Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

sabato 29 agosto 2009

Il controllo dell'infanzia e del traffico

E’ scontato che le persone, nei limiti del possibile, tengano sotto controllo ciò che possono. Se vanno in bici controllano prima di partire che le ruote siano gonfie, se guidano l’automobile tengono sotto controllo il livello del carburante, e così via. La mancanza di controllo può essere fonte d’ansia in certi casi (quando ad esempio si lavora con un contratto a termine), ma in altri può essere molto piacevole (lasciarsi cullare dall’acqua, al mare, oppure lasciarsi andare nell’esperienza dell’orgasmo).

Il controllo, quindi, non è come la respirazione: non ci serve sempre. Il controllo ci serve quando c’è un pericolo (reale) che ci preoccupa e l’attivazione delle funzioni di controllo rientra nella nostra propensione a vivere e ad agire razionalmente. Tuttavia, siccome tale attivazione limita la qualità della nostra vita, oltre un certo limite l’attivazione delle funzioni di controllo diventa dannosa: passeggiare per la città con un frigorifero contenente il siero antivipera perché “non si sa mai” equivale a rovinarsi la vita. In altri casi, invece, la tendenza al controllo non è solo “eccessiva” ma è proprio sbagliata: praticare il coito interrotto, oltre ad essere un metodo concezionale (non “anticoncezionale”, dato che gli spermatozoi “vanno in giro” anche nella fase dell’eccitazione maschile e non solo nell’eiaculazione), è soprattutto una gravissima violenza autoindotta perché implica l’attivazione drastica del controllo in un momento che è intimo, profondo e divertente solo in assenza di controllo.

La cultura del controllo è una cultura dell’ignoranza (trascura le ragioni per cui i fatti si verificano e vuole semplicemente stabilire un ordine), è una cultura autoritaria e manichea (oppone in modo rigido fatti positivi da permettere e fatti negativi da vietare), è una cultura superstiziosa (presuppone che repressioni a valle eliminino le cause profonde dei fatti non graditi), è una cultura seduttiva e manipolativa (fa leva sulla paura delle persone per ottenere consenso e usa il consenso ottenuto per peggiorare la qualità della vita delle persone), è una cultura della stupidità perché oltre a intervenire in modi inopportuni su situazioni effettivamente dannose, interviene su situazioni che dannose non sono più di altre, ma vengono percepite erroneamente come tali.

Le riflessioni critiche sulla cultura del controllo sono scomode perché essa attraversa la società in modi talmente ingombranti, che le sue conseguenze, pur essendo del tutto insensate, sono normalmente considerate espressione del buon senso. Inevitabilmente, quindi le considerazioni critiche nei confronti della filosofia del controllo possono risultare “insolite” o “anormali”: lo sono sicuramente, così come sarebbe stato insolito negli anni ‘50 cedere il posto ad una signora anziana di colore in un autobus newyorkese.
Esaminerò ora due idee molto radicate e assolutamente errate: l’idea che i bambini debbano essere “educati” e l’idea che il traffico stradale debba essere rigidamente regolamentato.
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Alexander Neill, ha documentato l’importanza dell’autoregolazione dei bambini nel loro processo di crescita. Parlo di un autorevole pedagogista e non di un punk propenso a scrivere libri fra una sbronza e una canna. Parlo di un’esperienza educativa che si è sviluppata con continuità per molti anni (dal 1921) e parlo di un libro (Summerhill, Forum, Roma,) che è stato ristampato ininterrottamente in molte lingue dal 1960.

I bambini di Summerhill crescevano con buoni sentimenti e senso di responsabilità verso gli altri proprio perché non subivano imposizioni “morali”, arrivavano a studiare volentieri proprio perché non erano precocemente “indotti” allo studio, crescevano sessualmente equilibrati proprio perché lasciati liberi anche su quel piano. L’esperienza nella scuola di Summerhill è una “prova provata” del fatto che i bambini crescono bene se sono rispettati, amati, lasciati liberi di “autoregolarsi” e non se sono controllati, repressi, “educati”.

