religione che egli professa, ma anche a una comunità sovranazionale, costituita da quel miliardo e duecento milioni di persone, alla quale egli sente di appartenere” (p. 26). Tale comunità sovranazionale d’appartenenza è indicata dalla parola “umma”. Ora, questa doppia appartenenza crea un problema, che si aggiunge all’altro evidenziato dagli Autori, cioè il fatto che “L’islàm non cura la propria immagine (…) L’islàm, quello vero, è paziente, o indifferente o assente. Neppure si difende” (p. 14). Gli Autori, quindi, distinguono un islàm “autentico” da molte versioni autoritarie o violente della stessa religione; poi precisano che in tale religione non è presente la tendenza a ripudiare le manifestazioni peggiori della fede e a distinguere con decisione ciò che è autentico da ciò che non lo è.
Data questa situazione i musulmani dovrebbero avere un po’ di comprensione quando alcune persone confondono l’islàm autentico con quello non autentico sbandierato dai personaggi violenti e intolleranti. Dovrebbe essere loro onore ed onere far capire il vero, se il vero è occultato dai travisatori ciarlieri della verità. Tuttavia, l’altro problema complica ancor di più le cose. Se questo islàm autentico, mite, tollerante e ragionevole non è definito da nessuna autorità, né è distinto da deformazioni inappropriate (e quindi inaccettabili) e soprattutto se implica anche l’umma, cioè l’appartenenza all’intera comunità islamica che include legittimamente tutti i credenti (e quindi, anche gli interpreti integralisti e autoritari del Corano), manca una base solida su cui identificare l’autentico islàm.
Come si può legittimamente protestare con chi fa di tutte le erbe un fascio se si ammette il fascio (l’umma) e si dichiara che tutte le interpretazioni del Corano hanno la stessa legittimità? I cattolici del dissenso avevano almeno un punto di riferimento: accettavano i dogmi del cattolicesimo e rifiutavano tutta l’ideologia politicamente reazionaria e moralistica della chiesa cattolica e la logica di potere del Vaticano. Gli islamici non sono in grado di fare questo e sembra non vogliano nemmeno fare ciò che è possibile, cioè una forte opposizione a tutte le interpretazioni integralistiche e fondamentaliste del Corano. Questo è un problema (non risolto) degli islamici e anche difficile da risolvere: la mitezza diventa accondiscendenza a quelli che strillano di più nell’islàm. E qui veniamo al secondo punto.

