Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 8 novembre 2009

Patria e mini-patrie

Il termina “patria” indica il luogo delle nostre radici e lo definisce con una connotazione emotiva molto forte. Non a caso è fuori luogo l’uso del termine quando sono in ballo problemi pratici. Nessun poliziotto chiede i documenti per conoscere la patria della persona, ma controlla la residenza, la cittadinanza, il luogo di nascita, e nessuno studente chiede a bassa voce ad un compagno nel corso di un tema difficile quale fosse la patria del tal poeta, ma chiede “dove è nato?”.
Dobbiamo aggiungere che il termine in questione ha una connotazione emotiva, ma viene usato in contesti non privati. Nessun fidanzato dice alla ragazza “voglio portarti a vedere alcuni angoli della mia patria”, ma piuttosto “voglio farti vedere alcuni luoghi in cui sono cresciuto”.
Se incrociamo i dati, abbiamo le coordinate precise del concetto in questione: parliamo di patria quando vogliamo coinvolgere emotivamente altre persone in un ambito pubblico. Il termine “patria” è quindi uno dei marchingegni linguistici più adatti per la produzione di stronzate politiche [cfr. il POST Stronzate e analisi filosofica].

Il concetto di patria è strettamente legato alle varie ideologie nazionalistiche, è usato con puntigliosa ossessività dai sostenitori di interventi militari, è stato sventolato dai fascisti e dai nazisti. Ovviamente è anche utilizzato da brave persone, ma esso sottolinea emotivamente il valore dell’appartenenza ad una particolare “terra”, che di fatto costituisce un fattore accidentale nella vita di una persona, il cui valore dipende sicuramente da ben altri fattori.
Il concetto di patria è invece assente nei discorsi dei pacifisti e (ovviamente) degli antimilitaristi. E’ anche un concetto trascurato nei messaggi religiosi (che sottolineano la fratellanza fra tutti gli esseri umani o almeno fra tutti i credenti), anche se le religioni non hanno mai fatto una seria opposizione agli stati ed alle loro guerre (cfr. Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria editrice Fiorentina, Firenze, 1966).


Il concetto di patria è un concetto estraneo anche alla tradizione socialista che, almeno in passato, considerava lo Stato nazionale come un imbroglio della borghesia e considerava la guerra come una questione fra capitalisti, sbrigata sulla pelle dei proletari mandati al massacro. Oggi i nuovi socialisti hanno lasciato l’internazionalismo proletario a favore del nazionalismo (ed anche dell’internazionalismo “globale” capitalistico). Accettano gli Stati nazionali (compreso lo Stato del Vaticano) e, ovviamente, non possono tirarsi indietro quando è in ballo la retorica della patria.
Più coerenti sono gli anarchici che, da sempre e anche oggi, sono contro lo Stato, contro le guerre fra Stati, e contro il sentimentalismo patriottico. L’unico difetto degli anarchici è che “se me ne trovi uno ti offro una cena”.

Ci sono delle ovvie ragioni per cui il patriottismo non ha avuto spazio nell’animo di persone come Thoreau e Gandhi che, pur affezionate alla loro terra, pensavano che l’uomo fosse più importante dei confini tracciati dai politici e dai militari.
Sul piano etico, l’indifferenza o l’esaltazione della patria (non importa se della nazione o del comune o del vicolo con tre case) dipende dall’accettazione di un codice di solidarietà incondizionata o condizionata.


La solidarietà incondizionata è una solidarietà fra uomini, fra esseri umani (per alcuni, addirittura, fra esseri viventi), che afferma l’eguale valore di tutti. Uno dei sui rappresentanti più famosi di questo indirizzo è Publio Terenzio Afro che, due secoli prima di Cristo, affermò che in quanto uomo non poteva ritenere estranea a sé alcuna realtà umana. La sua humanitas prevaleva decisamente sull’appartenenza a qualsiasi particolare comunità.

La solidarietà condizionata suggerisce, invece, una dedizione (anche eroica e quindi moralmente vincolante) ad un gruppo di esseri umani, mentre esclude un’analoga considerazione per quelli che si trovano oltre un confine (convenzionalmente) tracciato. In questa logica, quindi, si possono anche sottomettere o massacrare “gli altri” per difendere quelli riconosciuti come membri della stessa comunità. Questa logica caratterizzata dall’opposizione fra gli “altri” e “noi” è ovviamente basata su una scelta arbitraria, e può essere utilizzata contro i membri di un altro Stato, o di un’altra etnia o di un’altra religione.