La libertà di Summerhill è ben diversa dal permissivismo che nella nostra società è presente “a fianco” della filosofia del controllo e che costituisce in realtà una forma perversa di controllo: il permissivismo ricapitola l’indifferenza degli adulti verso i bambini, la mancanza di contatto con i bisogni dei bambini e la svalutazione esplicita o implicita della vita dei bambini.
I bambini vengono abbandonati, respinti, privati di amore e quando manifestano segni di disagio (distruttività, “capricci”, mancanza di impegno) vengono lasciati “liberi”. Il permissivismo prima induce i bambini a non cercare contatto, a non chiedere affetto e a non esprimersi, poi li autorizza a rompere le palle. I bambini accettano qualsiasi maltrattamento perché non hanno autonomia: accettano l’autoritarismo e accettano anche il permissivismo, ma in entrambi i casi rinunciano ad essere se stessi pur di non stare soli.

Le due forme di controllo (quello diretto della repressione e quello indiretto del permissivismo) producono risultati poco entusiasmanti: adulti freddi, ossessivi, spaventati, rigidi, svalutanti, cioè molto controllati, e adulti “ribelli”, inconcludenti, “di temperamento artistico” e quindi molto controllati anche se apparentemente fuori controllo.
Non voglio approfondire l’argomento perché il libro di Neill merita di essere letto, anche se oggi è disponibile solo in un’edizione parziale (I bambini felici di Summerhill, Red, Novara, 2004). Merita di essere letto anche se rientra più che altro nel genere “fantascienza”, dato che genitori, pedagogisti, psicologi e ministri continuano imperterriti a dire sciocchezze sulla necessità di “educare” i bambini.

Veniamo ora al traffico. Tutti usiamo dei veicoli (dalla bicicletta al TIR) e ci muoviamo abitualmente fra cartelli, semafori, autovelox. Tutto normale. D’altra parte in un mondo di pazzi è normale anche che circa un quinto degli abitanti del pianeta muoia di fame mentre gli altri mangiano tutti i giorni e hanno problemi di obesità; è normale che la maggior parte di quelli che mangiano tutti i giorni lavori e viva male e una minoranza viva nel lusso, nell’ozio e si dedichi ad attività criminali o non necessarie; è normale che in ogni epoca e paese ci sia qualche gruppo sociale ritenuto dagli altri un gruppo “inferiore” e che tale gruppo venga svalutato, escluso o perseguitato; è normale che si facciano guerre e che quindi ogni stato abbia il suo “ministero della guerra”; è normale che in varie epoche degli imbecilli abbiano governato un’intera nazione con il plauso di masse popolari entusiaste; è normale che le persone provino sentimenti assurdi (invidia, gelosia, rancore, depressione, senso di inferiorità, arroganza, “spirito di competizione”) e che gli intellettuali scrivano interi romanzi, anche pregevoli letterariamente, su queste stupidaggini; è normale che pur sapendo di essere mortali moltissime persone reagiscano con incredulità, rabbia e depressione alla brutta notizia di stare per morire; è normale che tutti diano un grandissimo valore alla nascita di un bambino, all’esperienza della maternità e della paternità e che madri e padri (e anche legislatori, educatori, politici, ecc.) si sforzino in tutti i modi di rovinare l’infanzia ai bambini.
Un elenco delle “normali stronzate” occuperebbe un’enciclopedia. Mi limito a questi pochi esempi appena accennati per insinuare almeno il dubbio che una critica alla regolamentazione del traffico possa essere ragionevole e possa risultare strana solo in un mondo di pazzi.