2. Il Corano raccoglie le rivelazioni divine a Maometto verificatesi circa millequattrocento anni fa. Dopo la sua morte si ebbe una trascrizione sistematica dei contenuti tramandati oralmente e in parte per iscritto (cfr. Paolo Branca, Il Corano, Il Mulino, Bologna, 2001). Il secondo pilastro della fede musulmana è costituito dalla Sunna, cioè la raccolta di detti e fatti della vita del profeta (circa quattromila), tramandati oralmente e trascritti in modo organico nel IX secolo.
Gli Autori ricordano che, se il Corano e la Sunna sono le due fonti essenziali dell’islàm, anche la Sharìa ha però molta importanza, perché costituisce il “frutto di un lungo e complesso lavoro di giuristi e teologi che interpretarono il Corano e la Sunna fra il 1000 e il 1400. La Sharìa, che “risente inevitabilmente dell’epoca ormai da noi lontana in cui fu edificata” (p. 99) prevede pene crudeli e offensive per il nostro senso della giustizia, come l’impiccagione, la fustigazione per il reato di adulterio, l’amputazione della mano per chi commette furto, ecc. Gli Autori sottolineano che l’aggiornamento della Sharìa costituirebbe un naturale sviluppo interpretativo dei testi sacri, ma tale possibilità incontra degli ostacoli. Sia per l’assenza di un’autorità indiscussa per l’islàm (come il papa per il cattolicesimo), sia per la presenza di un comune accordo (stabilito circa nel 1400) relativo alla immodificabilità della Sharìa stessa.
Gli Autori spiegano bene a noi occidentali che quel testo, umano come tanti altri è modificabile, ma non riescono a spiegarlo ai musulmani. “Il tema della Sharìa rimane un tasto delicatissimo. Il permanere immutato della lettera della Sharìa è una zona fragile dell’islàm odierno, perché il continuo richiamo ad esso da parte degli integralisti pseudoislamici non può essere adeguatamente –‘legittimamente’- contestato dalla stragrande maggioranza degli islamici non integralisti; e ciò facilita l’identificazione fra islàm e integralismo agli occhi del mondo. E’ un grande problema. Ma per ora, e nessuno sa fino a quando, non si può fare niente. O meglio, i non musulmani non possono fare niente. Se non, almeno, conoscerlo nei suoi giusti termini” (p. 101).
Questa lunga citazione andava fatta per rendere giustizia allo spirito di pace e fratellanza che anima i due Autori, ma purtroppo proprio dalla loro analisi si evince che sono del tutto ragionevoli le posizioni delle persone che non credono ad una distinzione fra un islàm integralistico e un islàm “buono”. Almeno in attesa (“non si sa fino a quando”) di una ridefinizione di alcuni punti estremamente importanti dell’islàm da parte della comunità islamica.
L’inclusione di comportamenti barbari, anche se normalmente non messi in atto in stati non fondamentalisti e integralisti, contenuti nella Sharìa e considerati “immodificabili”, ostacola la convinta partecipazione dei musulmani ad uno stato laico (e favorisce la diffidenza nei loro confronti): in uno stato laico chiunque in nome della Sharìa tagliasse una mano o frustasse una donna “adultera” dovrebbe andare in galera, ma ciò non sarebbe approvato dalla religione, se questa ha norme “prevalenti” rispetto a quelle dello stato. Una religione che prevede punizioni per certi comportamenti non è una fede religiosa che esprime un punto di vista etico (discutibile ma legittimo): facendosi carico dell’applicazione della giustizia, si definisce come Stato. Di fatto, uno Stato nello Stato. Questa situazione rende poco plausibile la presentazione di una religione islamica “pura” ben distinta dalle sue “deformazioni” integralistiche e fondamentaliste “pseudoislamiche”, dal momento che quella ufficialmente pura e immodificabile è un incubo. In pratica, se si legge questo libro sperando di placare le inquietudini provocate dai testi della Fallaci si diventa ancor più preoccupati.
Con queste considerazioni arrivo al terzo punto di queste riflessioni.

3. Con intelligenza e competenza gli Autori ci ricordano che anche l’Occidente non può essere l’esempio migliore di un laicismo compiuto. E su questo non posso che essere d’accordo, dato che devo sopportare il peso dei Patti Lateranensi in Italia (solo minimamente “ritoccati”) e anche l’idea che l’Inghilterra abbia una regina che è capo della chiesa anglicana. Fino a poco tempo fa l’Unione Sovietica proclamava l’ateismo di stato (con l’unico risultato di spingere verso la religione tante persone giustamente scontente di questo integralismo burocratico). Oggi come oggi, a due passi da Roma c’è uno stato religioso (il Vaticano) non meno teocratico degli stati fondamentalisti islamici. Il punto però non è questo: non si è meno ladri se rubano in tanti. Andiamo quindi al nocciolo del problema per capire se l’islàm sia davvero una religione caratterizzata da convinzioni discutibili, ma legittime, ben distinta da qualsiasi “deformazione” integralista o fondamentalista. Gli Autori ammettono che la religione islamica “riguarda, oggi come in passato, tutti gli aspetti della vita, da quelli individuali e privati a quelli familiari, sociali e giuridici, per cui la religiosità come fatto ‘solo privato’ è un concetto ostico per il musulmano” (p. 96).
Lo dicono gli Autori. Il concetto di laicismo è “ostico”, così come per i razzisti è “ostico” il concetto di integrazione fra etnie diverse. A me risulta “ostico” il tentativo di evitare il nocciolo dei problemi, e il nocciolo del “problema islàm”, sembra proprio essere il terrore di qualsiasi cosa non voluta da Allah, secondo la parola del Profeta, secondo l’interpretazione della Sharìa, manifestata nelle tradizioni, trasmessa dalla famiglia, imposta ai bambini e immodificabile perché Allah è clemente e misericordioso, ma veglia su di noi e nella sua misericordia ha preparato l’inferno per chi non gradisce tanta misericordia. Per prevenire l’inferno, quindi per salvare i bambini occorre controllarli, punirli, fare in modo che non cadano in tentazione, che non facciano nulla di ciò che provocherà punizioni atroci.