Quando la solidarietà condizionata viene ideologizzata sul piano politico, è ovviamente associata a qualche interesse economico, ma viene confezionata come un sistema di valori adatto a tutelare “il bene di tutti noi” e, proprio in questa versione, può sedurre persone ingenue che in realtà non hanno interessi materiali da difendere pensandosi come “appartenenti” ad una particolare comunità.
In questa prospettiva, tutti gli esseri umani possono anche essere preziosi, ma “noi” (quelli della stessa “patria”) ci facciamo gli affari nostri. Affari nostri di chi? La storia ci mostra che gli affari “nostri”, cioè “di tutti noi” sono sempre stati gli affari di qualcuno in particolare. Nelle società capitalistiche i capitalisti determinavano la politica e facevano affari (ed è ancora così, nonostante le variazioni sul tema costituite dall’economia globale) e nelle società orientate verso il socialismo, l’orientamento in questione si è subito interrotto a vantaggio di una quasi-classe costituita dai burocrati.

Cosa succede quando una nazione (in cui il bene di tutti è in realtà il bene di alcuni capitalisti o burocrati) si trova in un conflitto di interessi con un’altra nazione? A livello puramente diplomatico o economico o militare si deve risolvere il conflitto e qualcuno inevitabilmente prevale. Chi? La classe dirigente di una delle due patrie, non una delle due patrie, intesa nella sua “universalità particolare”. Il nazionalismo si affermò nel XIX secolo e si affermò con il procedere dello sviluppo industriale. Questioni di identità culturale, religiosa, etnica ebbero un ruolo secondario nello sviluppo degli Stati nazionali che sono diventati portatori dei valori patriottici tuttora ben radicati.

Più recentemente, tuttavia, si sono affermate tensioni interne a vari Stati, caratterizzabili come spinte autonomiste, separatiste, indipendentiste. In queste tendenze troviamo la quintessenza del principio patriottico, anche se nel contesto di una negazione dei valori patriottici nazionali. Sia che le giustificazioni “ufficiali” di tali spinte siano etniche o religiose (si pensi alla tragedia della ex Jugoslavia), sia che le giustificazioni siano espresse con rozza (ma almeno onesta) sincerità in termini economici (come nel caso della subcultura leghista in Italia), ciò che caratterizza queste tendenze è il rigetto di un orizzonte etico per la politica. La politica è, in questi casi, banalizzata come un’occasione per tutelare “i fatti nostri” e non come uno strumento per favorire il bene di tutti. Voglio lasciare da parte le forme più gravi di conflittualità, che all’estero hanno opposto Stati nazionali e regioni con aspirazioni separatiste; voglio piuttosto considerare il mini-patriottismo “nordista”, che nel nostro paese ha avuto sicuramente esiti meno drammatici (anche se il razzismo, in alcuni casi, si è manifestato con violenza e c’è scappato il morto).

Io non mi sento “italiano” per ovvi motivi. E’ del tutto contingente il fatto che mia madre mi abbia partorito in questo paese e che i miei genitori abbiano deciso di vivere qui. Inoltre, se mi avessero interpellato, avrei preferito nascere in un altro luogo. Sentirsi “italiani” per via della pasta asciutta o della poesia di Leopardi o della Cappella Sistina è un’idiozia: quest’ultima mi sembra un patrimonio dell’umanità intera, Leopardi non conta sicuramente più di Shakespeare e la pasta asciutta non mi sembra così importante da definire un’appartenenza.
Per le stesse ragioni non mi sento romagnolo. Troverei demenziale considerarmi “padano” e non solo perché, pur vicino al Po, vivo a sud della sua foce in pericolosa contiguità con gli italici del centro e quindi con quelli del meridione (confinanti a loro volta con gli extracomunitari nordafricani). Troverei demenziale l’idea, perché essa implica che io abbia a che fare soprattutto con gente che vive nei miei paraggi, anziché con gente affine a me sul piano dei valori e degli interessi personali. Tra un amico carissimo che vive negli Stati Uniti e un razzista “padano” scelgo il primo.
Spiego perché. Un certo Giancarlo Gentilini, che è stato due volte sindaco di Treviso e continua a “operare” localmente come vicesindaco, ha fatto dichiarazioni di questo tipo: “siamo in guerra, i gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka, occorre puntare ad altezza d’uomo “. Ha aggiunto pure che “bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile” (citato in Guido Barbujani e Pietro Cheli, Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza, Bari, 2008, p.10). Non sono parole di un tizio in un bar alle prese col sesto grappino. Sono parole di una persona eletta e rieletta da numerosi cittadini. Non è stato mandato a fare un lavoro adatto alle sue capacità. Sempre a Treviso, poi, il consigliere comunale Giorgio Bettio ha invitato a “usare con gli immigrati i metodi delle SS” (citato nello stesso libro, a p. 7). Questi, almeno si è scusato “per un’espressione dettata dalla rabbia”, ma non ha capito che, nel suo caso, la rabbia non è una giustificazione. Queste cose sono gravi. Mostrano il corto circuito che unisce sproloqui politici espressi “dal basso”, menti “semplici” (nel senso di “vuote”) che si esaltano, voti dati a persone prive di spessore intellettuale e morale, persone elette pur essendo “inadatte” agli incarichi che ricoprono, sproloqui espressi “dall’alto” (dalla poltrona di un consiglio comunale o del Parlamento). Un circolo vizioso terrificante, nella sua elementare banalità, aggravato dalla tolleranza di uomini politici magari discutibili, ma almeno intelligenti, che “dialogano” con questa “componente” dello schieramento “politico”.

