Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 3 aprile 2010

Dopo il passato (parte terza)

Nota della redazione: questo post costituisce la continuazione dei due post già pubblicati da Alba nel Dicembre 2009

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili,
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
(A. Merini Vuoto d’amore)

La scuola era finita. Non avevo imparato nulla –la pedagogia l’avevo studiata su un testo “all’avanguardia”, Il metodo preventivo di Don Giovanni Bosco- però avevo in mano un diploma di maestra di scuola materna.

Il rapporto con mia madre peggiorava. Lei disprezzava tutto quello che facevo; la politica era una delle cose peggiori- soprattutto, non era una cosa per donne. Buttava via i miei giornali, alzava un muro di ostilità se tornavo a casa tardi perché avevo partecipato a una riunione. Io avevo bisogno di stare lontana da lei, avevo paura che mi attirasse dentro il suo vortice.

Cominciai a lavorare, lavori saltuari e occasionali che mia madre trovava per me, con l’idea fissa che dovevo iniziare subito a mettere da parte i contributi per la pensione – era questa la sua idea del futuro.

Ho lavorato in un negozio dove vendevano scarpe, in un laboratorio artigianale per la produzione di pasta fresca, ho fatto la baby-sitter e la domestica. Il lavoro stabile iniziò con l’assunzione nei nidi d’infanzia, che in quel periodo venivano aperti durante l’estate per facilitare le madri occupate nel lavoro stagionale. Poi venne l’assunzione definitiva in un nido d’infanzia aperto tutto l’anno.

Ricordo i nidi aperti durante il periodo estivo: il pianto dei bambini, i ritmi assurdi che regolavano le giornate, le abitudini imposte – prima la colazione, poi tutti in fila sul vasino, poi tutti insieme nel caos di un salone anonimo o di un cortile polveroso, poi il pranzo, poi tutti a dormire sulle brande…Anch’io andavo avanti come un automa, seguendo una direttrice che valutava il nostro lavoro sulla base della crescita di peso dei bambini. Aveva l’abitudine di pesarli ogni quindici giorni, se aumentavano di peso voleva dire che, per amore o per forza, ogni giorno avevano mangiato tutto quello che c’era nel piatto, e il merito era nostro.

Nessuno aveva in mente il benessere dei bambini - esisteva soltanto il bisogno di lavoro delle madri.

Dopo le prime esperienze disastrose, nel corso degli anni qualcosa è cambiato. Ho imparato come si accoglie un bambino in un luogo per lui sconosciuto – la gradualità nel distacco dalla madre e nel passaggio dall’ambiente familiare a un ambiente diverso, la madre come mediatrice tra il bambino e la persona che dovrà diventare per lui una nuova figura di riferimento.

Ho fatto da sola il mio apprendistato leggendo, ricavando poche cose buone dai molteplici corsi di formazione e aggiornamento che mi piovevano addosso, facendo attenzione al mio mondo interiore per capire che cosa –sul piano emotivo- mi limitava e mi impediva di essere una buona educatrice. Nonostante questo, non ho mai cambiato idea sul fatto che i bambini dovrebbero crescere con le loro madri.

Non credo che sia fondamentale, per un bambino, “socializzare” prima dei tre anni; credo invece che in quel periodo della vita esistano bisogni primari che non possono essere soddisfatti in una vita di comunità. Come può sviluppare una sana autoregolazione un bambino che viene separato presto dalla madre, che deve condividere con tanti bambini l’attenzione di un adulto, che deve abituarsi a tempi regolati dall’istituzione?

Andrea aveva iniziato a venire al nido all’età di due anni; era un bambino paffuto, i capelli biondi e due grandi occhi chiari. Non era facile il suo inserimento, il distacco dalla madre provocava in lui un pianto disperato. Eravamo al punto in cui mi conosceva abbastanza per accettare di essere consolato, di essere tenuto tra le mie braccia – e lo consolavo, mentre sentivo dentro la disperazione della bambina che ero stata. Sapevo che era importante andare avanti gradualmente. Andrea doveva apprendere che dopo la separazione la madre sarebbe tornata; per questo, all’inizio, non doveva rimanere al nido troppe ore. La madre però aveva fretta; dovevo farle capire che Andrea aveva bisogno di tempo, e decisi di parlare del pianto disperato del suo bambino, quando lei si allontanava. “Non è nulla, è un capriccio che passa”, mi rispose. Non voleva vedere, non voleva sentire. Quel giorno tornai a casa profondamente stanca, spossata; piansi per un’ora, poi mi addormentai.