Una religione della paura è una religione violenta, anche se non incita al terrorismo, perché, alimentando la paura del peccato deve organizzare la vita di tutti in modi “adeguati”. Quindi niente laicismo, niente pluralismo, niente ricerca della verità (che è già nota), ma l’imposizione (o la “calda raccomandazione”) di norme, rituali, distanze rassicuranti, controllo. In parole povere l’imposizione di una vita morta.
La religione, tuttavia, non è tutto nella vita delle persone e i musulmani, come i cattolici, come i fascisti non riescono mai ad essere del tutto convinti di ciò che professano, né completamente assorbiti o plasmati dalla loro “fede”. Persone come gli Autori di questo libro sono animate da un sincero desiderio di ridurre all’osso la loro religiosità, che evidentemente è una religiosità in cui fanno confluire sentimenti e valori apprezzabili (e condivisibili da tanti non credenti). La religione che professano è però un incubo e più la difendono, più finiscono per demolirla agli occhi di chi ascolta e che magari vorrebbe trovare dei punti di contatto. L’amore, il sesso, i sentimenti di fraternità, di rispetto, di amore, sono (fortunatamente) molto forti nelle persone e in qualche modo trapelano nonostante le convinzioni religiose (tradizionaliste o “ammodernate”) più insopportabili. Non grazie ad esse, ma “nonostante” le pressioni che esse fanno.
Questo è il motivo per cui non ha senso un’opposizione all’islàm: l’islàm è fatto da persone, non da carte vecchie, dogmi bizzarri e norme assurde. Le persone vanno rispettate e proprio per rispetto alle persone occorre discutere, discutere e discutere ancora, non combattere. Occorre combattere le persone (islamici, cattolici, fascisti o di qualsiasi “parrocchia”) solo quando fanno cose inaccettabili e questo è possibile solo se si vive in uno stato compiutamente laico, che legifera sulla base del bene comune e non sulla base di ciò che qualcuno ha ritenuto che secondo dio fosse il bene comune.
Ho accennato ai sentimenti di rispetto e di amore e quindi sono già in tema per esaminare le riflessioni sul rapporto uomo-donna nell’islàm, partendo dalle considerazioni dei due Autori.

4. Per gli Autori, l’idea che la donna sia considerata nell’islàm come un essere inferiore è uno dei pregiudizi sui quali va fatta chiarezza. Bene. A me piacerebbe moltissimo che questo fosse un pregiudizio perché mi sentirei immediatamente più vicino a un miliardo e duecento milioni di persone e capirei di dovermi preoccupare solo di una piccola parte di loro. Poiché mi sta stretta la misoginia del cattolicesimo (che impedisce alle donne di essere sacerdotesse, che mette il “velo” alle suore e non ai preti, che esalta la verginità (presunta) della madre di Gesù, ecc.), sarei davvero felice di avere un miliardo di fratelli e sorelle con cui sentirmi “a casa”. Vediamo quindi se c’è un pregiudizio da demolire.
Gli Autori partono da lontano, sottolineando che il maschilismo non va confuso con la “misoginia” (cioè l’odio dell’uomo per la donna). Distinzione necessaria, ma irrilevante per chi detesta entrambi gli atteggiamenti. Essi sottolineano inoltre che non solo nell’islàm, ma anche nell’ebraismo, nel cristianesimo e in molte religioni c’è un certo “sbilanciamento” sociologico verso l’uomo. (cfr. anche: M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2005, p.179 e segg.) Sottolineatura necessaria, ma non rassicurante. In ogni caso, al di là dei condizionamenti sociologici, gli Autori ricordano che “Nel Corano viene affermata l’assoluta uguaglianza fra uomo e donna, sia rispetto a Dio sia nei rapporti fra l’uno e l’altra” (p. 127) e che questa affermazione incise in modo rivoluzionario nella cultura della penisola arabica in cui le donne non avevano alcun valore. Se prima di Maometto la situazione era peggiore, sicuramente il Corano ha costituito un passo avanti, ma gli Autori non citano molti passi del Corano a sostegno di questa idea “rivoluzionaria”. Sono andato quindi a guardare il testo e purtroppo ne ho trovato uno non particolarmente “rivoluzionario”: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri” (Il Corano, IV sura, versetto 34). Forse si può dire che la frase va “contestualizzata”. A me sembra un’affermazione di principio, anche se inserita in un contesto particolare (si parla delle eredità e di altre cose), ma se vogliamo approfondire il contesto, le cose vanno peggio. Proseguo la trascrizione del versetto fino alla fine: “e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; ché Iddio è grande e sublime”. Per fortuna! Se non fosse stato sublime che avrebbe detto sulle donne? Quando gli Autori, che conoscono sicuramente il Corano meglio di me, hanno scritto “Nessun versetto del Corano assegna all’uomo, in quanto tale, una superiorità intrinseca sulla donna” avrebbero dovuto almeno citare questo versetto e spiegare un eventuale significato “profondo” o “molto contestuale” capace di rovesciare il senso della lettura. In assenza di tale spiegazione (che francamente stento a immaginare), gli Autori non sciolgono il nodo della questione.