Non mi occupo più attivamente di politica da tempo, ma penso alla politica come ad un’occasione per chiunque di fare qualcosa di buono per tutti. Idea forse romantica, ma Terenzio non aveva studiato il romanticismo. L’unica cosa buona che vedo nella politica italiana è la prospettiva europeista che almeno a parole contrassegna alcune sue componenti. L’unica cosa buona che vedo in alcuni europeisti è l’apertura cosmopolita. In pratica, se mi identifico in qualcosa, questo qualcosa è l’ONU. Mi sembra che questa sia l’unica posizione politica accettabile, pur con la frustrazione dovuta al fatto che l’ONU non ha poteri, non fa molto e non fa niente di realmente significativo contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Trovo però consolante l’idea che “ci sia” l’ONU, così come un carcerato, probabilmente, è contento di vedere il mare oltre le sbarre.

L’Italia “risorgimentale” è nata per gli interessi della classe borghese e non per amore di qualcosa, anche se molti ingenui hanno sacrificato la loro vita per un (confuso) ideale. Ma almeno è nata con delle giustificazioni plausibili: c’era di mezzo la tirannia dell’Impero austro ungarico e del papa. Anche chi si sente cittadino del mondo, nell’attesa di un mondo migliore può (senza sdolcinature patriottiche) accettare lo Stato in cui si trova e decidere di fare politica in tale ambito. Ciò che non è accettabile è l’idea di frantumare la realtà (già angusta) in cui siamo, anziché di migliorarla. La logica del “frazionamento” è un’assurdità. Eppure, è un’assurdità con un senso. Un senso inquietante.
Il senso sta nell’interesse (di pochi) a risolvere, per amputazione, una questione meridionale che non è mai stata risolta davvero e che è stata aggravata non solo da “Roma ladrona” e dai mafiosi, ma dall’imperialismo padano (contributi incassati da società del nord per investimenti mai realizzati al sud, smaltimento illegale di rifiuti tossici nell’Africa nostrana, e così via). L’avida e famelica esigenza di “non condividere”, ben diversa dall’obiettivo di moralizzare ed eliminare gli sprechi e la criminalità organizzata, porta a sognare un distacco o almeno una maggiore “autonomia”. Ma a favore di chi? Ovviamente, dei soliti “pochi” (quelli però del nord).

Questi interessi gretti e privatissimi di pochi non sarebbero però mai diventati interessi “politici” senza il coinvolgimento dei “tanti”. Per questo motivo è stato lentamente gonfiata, fino a farla diventare un “valore”, la solidarietà condizionale ed essa è stata circoscritta ad un mini-patriottismo anti-patriottico. Il trucco si è ridotto alla giustificazione “sociale” (regionale) dell’avidità: noi staremo meglio senza “loro”, e noi vogliamo stare meglio: mica siamo fessi.
Su questa base “etico-sociale” i poveracci del nord più ingenui si sono convertiti al sogno dei loro padroni. L’unità interclassista si è realizzata grazie allo “spettro dell’altro”, che ha calamitato i sentimenti più volgari. Razzismo mini-patriottico in opposizione alla (già fiacca) solidarietà maxi-patriottica.
I partiti tradizionali sono di fatto dei carrozzoni burocratici e clientelari, ma mantengono un minimo di decenza, dichiarando di voler promuovere (anche senza crederci sempre) il bene di tutti. In questo modo lasciano almeno spazio a possibili trasformazioni interne, autenticamente politiche. Il populismo separatista, invece, oltre che uno specchietto per le allodole (per gli ingenui), è un crimine contro la fondamentale humanitas degli esseri umani.