Il pianto dei bambini, la noncuranza delle madri, mi ricordavano la mia solitudine, la mia disperazione.

Dovevo imparare a non lasciarmi trascinare nella regressione, a separare la mia storia da quella dei bambini che mi venivano affidati.

Oscillavo tra un presente in cui imparavo cose nuove, in cui scoprivo con meraviglia che esistevano persone diverse da quelle che avevo conosciuto, e un passato a cui rimanevo tenacemente aggrappata.

La pretesa di un risarcimento, l’ostinata ricerca di una madre, una costante sensazione di bisogno – era questo che mi legava al passato; non ne avevo coscienza e non conoscevo altro.

In fondo a tutto, all’inizio di tutto, c’è una sensazione di buio, di vuoto, di terrore, e un bisogno intenso e disperato di accudimento. Se ci fosse stata una madre a tenermi tra le braccia, a placare la paura, oggi non avrei, radicato dentro, il ricordo di un mondo spaventoso; ma era proprio da lei, da mia madre, che veniva il senso di una oscura minaccia.

Qualcuno, non ricordo chi, mi aveva regalato un gattino siamese. Lo avevo portato a casa - con quale incoscienza, con quale segreta speranza? Mia madre non lo voleva; in modo stizzito mi disse di portarlo via, e io lo abbandonai.

I gattini sono tornati spesso nei miei sogni, a chiedere “soltanto un po' di latte" o a raccontarmi il terrore di entrare in contatto con la bambina che ero stata; nei sogni, aggrappati alla mia schiena o accovacciati sulla pancia, il contatto dei gattini, il loro peso, era per me terrificante.

Entrare in quella solitudine, riconoscere quel dolore e fermarmi in esso, accettarlo come una realtà che fa parte della mia storia: è questo che devo ricordare ogni volta che riaffiora il mio passato e combatto con l’ansia, con la rabbia e la paura. Allora cessa la lotta, posso riposarmi nel mio dolore e pensare alle cose buone che posso fare nella mia vita ora.

Credevo di essere la più brava coi bambini, la sola che li comprendeva, la sola capace di una totale dedizione. Disprezzavo le mie colleghe: “maltrattano i bambini”, questa era la sentenza definitiva, l’accusa che veniva dal fondo oscuro dei miei ricordi. Tenevo d’occhio tutto quello che facevano, registravo con rabbia ogni piccola infrazione e misuravo il loro agire su quello schema perfetto che io avevo nella mente. Bastava poco a suscitare la mia riprovazione: un gesto brusco, un'espressione di indifferenza, una parola sbagliata… Non ero capace di discutere in modo costruttivo, e il contesto non mi aiutava a farlo; mi chiudevo in una "rabbia santa" in cui la superficialità o la stanchezza delle mie colleghe diventava realmente “un'intenzione cattiva".

Dovevo ancora capire che se le mie colleghe trattavano i bambini come sudditi - con l'indifferenza, con l'idea che dovessero sottostare a una disciplina - io rischiavo di farne dei tiranni, dal momento che confondevo i bisogni dei bambini coi capricci, la cura e l'attenzione col possesso e l'esclusività, la libertà e la spontaneità con la mancanza di regole - quel contenimento necessario, in assenza del quale il bambino viene lasciato solo.

Nella mia idea di educazione si mescolavano, confuse, molte cose: l’opposizione a quello che io avevo subito si incontrava con la “cultura del permissivismo” che era di moda in quegli anni, il bisogno inconscio di salvare la bambina che ero stata si accordava con l'idea onnipotente di salvare i bambini che mi venivano affidati, mentre contrapponevo la mia presunta bontà alla presunta "cattiveria" delle mie colleghe.