Proseguiamo; “un detto del Profeta afferma che la donna ha il diritto di essere soddisfatta sessualmente al pari dell’uomo. Pensando a come era la società umana 1400 anni fa, anche in Occidente, si tratta di un’affermazione rivoluzionaria” (p. 132). Avrei gradito la citazione della sura e del versetto, ma posso credere alla parola degli Autori. Infatti essi dicono il vero anche precisando che “non vi è assolutamente alcun accenno nel Corano e nella Sunna, a interventi sul corpo della donna (infibulazione, eccetera) che inibiscano la sessualità femminile” (p. 132 e p. 144). Nonostante questa corretta affermazione, purtroppo dobbiamo tener presente che nei paesi in cui tali tradizioni barbare esistono, l’islàm non ha sradicato tali usi, ma li ha “integrati”. E questo, per una religione “rivoluzionaria” non è un punto a favore.

Al di là di questi problemi di principio o del tutto contingenti (come l’infibulazione) anche se gravissimi, resta il problema generale del rapporto fra i due sessi.
La donna è soggetta alla legge islamica che, ad esempio, respinge l’aborto se non c’è pericolo di vita (cfr. p. 134), e in ciò l’islàm conferma la soggezione della donna ad una legge come il cattolicesimo. Per entrambi i sessi, invece, il Corano consente il divorzio, ma non l’adulterio. Con questa precisazione, gli Autori cercano di sottolineare l’uguaglianza affermata fra i due sessi (almeno in questo ristretto ambito), ma indicano un guaio più grosso: sia gli uomini, sia le donne non sono persone che scelgono, decidono, valutano, ma che agiscono o secondo la legge o contro la legge.
Sulla questione della poliginia (cioè la poligamia maschile) gli Autori forniscono dei chiarimenti plausibili e tali da screditare i pregiudizi antiislamici: ai tempi di Maometto, l’autorizzazione a sposare fino a quattro donne si giustificava con il fatto che in tal modo l’uomo avrebbe protetto i loro figli, orfani di guerra. Se questa è l’origine antica di tale usanza, bisogna riconoscere che non ha come scopo il predominio del maschio sulla femmina. Tuttavia, l’usanza è rimasta anche in tempi di pace e anche in assenza di orfani. Gli Autori fanno poi una considerazione interessante: “la poliginia è oggi seguita da non più dell’1,5% dei musulmani, e in diversi Paesi islamici (come la Tunisia e la Turchia) è proibita per legge” (p. 138). Ciò significa però che nella maggior parte dei paesi islamici non è proibita e che l’1,5% di un miliardo e duecentomila musulmani trova nella religione una giustificazione per tale pratica. Sono tanti! Si moltiplichi per due o tre o quattro (mogli) tale cifra e si ottiene il numero delle donne umiliate in nome della fede islamica.