Come ho ricordato Alexander Neill per il tema della “educazione” dei bambini, voglio ricordare Hans Monderman, recentemente scomparso, per il tema della regolamentazione del traffico. L’idea di questo singolare ingegnere olandese è stata semplice, anche se controintuitiva: le strade sono pericolose e ciò ci rende attenti e responsabili se altre sollecitazioni non ci distraggono. Di fatto la logica del controllo (semafori, limiti di velocità, ecc.) implica che la società sia responsabile della sicurezza, e che quindi il cittadino che guida un veicolo sia normalmente uno stupido da sorvegliare.
Ciò favorisce le “pulsioni alla stupidità” sia in chi “si adagia” sulle regole riducendo la vigilanza, sia in chi sente le regole pregiudizialmente strette e tende quindi a trasgredirle. Speculazioni? Idee campate per aria? Beh, a dire il vero le esperienze fatte a Drachten e a Makkinga mostrano che ad essere campate per aria sono piuttosto le idee normalmente accettate. In pratica, senza semafori, limiti di velocità e robacce del genere gli incidenti sono calati, fino a dimezzarsi. Si vedano queste due pagine web:

http://www.fastandsafe.org.nz/Pages/Media/Monderman.htm

http://www.tio.ch/aa_pagine_comuni/articolo_print.asp?idarticolo=359213

Secondo Monderman, quando non esistono semafori, limiti di velocità, interruzioni dei limiti stessi, righe per terra, corsie per ciclisti, segnali di stop ecc. chi guida smette di occuparsi dei segnali perché deve occuparsi delle persone che si trovano sul suo percorso; in questa situazione le strade diventano più sicure.

Da notare che nei primi sei mesi del 2009 gli incidenti stradali sono aumentati del 57% rispetto all’anno precedente (la Repubblica.it 20.07.2009) e in buona parte sono stati causati da persone sotto l’effetto di alcol o droghe. Ciò dimostra che la politica degli autovelox e dei cartelli è utilissima per molestare chi guida con buon senso, ma è assolutamente inutile per scoraggiare le persone che hanno difficoltà con se stesse prima che con gli altri e la strada. Con queste persone dobbiamo convivere comunque anche se ha senso arrestarle se uccidono con un’arma o con la propria auto. Dobbiamo convivere con loro ma non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo convivere con gli stregoni che anziché fare la danza della pioggia fanno la danza dei segnali stradali e degli autovelox.

Lascio agli specialisti delle varie discipline interessate al problema l’onere degli approfondimenti teorici, delle verifiche e dell’elaborazione statistica dei risultati. A me interessa la logica che ispira la comune tendenza a controllare tutto e la logica (per me più stringente) secondo cui il controllo è come le medicine: se proprio non sono indispensabili non vanno prese, perché fanno male.

A me, personalmente, non interessa nemmeno che la deregulation diminuisca gli incidenti: anche se non li diminuisse sarebbe comunque una valida alternativa ad una logica irrazionale di cui voglio dimostrare l’inconsistenza.

La vigilanza è una funzione mentale che noi utilizziamo, ma che non possiamo attivare costantemente. Capita molte volte di non trovare gli occhiali perché li abbiamo messi da qualche parte senza esserne consapevoli: appoggiandoli in uno scaffale non siamo rimasti vigili su ciò che stavamo facendo. Piccoli inconvenienti di questo tipo sono compensati da vantaggi di altro tipo: quando abbassiamo la frizione per cambiare marcia nella guida di un autoveicolo non siamo normalmente consapevoli di ciò che facciamo, come lo è invece una persona che prende le prime lezioni di guida. Di fatto noi tendiamo ad automatizzare molti comportamenti ed anche a “innestare il pilota automatico” in tante situazioni in cui non dobbiamo affrontare problemi particolarmente impegnativi. Se fossimo costantemente consapevoli di tutto ciò che facciamo e che ci accade intorno ci troveremmo il cervello completamente fuso.