Ora so che la mia dedizione non era affatto limpida; era piuttosto una “recita” che continuavo a fare per dimostrare a mia madre che non ero come lei - a differenza di mia madre, io "sapevo" come difendere e proteggere i bambini - era un atto di accusa che rivolgevo a mia madre e al mondo intero.

Vieni, vedi

i fiori veri

di questo mondo

doloroso.

(M. Basho, 1644-1694)

Conobbi Marisa nel periodo in cui frequentavo la politica; lei era bella e sicura di sé.

Mi propose di condividere in affitto un piccolo appartamento a pochi passi dal mare. Risposi di sì, che andava bene. Avevo ventiquattro anni, avrei lasciato la casa dei miei genitori.

Non fu un passaggio indolore lasciare quella casa.

Ormai da tempo io e mia madre avevamo smesso di parlare. Tra noi c’era un silenzio carico di paura e di tensione; mi sentivo addosso la sua ostilità, e a volte ancora mi domando, incredula, se davvero mia madre sia arrivata fino al punto di odiarmi.

Della mia decisione non dissi niente a nessuno. Una mattina caricai qualche scatolone sulla R4 di Massimo – un ragazzo che frequentavo in quel periodo - e me ne andai senza parlare.

Massimo era un ragazzo introverso, solitario, assillato da pensieri di morte. Portava con sé una pistola calibro 7,65 e dichiarava che prima o poi l’avrebbe usata, se la vita non gli concedeva quello che lui sperava di ottenere. Mi ero attaccata a lui perché pensavo che solo un uomo così potesse volermi.

Lontano dalla casa dei miei genitori non ero più impegnata a combattere per la mia sopravvivenza; così, gli incubi di un passato non compreso prendevano forma. Per un certo periodo, nella mia piccola stanza, "ho visto" grandi ragnatele pendere dal soffitto e spirali di fumo che uscivano dagli interruttori della luce. A volte ero attraversata da un tremito che mi scuoteva tutto il corpo e mi toglieva ogni forza; non riuscivo a tenere niente tra le mani e mi accasciavo a terra, sfinita.

Avevo paura che mia madre morisse, avevo paura di incontrarla per strada; mi chiedevo come avrei potuto, incontrandola, sostenere la sua presenza. E se moriva, come avrei potuto perdonarmi di aver voltato le spalle e di essere andata via senza parlare?

Romano non mi parlava più, mi considerava responsabile di aver causato a nostra madre un grande dolore; la vedeva piangere, ed era la mia cattiveria a causare quelle lacrime.

Gli altri fratelli mi trattavano con ostilità o con indifferenza; il marito di Margherita mi aveva fatto sapere che non voleva più vedermi. Era così davvero: accusata, colpevole, isolata, non c’era via di scampo in quel momento.

Linda abitava nel mio stesso quartiere, conosceva la mia famiglia ed eravamo colleghe di lavoro. Conosceva la mia paura, il mio senso di colpa. Mi propose di fare da mediatrice tra me e mia madre, e andò a parlare con lei. Così mia madre accettò di vedermi.

Di quell’incontro non ricordo nulla – così come ho dimenticato altri momenti di smarrimento e di paura. Avevo venticinque anni, non ero più una bambina. Perché ho dimenticato?

Chiusa, serrata nelle mie rigide difese, dovevo proteggermi da mia madre a un punto tale che non lasciavo spazio alla memoria.

Non c'era più ragione di temere mia madre, ero ormai grande. Ma è stato lungo il cammino per capire che potevo prendere la mia strada e guardare un orizzonte nuovo. La paura, la sensazione di bisogno mi legavano a mia madre. Non avrei potuto lasciarla andare senza precipitare nel vuoto. Dovevo ancora imparare ad accettare quel vuoto e a riconoscere, nel presente, la mia vita di donna.

Ricordo che dopo, a volte, andavo a trovarla, ma sempre con un senso di fatica e di oppressione: sapevo che avrebbe sfoderato il suo migliore repertorio per farmi sentire in colpa. Entravo in casa e non vedevo l’ora di scappare.

Mia madre aveva accettato di vedermi; dovevo riconoscere la sua benevolenza e considerare quel fatto come una specie di perdono. In realtà, si serviva dei miei fratelli per scagliarmi contro la sua rabbia.