Contano anche gli esempi personali. Non credo siano decisivi, perché anche un uomo debole può portare un messaggio valido, però ci sono delle “debolezze” difficili da accettare. Gli Autori riportano la questione stando sul vago: “Dopo la morte di Khardìgia, il Profeta sposa la giovane Aisha, che assume anch’essa un ruolo decisivo nella sua vita e nella sua missione” (p. 129). Quanto giovane? Alla pagina web http://it.wikipedia.org/wiki/Maometto troviamo:
“Fra le mogli sposate successivamente la più importante (malgrado non gli desse figli) fu Aisha, figlia di Abū Bakr, che secondo numerose attestazioni in diversi hadith ebbe 6 (o 7) anni al momento del matrimonio e 9-10 anni al momento della prima consumazione (16) e fu con lui fino alla sua morte nel 632 Il Profeta la sposò dopo un ordine divino ricevuto dall'arcangelo Gabriele.”[nella nota 16 indicata nel testo sono riportate le fonti di questa affermazione].
Ora, se volessimo considerare semplici dicerie quelle che fanno pensare ad un abuso e in ultima analisi ad un reato di pedofilia, credo si dovrebbe comunque considerare la gravità del semplice matrimonio con una bambina che le distrugge l’infanzia e l’intera esistenza. Storicizzando la cosa potremmo anche pensare che in quel mondo barbaro certe consuetudini erano la quotidianità e che Maometto ha comunque messo un po’ d’ordine.
In questa prospettiva (decisamente parziale e favorevole a Maometto), si danno due possibilità: a) considerare Maometto un politico del tempo che ha, con la scusa della religione riorganizzato il caos delle tribù nomadi, b) considerare Maometto un Profeta, ma un profeta di un messaggio divino ben diverso dalle istituzioni barbare del tempo in cui è vissuto. Nel primo caso non si è religiosi e nel secondo caso si è religiosi ma si deve urlare al mondo che la pedofilia è una cosa gravissima, che Maometto ha fatto il suo tempo e che il vero messaggio dell’islàm è ben diverso dalle sue prime manifestazioni culturalmente rozze e datate. In altre parole non si deve scrivere che “il Profeta sposa la giovane Aisha, che assume anch’essa un ruolo decisivo nella sua vita e nella sua missione”. Questo modo di scrivere non è giusto. Non chiarisce, ma oscura la verità. Aggirando il problema, gli Autori evitano anche di chiarire come mai all’arcangelo Gabriele sia venuta un’idea così strana oppure a chi sia venuto in mente di dare a tale arcangelo la responsabilità di una cosa di tale gravità.

Con queste perplessità, dobbiamo considerare il problema generale della condizione della donna nella religione islamica. Esso è molto complesso, ma affiora anche nella questione del (tanto discusso) “velo”. Anche in questo caso, gli Autori più si adoperano per spiegare che nell’islàm non c’è alcuna soggezione femminile, più dimostrano il contrario. In pratica riescono a trasformare un eventuale pregiudizio in un meditato giudizio.
Le precisazioni iniziali sono come al solito più che giuste. Il velo (hijab) non è il burqa (quella specie di tuta per sommozzatori che lascia solo una fessura per gli occhi); il Corano non prescrive il burqa, che è da considerare “l’obbrobrio degli integralisti afgani” (p. 141). Bene. Resta dunque il velo (hijab) o il chadòr (un ampio scialle che copre la testa e il corpo): capi di abbigliamento e non “obbrobri”. Bene. Però anche i cappelli dei messicani, le divise dei poliziotti e quelle dei carcerati sono capi di abbigliamento e vengono utilizzati per qualche motivo. Dobbiamo capire quale sia il loro significato e se esso trascende semplici questioni di gusto personale o di funzione protettiva per il corpo.
“Il velo islamico esprime, sotto forma di simbolo sociale ben visibile, il rispetto quasi sacrale dovuto alla donna, e che anzitutto la donna deve a se stessa. Il velo di cui parliamo è quello della tradizione islamica ‘sana’, chiamato in molti Paesi arabi hijàb (dal verbo arabo ‘separare’), cioè un foulard che copre i capelli (considerati una delle principali attrattive femminili), il collo, le spalle e il seno, lasciando scoperto il viso” (p. 139). Gli Autori chiariscono meglio il concetto di questa tradizione islamica “sana” con queste parole: “La dignità quasi sacrale del ‘femminile’, fonte della vita e della religione, deve essere preservata anche e soprattutto all’esterno della famiglia, dove potrebbe essere più facilmente insidiata. Ne consegue che il comportamento della donna con gli uomini estranei deve sempre mantenere una certa ‘distanza protettiva’ e mai deve essere provocante o ambiguo o allusivo. Le attrattive femminili non devono venire esaltate (mediante il trucco, l’abbigliamento, il profumo, eccetera) per gli estranei, ma solo per il marito” (p. 139).