Una delle più note esperienze del genere è la cosiddetta “trance del guidatore”: un tizio parte da Bologna per andare a Modena e “improvvisamente” si trova nelle vicinanze di Modena senza ricordare esattamente di aver attraversato delle località intermedie o di aver trovato il verde o il rosso ad un semaforo superato da alcuni chilometri. Ha cioè guidato con il pilota automatico, immerso nei suoi pensieri che riguardavano cose da chiarire con il marito, la moglie, un figlio o un amico, decisioni da prendere sul lavoro o altre cose. La trance del guidatore (ma anche del ciclista, del camminatore o di chi sta alla finestra o di chi si trova a scuola) non è un disturbo, ma una risorsa, perché ottimizza i risultati della nostra attività mentale.

Da notare il fatto che nelle situazioni di normale trance quotidiana rispondiamo con la massima efficacia se si presenta un imprevisto significativo. Se così non fosse gli incidenti stradali sarebbero la norma: se l’auto che precede frena, noi subito freniamo di conseguenza, ma se un piccione vola sopra la nostra testa non lo notiamo perché stiamo pensando agli affari nostri. Le esperienze di trance quotidiana in pratica sono utili e vengono interrotte appena riceviamo un segnale che alla nostra intelligenza risulta degno di nota. Qui sorge un problema, perché normalmente siamo più intelligenti di chi ha scritto il codice della strada e di chi gestisce la sicurezza della strada piantando cartelli inutili anziché alberi (sempre utili): a cosa può servire il divieto di superare i 50 km. orari segnalato prima di una rotonda nella quale ai 45 km.orari la nostra automobile si inclinerebbe poggiando su due sole ruote? E a cosa può servire lo stesso limite in una circonvallazione a tre corsie per ogni senso di marcia? Ora, succede frequentemente che, mentre ci riprendiamo da una benefica “trance del guidatore” in cui avevamo risolto un problema importante, vediamo un cartello che indica la fine del limite di velocità ai 30 km. orari. E chi se ne era accorto? Non c’era assolutamente nulla che ci avesse “destati” dalla nostra trance, ma c’era sicuramente qualcosa che aveva turbato il carattere ossessivo di qualche funzionario preposto alla gestione della strada in questione.

Se “incrociamo i dati” (cioè la regolamentazione demenziale del traffico, la propensione naturale a benefici stati di trance, il fatto che l’intelligenza media degli automobilisti sia in genere superiore a quella dei burocrati) otteniamo una cosa curiosa: in un’epoca in cui in qualsiasi luogo può esserci un autovelox, rischiamo delle multe in situazioni in cui non facciamo nulla di pericoloso e che non possiamo nemmeno controllare a meno di disattivare dal nostro cervello le funzioni (necessarie) di “pilota automatico”.
Si dirà, giustamente, che un golpe militare è peggiore di queste intrusioni nella nostra esperienza di guida; verissimo, ma questa non è una buona ragione per subire migliaia di “golpini” tutte le volte che saliamo in macchina.

Ora, veniamo alle obiezioni (apparentemente) più ragionevoli, prima fra tutte quella secondo cui con la vita non si scherza e che il traffico è così pericoloso che qualche limitazione è necessaria e in ultima analisi ragionevole. Concordo con chi sottolinea il fatto che spesso le persone guidano in modo irresponsabile, anche se fra gli irresponsabili includo sia quelli che guidano con troppa disinvoltura, sia quelli che non dovrebbero proprio guidare perché non si sentono sicuri. Quelli che mi superano a 110 km. orari in curva mi preoccupano, ma mi fanno davvero incazzare quelli che guidano a 40 km. orari (e in curva frenano!) inducendo gli altri più insofferenti a fare sorpassi pericolosi.
Pur condividendo la preoccupazione per il modo in cui troppe persone si muovono nel traffico, non concordo con chi trae da ciò argomenti a favore dell’esasperazione dei controlli. Non concordo perché la filosofia del controllo applicata alla sicurezza stradale rientra nella categoria del pensiero magico e non in quella del pensiero critico. Le regole non hanno il potere di livellare le persone e inevitabilmente la convivenza civile comporta il dolore di convivere con tutti, anche con gli imbecilli. Non comporta necessariamente di convivere con burocrati ossessivi, dato che quelli esercitano la loro autorità per un incarico (che può essere revocato), ma comporta sempre e comunque la convivenza con i ragazzini impasticcati, con i vecchietti spauriti, con chi guida male e con chi usa il cervello solo due volte all’anno: tutte persone che possono risentire delle persecuzioni stradali, ma che restano comunque le persone che sono, che inevitabilmente fanno danni con o senza multe e controlli e che soprattutto restano ciò che sono anche se lo stato decide di disturbare tutti gli altri.