Ricordo un invito a pranzo il giorno di Natale. Andai con un peso sul cuore, come sempre. Mia madre aveva invitato anche Romano, sapendo bene che lui non voleva vedermi e tantomeno sedere a tavola con me. "Rimani qui finché non ha finito" – mi disse. Aspettai il mio turno nella stanza accanto, e consumai da sola il mio pranzo di Natale.

Ero capace di subire in silenzio - nessuno stupore, nessuna ribellione.

Ero una figlia cattiva, indubbiamente. Quando mia madre aveva quegli attacchi di tosse convulsa che le toglievano il respiro, non ero capace di far nulla e scappavo via spaventata. Marina era capace di rimanere di fronte a lei, la scuoteva con violenza, gli schiaffi lasciavano per giorni impronte viola sulla faccia di mia madre.

Molto tempo dopo, ho dovuto scoprire dentro di me la rabbia - talmente spaventosa da paralizzarmi, quando affiorava. Poco a poco, ho imparato a non temerla e a riconoscerla come un passaggio obbligato per arrivare al dolore, alla pietà e al perdono.

Silvia lavorava come supplente al nido d’infanzia. E’ cominciato allora un rapporto di amicizia che non si è ancora interrotto, benché sia cambiato nel corso degli anni.

Veniva a casa a trovarmi - era calma, silenziosa. Preparava da mangiare, lavorava a maglia, non aveva fretta. Mi faceva ascoltare la sua musica- le ballate country di Neil Young e gli esperimenti psichedelici dei Pink Floyd.

Mi abituavo sempre di più alla sua presenza. Era diventata per me come una madre.

E’ vero, non ero una bambina e lei non poteva essere mia madre, ma questo ancora io non lo sapevo.

Ho fatto con lei i miei primi viaggi. Ricordo un viaggio sul promontorio del Gargano e alle isole Tremiti. Vedevo il mare dall’alto per la prima volta, un mare calmo, azzurro, scintillante sotto il sole.

Ricordo le lacrime, la meraviglia. Nei miei vecchi “diari di viaggio” ritrovo annotato: “Vorrei sciogliermi in un grande abbraccio che mi faccia partecipe per sempre e interamente di questa bellezza…ma sono qui, separata dal mare e dal cielo, con questo desiderio di unione, come una ferita che non guarisce, a pensare che questo è uno dei luoghi più belli della terra”.

Debbo scrivere adesso di una grande pena - debbo scrivere del bambino che non ho voluto.

Mentre conducevo una vita sessuale inconsapevole e disordinata, mi accorsi di essere incinta. L’idea di avere un bambino mi terrorizzava. Mi sentivo esistere intensamente, forse per la prima volta, ma la realtà del mio corpo vivo mi aggrediva e l'urto era spaventoso. Non potevo tenere quel bambino. Di questo, racconterò soltanto un sogno.

Ero ferma sulla sponda di un canale. Una grande nave si allontanava lentamente, io protendevo le braccia ma la nave si allontanava sempre di più. Sapevo che dentro la nave c’era un bambino che si stava mettendo in salvo.

In mezzo al caos c'era un'isola in cui continuavo a coltivare i miei "fiori veri" - curiosità, interesse per i libri, desiderio di comprendere le cose. Leggevo molto, senza un preciso orientamento – mi attiravano i testi di psicologia e di filosofia orientale – e a volte mi imbattevo in qualcosa che mi toccava – più che una scoperta, un riconoscimento.

Della filosofia orientale mi affascinava l’idea che l’ego poteva essere trasceso, per arrivare a una esperienza di unione col creato; anche la sofferenza poteva essere annullata, praticando la libertà dal desiderio.

Mi accorsi però che usavo queste idee contro di me; non ero capace di provare e mantenere vivo un desiderio, tendevo ad annullarmi di fronte agli altri. Allora formulai un pensiero: per trascendere l'io, dovevo prima costruirlo.