Mi fermo con le citazioni, perché già la reiterazione del termine “deve” chiarisce la marcata normatività di queste istanze religiose “sane”. Tali istanze sono però anche svalutative per le persone: la donna è considerata sostanzialmente una preda (anche se potrebbe essere legittimamente cacciatrice) e l’uomo è concepito sostanzialmente come una bestia (anche se potrebbe essere un intrigante e garbato corteggiatore). Il sesso è sacro, ma solo in famiglia e l’unione della famiglia non è garantita dalla scelta di stare assieme, ma dall’impedimento di “tentazioni” (cosa svilente per i due partner, perché un rapporto di coppia profondo non deve la sua solidità ai divieti, così come l’onestà non si manifesta con l’impossibilità di delinquere).
Devo dire che, pur essendo molto colpito dalle versioni non “sane” dell’islàm, trovo veramente inquietante questa versione “sana”. Devo aggiungere una nota in genere trascurata sia dai difensori, sia dai critici della tradizione islamica. Essa, proprio esaltando la sacralità della donna, fa un torto agli uomini: perché gli uomini devono essere così sviliti nella loro specifica sacralità? La coerenza imporrebbe il velo anche a loro.

5. La tesi del libro che ho esaminato si può sintetizzare, a mio avviso, con queste parole degli Autori: “E’ vero che da qualche anno è emerso con forza un integralismo pseudoislamico intollerante, e che al suo interno si sono sviluppate correnti terroristiche. Ma da questo all’affermazione secondo cui l’islàm sarebbe in sé intollerante e violento, vi è un vero abisso. Affermarlo, è come affermare che il Vangelo e tutti i cattolici sono intolleranti e violenti, perché alcuni terroristi irlandesi ‘cattolici’ hanno messo una bomba in un bar di Londra” (p. 51).

Su questa tesi io vorrei fare una considerazione che mi costa molto, perché devo ricordare a me stesso, prima che ai lettori, l’incubo del mondo in cui sto vivendo: un incubo fatto di violenza manifestata quotidianamente (e in piena incoscienza) da persone assolutamente “per bene”. Gli Autori hanno tutte le ragioni del mondo per distinguere l’islàm dal terrorismo, anche se tale sforzo è inutile perché solo un idiota sosterrebbe la tesi contraria: un milione e trecentomila terroristi avrebbero distrutto tutto il pianeta e anche il sistema solare. Gli Autori hanno però torto a pensare che la violenza emersa nell’ambito della cultura cattolica sia essenzialmente quella dei terroristi irlandesi (o dei crociati o dei piromani medioevali che arrostivano i peccatori sui roghi), perché la violenza maggiore, più diffusa e costante nel tempo, sta invece nell’approvazione data ai bambini che hanno imparato a memoria i peccati mortali e veniali, sta nell’idea di una sessualità che se non è benedetta da un prete è un’esperienza bestiale e lesiva della dignità delle persone, sta nell’idea che per agire bene una persona debba aver paura di una punizione e non possa sentire amore per i suoi fratelli e sta nell’idea che si possa essere fratelli nella fede mentre si mantengono intatte le distinzioni di classe.

La violenza del cristianesimo non sta nei Vangeli (se non in minima parte e presumibilmente per trascrizioni non fedeli delle parole di Gesù): sta nelle preghiere, nei pentimenti, nelle confessioni, nell’esaltazione della sofferenza anziché della gioia di vivere, nell’intolleranza per il piacere e per la conoscenza. Sta nella presunzione di avere i diritti di copyright sulla parola di Dio e di dover salvare tutti. Sta nella volontà di usare tale conoscenza definitiva e immodificabile per dividere anziché per unire. Sta nel creare una divisione all’interno delle persone e nel renderle diffidenti verso se stesse. Sta nel proporre, a compensazione di questo danno, un mucchio di rituali strani finalizzati al recupero del rispetto per se stessi. Sta quindi nella negazione della dignità e della sacralità delle persone e del loro percorso interiore. Questa è la violenza del cristianesimo. E questa è la violenza dell’islàm.