Il codice stradale che contiene un numero rilevante di articoli del tutto inutili serve a “rassicurare”, non a migliorare la realtà. Serve più o meno come servirebbe una legge che vietasse ai medici di dire ai malati terminali che stanno per morire: questi ultimi morirebbero comunque pur senza aspettarselo. Il codice della strada (e soprattutto la gestione materiale della segnaletica) rassicura sul fatto che il traffico sia accuratamente regolato, ma non cambia il fatto che il traffico è pericoloso.

Il dato peggiore che va sottolineato è il fatto che l’attuale regolamentazione del traffico, invasiva, ansiogena e spesso assurda, colpisce soprattutto le persone che guidano già bene. Proprio queste, infatti, essendo persone responsabili, dopo essere state colpiti da un autovelox decidono facilmente di cominciare a “guidare strano” per non buttare via i soldi della famiglia. E’ improbabile che un tizio impasticcato o sobrio ma “nervoso” si adatti alle imposizioni per una valutazione razionale dei danni procurati da una sanzione: queste persone guidano male e sperano “di sfangarla”.

Vediamo ora cosa succede alle persone che guidano già bene, ma decidono di adattarsi alla cultura del controllo per non rischiare raffiche di multe (cioè soldi buttati, tempo sprecato a regolarizzare la cosa dai Vigili Urbani della località, perdita dei punti della patente, ecc.).
Alcuni, abbastanza in confidenza con le loro emozioni ci soffrono. Non subiscono danni, ma sono consapevoli del fatto che la convivenza con i loro simili comporta un’ulteriore e inutile limitazione della loro spontaneità (non irrazionale e non pericolosa).
Altri cercano di non pensarci troppo, cioè si adattano, ci stanno male “da qualche parte”, ma cercano di non esserne consapevoli. Attivano quindi un’opposizione interna per “fare i bravi bambini” senza sentire il dispiacere del ricatto che hanno subito. Rischiano facilmente di avere stati d’animo spiacevoli ma confusi e non compresi, cioè non collegati alla loro origine; rischiano di sentirsi irritabili e di diventare irascibili a sproposito con colleghi, amici, famigliari (pessima eventualità se a prenderci di mezzo sono i bambini); rischiano di sentire ancor meno e di somatizzare l’esperienza emotiva producendo stati di tensione ed eventualmente disturbi psicosomatici. Queste ed altre possibilità costituiscono comunque dei danni, delle alterazioni della qualità della vita quotidiana. C’è gente che guida per dieci ore al giorno e guidare in questo modo produce malattie e lutti, anche se non lascia tracce di sangue sull’asfalto.