Su una rivista che faceva riferimento all'area della sinistra anarchica avevo trovato il programma di alcuni seminari che Jules Grossman –psicoterapeuta americano– avrebbe tenuto presso il monastero buddista di Pomaia. Decisi di andare, attratta dall’idea che il lavoro di Jules si fondava sulla relazione corpo–mente: se nel corpo era racchiusa e registrata la memoria delle emozioni più antiche e più profonde, allora il corpo poteva diventare il veicolo attraverso il quale esplorare e comprendere la propria storia.

I temi dei seminari riguardavano aspetti fondamentali dell’esistenza: "Vivere e amare", "Vivere e potere", "Vivere e morire".

Fu un'esperienza intensa, difficile e piena di bellezza. Il castello medievale di Pomaia –sede della comunità buddista- era bellissimo, immerso in un paesaggio di colline dolci, olivi, cipressi, strade bianche, che nel tempo avrei imparato a conoscere e ad amare.

La grande sala di meditazione era luminosa, vestita dei colori del sole: giallo, arancio, rosso, viola; le statue dai riflessi dorati rimandavano il “costante, tranquillo, fine, impenetrabile sorriso di Gotama, il Buddha…”

Ad occhi chiusi ascoltavo la voce di Jules: "Immaginate un cono di luce che dalla testa vi collega al cielo, immaginate radici profonde che dai piedi vi collegano al centro della terra…". Intonavamo il Ruah Elohim, che significa “Soffio di Dio”, un mantra di grande potenza evocativa. Sentivo che il suono sacro del Ruah manifestava l’unione tra noi e la divinità del creato.

L’UNO nacque dal calore e in Esso si risvegliò l’amore che fu il primo seme dell’intelligenza.

(Rig-Veda)

La meditazione mi apriva a stati di coscienza più elevati; allo stesso tempo, gli esercizi di bioenergetica facevano esplodere emozioni profonde, intensi stati di paura e senso di abbandono. Col tempo avrei compreso il limite di quelle esplosioni cieche che si esaurivano in se stesse. Era l'inizio di un percorso: incrociavo casualmente un sentiero e iniziavo a percorrerlo perché sentivo che qualcosa risuonava in me. Ho camminato a lungo prima di capire che avevo bisogno di un filo conduttore, di qualcuno che quel filo lo tenesse saldamente in mano, vedendo con chiarezza il cammino da compiere e la direzione da tenere.

Forse il ricordo più commovente riguarda una rivelazione - un pensiero chiaro e profondo che mi ha illuminato, mentre Jules guidava una meditazione sul perdono: finalmente, dopo un tempo infinito attraversato dalle accuse laceranti di mia madre, non era più lei a dovermi perdonare; ero io che dovevo perdonarla.

Poi quel pensiero ha dovuto a lungo farsi strada per trovare un posto stabile e sicuro nel mio cuore.

Ho conservato una lettera a mia madre, scritta quando lei non c’era più. Comunque non avrebbe capito e non l’avrebbe letta – non sapeva leggere, mia madre.

Ho provato a immaginare le parole che avrei voluto dirle. Sono le parole che posso dire soltanto a me stessa.

Cara mamma,

io so che la felicità e il dolore sono due aspetti fondamentali della vita, esistono insieme, complementari come il buio e la luce. Tu non sei mai stata felice, e nemmeno hai conosciuto il dolore.

Hai provato rancore, rabbia, disprezzo, questo si. Come me, sei stata una bambina disperatamente sola, ma questo è un fatto che non hai mai compreso.

Il tuo bisogno di amore era innocente, è il bisogno che sente ogni bambino; chiedeva soltanto una risposta – quella risposta che le madri dei cuccioli conoscono. Per te e per me non c’è stata tenerezza: niente abbracci, né carezze, solo il vuoto, l'assenza, l'abbandono.

Non hai avuto la possibilità di capire che la tua rabbia nascondeva il dolore per un’infanzia vissuta nella paura e nella solitudine; non hai potuto scoprire, nascosto nel tuo cuore, un desiderio struggente di contatto e di calore; per questo sei rimasta una bambina piccola, furiosa e disperata.

Sembrano così semplici le cose della vita: se accettiamo senza condizioni il dolore irrimediabile della nostra infanzia, sapendo che ci accompagnerà per sempre anche se è finito, si apre di nuovo, nel presente, la possibilità dell’amore e della gioia.