Penso che lo Stato debba difendere la libertà di pensiero di chiunque e anche la libertà di farsi del male di chiunque. Io ora non sto parlando come rappresentante dello Stato, ma come persona ad altre persone e proprio per il rispetto che ho per la loro vita devo dire che faccio molta fatica a immaginare un islàm “sano”, così come faccio molta fatica ad immaginare un incubo divertente. Voglio ribadire in ogni caso che il fatto di evidenziare debolezze e inaccettabili rigidità in una tradizione culturale non ha niente a che fare con l’etnocentrismo che pregiudizialmente sminuisce altre culture in quanto “diverse” e che accetta (pregiudizialmente) ogni idiozia della cultura di riferimento. “Le dichiarazioni olistiche circa l’eguaglianza presunta delle culture viste come totalità risultano non meno false di quelle circa la loro mancanza di valore. Tanto i difensori quanto i detrattori delle rivendicazioni di riconoscimento culturale incappano ancora in un errore olistico di questo tipo” (S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, 2002, trad. it. Il Mulino, Bologna, p.88).
Purtroppo, il libro che ho commentato (peraltro molto utile e scritto con le migliori intenzioni) non mi ha tolto la convinzione che mi ero fatto (prima di leggere il Corano e vari testi sull’islàm) proprio parlando in varie occasioni con un amico nato in una famiglia musulmana, più giovane di me, ma adulto, laureato, residente da anni in Italia, pieno di interessi e innamorato di una ragazza non religiosa. Si era inserito nella cultura occidentale e non riusciva più a considerarsi islamico, ma non riusciva nemmeno a non esserlo. Non ce la faceva proprio. Se mangiava un panino al bar era convinto di non far male a nessuno, ma si sentiva a disagio. Se evitava di seguire quella dieta bizzarra che si pratica nel ramadan non osava dirlo a tutti i suoi amici musulmani. Insomma, si sentiva “preso” da qualcosa, da una cosa che era stata inchiodata alla sua identità. Mi diceva che nel suo paese la religione era “tutto”; era cultura, famiglia, parentela, feste, abitudini, rituali, permessi, divieti, era passato, futuro, società. Pensai che non fosse il caso di generalizzare, ma altri incontri e altre conoscenze mi hanno portato a generalizzare in certa misura, anche se, per onestà intellettuale e per rispetto, cerco di fare tutte le distinzioni che mi sembrano giustificate dai fatti.
Per esperienza so bene che le persone religiose possono essere davvero buone, ma nonostante la loro religione, non grazie ad essa, e non certamente per la paura di tradire una legge stabilita da un’entità che dispone di un’onniscienza imperscrutabile e ha la volontà di stroncarci se non azzecchiamo la risposta giusta al momento giusto.

Le religioni che si fondano su una (presunta) rivelazione divina (e questo non vale certo solo per l’islàm), che vengono accettate acriticamente nell’infanzia e associate al terrore di una punizione eterna, portano inevitabilmente ad un rifiuto di tutto ciò che confligge con i dettami della “legge” e ad una tendenza a garantire la salvezza a tutti con tutti i mezzi possibili (anche il potere costituito). Con le migliori intenzioni le persone che seguono tali religioni non “cercano” la verità, che è già data, ma si preoccupano di “trasmetterla”. Per queste persone non si può agire come si sente e come si ritiene giusto, ma si deve agire “nel modo giusto”. Per esse la vita è un compito da eseguire “bene” (secondo la legge) e non può essere un’avventura da affrontare con passione.
In questo senso, se resta indiscutibile l’irriducibilità dell’islàm al terrorismo, è inevitabile pensare che l’islàm, il cattolicesimo e le varie religioni siano intrinsecamente integraliste e fondamentaliste.
A nessuno viene in mente che, se Dio fosse davvero quel despota seduttivo e minaccioso che le religioni presentano, forse dovremmo negargli obbedienza e rispetto, proprio per amore dei doni più belli che ci ha fatto: la nostra libertà e il nostro amore per noi stessi, per gli altri e per la vita.

Alla pagina web
http://www.uuworld.org/2004/01/feature2.html viene riportata una definizione di “fondamentalismo” suggerita da H. L. Mencken:
“a terrible, pervasive fear that someone, somewhere, is having fun”
(una terribile, pervasiva paura che qualcuno, da qualche parte si stia divertendo – trad. mia).
Tale definizione è semplicemente esilarante, ma anche terrificante, dato che riguarda tante persone che vivono attorno a noi e che fanno del loro meglio per “condurci sulla retta via”).

Gianfranco

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