Chiunque incroci un’auto della polizia stradale rallenta, anche se non stava guidando male, nemmeno per il codice della strada. “Non si sa mai”. L’idea associata alla Polizia Stradale è “Mi beccano?”, mentre dovrebbe essere “Oh!, c’è qualcuno che veglia su di noi”. Si consideri che i poliziotti sono gente per bene, gente che in certi posti muore per un colpo di lupara. Non sono nemici, ma ci sembrano nemici e di fatto lo sono se devono applicare anche delle norme demenziali. Io passo davanti ad un’auto della polizia stradale sempre ai 50 km/h perché tante auto mi lampeggiano per avvertirmi che “quelli là mi aspettano”. Questa complicità fra automobilisti è bella, commovente, ma in fondo è assurda: io potrei essere un trafficante di armi e potrei fare inversione evitando un giusto arresto. Eppure la gente mi lampeggia perché considera molto remota la possibilità che io sia un delinquente, mentre considera quasi certa la possibilità che “quelli mi fottano” se non sto attento.

I limiti di velocità non hanno senso, anche se in caso di incidente avrebbe senso considerare la velocità tenuta dalle persone, tra i fattori determinanti. La cintura di sicurezza andrebbe imposta solo a chi ha dei figli per i figli che non possono decidere. Se una persona non vuole “impiccarsi a quelle cinghie” (che io, ad esempio, non sopporto) mentre guida, deve essere libera di non farlo. Basterebbe dire che in caso di incidente, avrà un indennizzo dimezzato. Ciò vale anche per l’uso del casco imposto a chi va in moto. Lo stato non è un genitore che deve dare delle regole ai pargoletti incapaci di valutare le cose. Gli adulti sono in grado di valutare (e devono comunque essere liberi di valutare anche male) se vogliono rischiare la propria pelle (o rischiare eventuali limitazioni dei risarcimenti assicurativi) in auto come in moto. Perché una persona è libera di arrampicarsi su una montagna o di lanciarsi da una collina con un deltaplano, valutando i rischi che corre, e non può fare la stessa cosa se guida un’automobile o una motocicletta?

Nessun controllo o divieto o regolamentazione può cambiare le persone se sono già cresciute male, se hanno la testa vuota, il cuore duro e le gambe buone (per cui vanno di qua e di là e te le trovi sempre fra i piedi). L’idea che il controllo blocchi “il male” è un mito come quello del bacio che risveglia la fanciulla che dorme. Se la fanciulla non vuol dormire punta la sveglia e se non la punta è proprio perché vuol dormire. Non deve svegliarla un principe, né baciandola, né dandole una botta in testa con il codice della strada. Il controllo, l’intrusione nel privato nelle decisioni soggettive, nei modi spontanei di esprimersi non cambia le persone perché non è il controllo che produce nuovi atteggiamenti verso la vita.

Solo la persuasione, il coinvolgimento, l’esempio, il confronto razionale, la provocazione possono produrre all’interno della persona quel cambiamento che genera nuovi atteggiamenti più costruttivi perché più LIBERI. Parlo ovviamente di persuasione a proposito di idee intelligenti. Tra queste, soprattutto l’idea secondo cui non è opportuno guidare in stato alterato di coscienza. E’ improbabile che un ragazzo venga convinto a non guidare, se ha bevuto troppo, da un segnale luminoso che sconsiglia quel comportamento e nemmeno da un autovelox che potrebbe anche non esserci. Certi ragazzi hanno più paura di sembrare “vigliacchi” se non sfidano la morte di quanto abbiano paura di morire. Questo atteggiamento ha radici profonde e non si modifica con la cultura del controllo. Forse non si può modificare comunque, ma in qualche misura si può modificare con la diffusione di una cultura del rispetto. I ragazzi si trovano a scegliere spesso fra controllo ossessivo e disordine e scelgono il disordine. Non hanno l’alternativa di una cultura del rispetto. Non si confrontano con adulti rispettosi, capaci di criticare certi comportamenti ribelli (apparentemente liberi) in nome di comportamenti più aperti, veramente liberi. Si confrontano solo con genitori, legislatori e poliziotti che parlano di norme, controlli, disciplina e quindi si sentono male e si inventano una libertà rabbiosa, magari letale. Poiché la norma imposta non toglie la rabbia (ma la alimenta) e non toglie la paura (ma alimenta la paura di mostrare paura agli altri), tale norma non cambia le idee sballate, ma le rinsalda.