Non è una novità che le destre ottengano il consenso dei poveri. Per ignoranza, oscure paure e conformismo, i poveri hanno sostenuto la politica dei re e dei papi, la politica della borghesia, la politica del capitalismo imperialistico, la politica del capitalismo autoritario (fascista e nazista) e anche la politica di partiti rivoluzionari diventati autoritari. Hanno sempre, però, appoggiato gli interessi ed i regimi reazionari per motivi ideali, anche se confusi: l’indipendenza della patria, la “libertà”, la dottrina sociale della chiesa, il pericolo del comunismo ateo e repressivo, ecc. I poveri non hanno mai lottato per avere privilegi. Quando hanno lottato per i loro interessi (nelle rivoluzioni socialiste) l’ideale a cui aderivano era l’abolizione dei privilegi di alcuni e l’affermazione dei diritti di tutti. Questo è un punto importante. Le masse sono state anche feroci, ma non si sono mai organizzate per opprimere altri diseredati.

La recente affermazione, nel nostro paese, di spinte regionaliste, separatiste, convergenti nel mito della “padania libera” costituisce una svolta notevole sul piano etico, perché si caratterizza come un “incattivimento delle masse”. La “destra padana” fa una politica classista, come ogni partito di destra, ma con una specificità: non raccoglie l’adesione di “poveri ingenui”, ma di “poveri feroci”. Il popolo leghista non vuole salvare le chiese dai roghi (immaginari) dei comunisti e non vuole lottare per il bene di tutti: vuole delle ricchezze che crede di poter recuperare sconfiggendo la “grande sanguisuga” (Roma ladrona, il meridione mafioso, i marocchini “che ci portano via il pane”). Credo che per la prima volta nella storia, si sia realizzato un fenomeno classificabile come “egoismo di massa” o “avidità sociale”. Nella Germania nazista i poveri idioti che denunciavano gli ebrei sapevano che non avrebbero avuto vantaggi personali, ma che avrebbero contribuito alla “purificazione della razza”. Il “popolo del nord”, invece, ha osteggiato i meridionali come ora non vuole gli extracomunitari per puro odio etnico e per la voglia di non farsi rubare degli ipotetici privilegi.

La cosa è grave. In un paese di capitalisti in cui certi capitalisti non vogliono più essere capitalisti, ma cercano di essere semplicemente delinquenti (speculatori, mafiosi, corruttori, corrotti, evasori, ecc.), in un paese in cui i reazionari rispolverano i miti del fascismo, ci troviamo anche fra i piedi delle masse ormai ingombranti di poveracci con le aspirazioni snob dei loro padroni, in nome di un’appartenenza condivisa e interclassista alla loro “terra” e di un’ostilità nei confronti di chi non ha le loro stesse radici.
Ma c’è di peggio.
Ciò che mi sconcerta, non è il livello di deterioramento politico dovuto a queste tendenze mini-patriottiche, e razziste, bensì l’impassibilità con cui i partiti della sinistra hanno “preso atto” della esistenza di questi scarti della politica. Non solo: ci dialogano da quando sono diventati cinque gatti anziché quattro. Definiscono le loro proposte in qualche misura interessanti, in parte condivisibili, in parte ragionevoli. Così gli eredi dell’egualitarismo che trascende le patrie nazionali, dopo aver riscoperto il patriottismo borghese-risorgimentale, scoprono il “valore” del federalismo, del localismo, del particolarismo. Dal post-comunismo, al quasi-socialismo, al patriottismo democratico al mini-patriottismo federal-democratico.

Ribadisco il concetto già espresso in un altro post [Destra e sinistra come categorie politiche ed etiche]: la sinistra non ha futuro se non si ripensa come portatrice di cultura e di valori. Non serve una sinistra monolitica con dogmi e liturgie. Serve una sinistra pluralista, in cui convivano ideologie diverse, ma in cui si affermino alcuni valori fondamentali: la libertà (di tutti e non solo dei ricchi, dei mafiosi e dei delinquenti), la solidarietà (quella umana, non padana e nemmeno nazionale) e il valore della persona (di tutte le persone, indipendentemente dalle loro origini, dalla loro residenza e dalla loro cultura). Questo è ovviamente chiedere troppo, ma io non chiedo più nulla. Mi limito a dire ovvietà scomode, come quella secondo cui il mito di qualsiasi patria è un falso valore e quella secondo cui questo falso valore ha generato mostriciattoli come il mito della mini-patria. Una mini-patria che presumibilmente non diventerà mai una vera realtà, ma che è già diventata un incubo alimentato da intolleranza, odio per gli altri e indifferenza per il valore di qualsiasi persona.

Gaetano

Per scriverci

Inviare eventuali commenti o contributi (senza allegati) scrivendo a:
many.bloggers@gmail.com

Note legali

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge 62 del 7/3/2001.

Questo blog non effettua trattamento di dati personali ai sensi della legge 196/2003.

(Copyright) Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.