Io vedo la tua rabbia, vedo il tuo bisogno di amore manifestarsi in modo distorto e distruttivo; sei la bambina sola e disperata, sei la madre che mi respinge e mi rifiuta.

Io conosco la tua storia; tu non sai niente della mia, del mio dolore non sai niente.

Non hai avuto la curiosità, l’interesse, il calore necessario per guardarmi, per vedere chi ero.

Mi dispiace pensare che hai sprecato la tua vita.

Hai buttato via la mia infanzia, ma ho ancora il mio presente e il mio futuro. Ora tocca a me capire, e tenere tra le mani la mia vita, tutta intera.

Pensa come tutto poteva essere diverso; avresti potuto piangere davvero, provando pietà per te, per la bambina che eri stata. Allora mi avresti guardata: ero tua figlia, una bambina piccola, preziosa, era nelle tue mani il potere di infondere nel mio cuore la sicurezza, la fiducia, l’amore che mi avrebbero accompagnata per tutta la vita. Potevi persino essere felice, tenendomi stretta tra le braccia – ma non hai saputo interrompere quella catena di violenza che è arrivata fino a me, che risaliva fino a tua madre e forse ancora più lontano.

Da quel dolore antico, riconosciuto e accettato con pietà, poteva sbocciare la tenerezza del presente, l’amore per tua figlia, la voglia di dare una possibilità nuova alla tua e alla mia vita.

Ma c’è una soglia – e tu l’hai varcata – oltre la quale ogni possibilità di redenzione muore.

Ho vissuto tanti anni sentendomi in colpa perché non ero stata capace di salvarti, perché non ero la figlia che avresti voluto, perché me ne ero andata, voltandoti le spalle. Adesso le parti si sono rovesciate, e sono io che devo perdonarti.

Ho spezzato la catena, non soltanto per me; quello che ho fatto avrà il potere –credo- di toccare altre vite.

Ti lascio andare in pace mamma, e ti perdono, adesso posso farlo, adesso che ho rinunciato alla rabbia e ho imparato a conoscere il dolore e la pietà.

Racconterò la morte di mia madre.

Era un caldo pomeriggio di fine giugno. Avevo deciso di andare da lei, da troppo tempo rimandavo e trascuravo quello che consideravo un mio dovere. Entrai in casa e la vidi stanca, affannata. Era sola.

Mi disse: ”Oggi sei arrivata a proposito. Più tardi viene il dottore, almeno c’è qualcuno in casa”. Aggiunse: “Questa notte ti ho sognata”. Cominciò a raccontare che da una settimana stava male, non aveva voglia di mangiare e beveva solo latte. Parlava dei dolori della sua vita e a un certo punto mi disse: “Se ti ho messa in collegio non è stato per cattiveria”.

Ricordo che si mise a letto, e poco dopo arrivò il dottore. Le misurò la pressione – era alta, il battito cardiaco era accelerato. Il dottore consigliò il ricovero in ospedale. Lei cominciò a respirare sempre più affannosamente, mentre diceva “sono stanca, stanca, non ne posso più…” Il respiro era sempre più veloce. “Non arrivo a sera –disse– Alba aiutami, dottore mi aiuti…”

Il dottore scrisse velocemente una ricetta e me la consegnò: “Vada subito in farmacia”.

Uscii di casa sollevata, camminai lentamente, la farmacia non era troppo distante. Al ritorno mi fermai al negozio di mio padre. Federico, mio fratello, era lì. Gli dissi: “Il dottore mi ha mandato a prendere queste medicine per la mamma”. “E’ morta”, mi rispose.

Il mondo si fermò in quell’istante. Scoppiai in un pianto convulso, angosciato. Mia madre, la mia povera madre, mi aveva chiesto aiuto ed era morta – cinque minuti dopo che ero uscita di casa, mi dissero in seguito. Sono l’unica figlia che ha visto, prima di morire.

Qualche giorno dopo andai al cimitero con un piccolo mazzo di fiori. Sistemai i fiori accanto alla sua fotografia e mi sorpresi a pensare: “Finalmente posso venire a trovarti”.

Alba

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