La vita delle persone è sacra. Chi non è d’accordo è comunque una persona sacra, ma fa del male al prossimo. Chi gestisce, applica e impone una cultura del controllo incide in modi pesanti sulla qualità della vita delle persone e spesso produce conseguenze irrimediabili. Questo è un fatto gravissimo. Ogni ora rubata allo svago, allo studio, al riposo, al lavoro, all’intimità è un parziale omicidio, anche se perpetrato inconsapevolmente. Non si ammazza una persona, ma qualcosa che rende vivibile la vita di quella persona. La filosofia delle regole, della burocrazia, delle sanzioni, dell’opposizione fra stato e cittadini è una filosofia “disumanistica”: rispecchia l’idea di un patto fra nemici (fra persona e persona, fra persona e società). Un’idea che crea inimicizia escludendo la collaborazione, il desiderio di partecipare a un progetto condiviso. E’ una filosofia che nega le potenzialità dell’uomo e che in fondo crede che l’uomo sia malvagio. Avete mai visto un bambino malvagio? Si massacrano i bambini con affermazioni devastanti come “sei cattivo” che generano dolore, ma anche rabbia. Una rabbia inesprimibile che poi verrà fuori quando il bambino sarà cresciuto “secondo le regole”.

La filosofia del controllo è una filosofia contraria alla vita.
E’ ostile ai neonati che hanno bisogno di una famiglia vera, non del “nido” al sesto mese. E’ ostile ai bambini che a otto anni non hanno bisogno di risolvere questioni metafisiche sull’esistenza di Dio e soprattutto non hanno bisogno di riflettere sull’idea bizzarra degli “atti impuri”.
E’ ostile alle donne sia quando le confronta con stereotipi demenziali maschili, sia quando le incasella in una “specificità femminile” che non è altro che la negazione degli stereotipi maschili.
E’ ostile agli uomini quando concede ad essi privilegi illusori oppure reali, ma meramente materiali, in cambio di un carico di doveri e sensi di colpa insostenibili.
E’ ostile ai cittadini perché non si sentono parte di una comunità.
E’ ostile a chi ha lavorato tutto un giorno e vuole tornare a casa senza dover “imparare” da un cartello se deve guidare ai 60 km. orari o ai 70 o ai 90.

La cultura del controllo è ostile alla vita delle persone, degli animali e del corpo. E’ ostile al sesso (ma non alle ideologie repressive-procreative o pornografiche, le quali, strettamente intrecciate, esistono proprio perché esistono idee di controllo). La cultura del controllo è ostile alla nostra capacità di amare.
La cultura del controllo è la cultura della paura. Ricapitola e alimenta l’idea che la “natura umana” sia malvagia. L’idea che tale “natura” ci spinga alla distruttività se non la imbrigliamo e non la soffochiamo.

La cultura del controllo genera una paura che genera altra paura, rabbia e … malvagità. I moralisti del controllo, dell’autovelox, della famiglia, dei “bravi bambini” e della razza bianca, dopo aver creato una frammentazione nella vitalità, nel senso di responsabilità e nel senso di comunità vedono che in realtà la gente normale è comunque abbastanza pazza. Colpiti da questo insight, concludono che i fatti dimostrano la necessità di introdurre più norme e più controlli. Perfetto!
No, non perfetto: desolante. C’è però un dato positivo in questo disastro che, a mio avviso, nessuno può bloccare: per quanto male venga compiuto, restano sempre spazi di buon senso, di creatività, di spontaneità, di genuina emotività. Queste capacità possono essere intercettate e favorite anziché contrastate. Ciò non avverrà mai a livello generale, ma avviene e continuerà ad avvenire in ambiti circoscritti. In tali ambiti possiamo operare, comunicare, agire con cura, contribuendo alla non estinzione della cultura del rispetto.

Gianfranco

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