Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 6 settembre 2009

Il paradosso della cultura del controllo

La cultura del controllo è una concezione della vita, una sorta di religione con i suoi dogmi, il primo dei quali si può riassumere nell’idea che le sofferenze, le sventure imprevedibili, la presenza di persone pericolose e di azioni distruttive, possano essere abolite o seriamente contrastate per legge.

Monitorare l’attività di un vulcano per prevedere in tempo un’eventuale eruzione non è cultura del controllo, ma è la manifestazione del sensato controllo di una situazione ben precisa, circoscritta e molto pericolosa. Vietare la vendita di alcolici ai minorenni invece costituisce un esempio preciso di cultura del controllo ed un esempio preciso di pensiero magico. Qualsiasi diciassettenne ha amici diciottenni e un divieto di quel tipo costringe semplicemente gli alcolisti diciottenni a comprare alcolici per gli amici alcolisti più giovani. Vietare ai bambini di dar cibo ai colombi in piazza non riduce le malattie eventualmente veicolate dai colombi stessi, se solo si confronta il numero dei colombi vivi e vegeti e il numero dei bambini impegnati a nutrirli.
Gli esempi si possono sprecare. Ho avuto notizia di divieti davvero strani (il divieto di posare i piedi sulle panchine dei parchi pubblici, il divieto di fumare nelle spiagge), di idee sulla prevenzione davvero assurde (far fare dei corsi a chi ha un cane “impegnativo”, come se gli imbecilli che fanno un corso diventassero intelligenti), di controlli a dir poco bizzarri (corsi di aggiornamento obbligatori per professionisti che presuppongono appunto che tali soggetti non siano in grado di capire come aggiornarsi, ovvero che siano stupidi, ovvero che non siano recuperabili con nessun corso di aggiornamento).

La cultura del controllo è una sorta di riflesso condizionato. Mentre il cane di Pavlov salivava appena sentiva la campanella, gli esponenti della filosofia del controllo inventano un rimedio appena vedono qualcosa che a loro produce ansia. Scoprono che c’è evasione fiscale e pensano di obbligare tutti gli esercizi pubblici del paese a comprare sofisticate e costose macchine che stampano scontrini da rilasciare ad ogni cliente. Geniale! Così gli evasori fanno come prima (rilasciando solo una parte degli scontrini) e gli altri hanno in pratica l’obbligo di un appesantimento (non retribuito) del loro lavoro.
La cosa più curiosa è che il riflesso salivare dei filosofi del controllo scatta solo in presenza di alcune campanelle. La campanella del riciclaggio di fondi neri attuato dalla Banca del Vaticano non fa scattare nessuna reazione volta al controllo.

Il problema è grave perché la cultura del controllo è una disfunzione mentale diffusa, una patologia endemica, una follia divenuta normalità. Non colpisce solo i servi di persone potenti o corrotte o mafiose, ma colpisce “la gente comune” che di fronte all’ennesima manifestazione della cultura del controllo è pronta ad adattarsi, a cambiare abitudini, ad aggiungere un rituale nuovo ad una vita già piena zeppa di gesti inutili.
Un giudice di pace di un piccolo comune in provincia di Pavia ha imposto ai bambini di una scuola materna di giocare "in silenzio". E ha anche intimato agli insegnanti di vigilare affinché i piccoli disturbatori di due, tre, quattro anni, alcuni ancora muniti di ciuccio e pannolino, non si avvicinino troppo a quell'area del cortile che confina con un condominio in cui vivono delle persone che si sentono disturbate dalle grida dei piccoli (cfr. www.repubblica.it - 20.06.2009).

Questi piccoli episodi, che sono anche buffi, se visti a debita distanza, sono in realtà gravissimi. Essendo associati ad altri e ad altri ancora, costituiscono una rete a maglie fitte che soffoca la vita dopo aver offuscato l’intelligenza. Il pensiero non è un lusso, ma è la prova del funzionamento vitale degli esseri umani. Senza pensiero scivoliamo nella sfera subumana. Diventiamo congegni in movimento, sempre contenti di far parte di un tutto qualsiasi, di un tutto che deve essere “nostro” anche se ci vieta di essere noi stessi.

Dal modo in cui il tempo libero è utilizzato dalle persone, dal tipo di programmi televisivi che vengono prodotti e seguiti, dal tipo di messaggi politici che vengono manifestati e tollerati, dal tipo di idee religiose che vengono propagandate e abbracciate, dal tipo di rituali sociali che vengono condivisi, si può vedere che la vita umana nel nostro paese (e nel pianeta) è già stata abolita e rimpiazzata dalla semplice sopravvivenza.
Non credo ci sia modo di cambiare questa situazione e nemmeno di organizzare una resistenza, una opposizione finalizzata a cambiamenti radicali. L’unica guerra che si può vincere (e che nei secoli è stata vinta) è quella della non estinzione: una guerra aspra, difficile e molto dura, volta a far sì che nonostante la perdita di senso della vita relazionale e sociale permangano intatti degli spazi di libertà, di autenticità, di razionalità, di contatto, di affettività genuina. La dilagante “banalità del male” non può (e non ha mai potuto) azzerare la ostinata e appassionata vitalità del bene. Questa guerra di posizione programmaticamente minoritaria è la condizione per non cedere alla rassegnazione. Se ci si deve necessariamente arrendere alla preponderanza della follia non ci si deve rassegnare al dominio totale e totalizzante del non-pensare-non-sentire.

Dopo aver argomentato sui vari contenuti della cultura del controllo, sulla sua funzione psicologica e anche sulla sua inutilità, voglio ora sottolineare la basilare e radicale mancanza di senso di tale cultura. E’ una cultura dell’illusione perché viene applicata un po’ a casaccio e un po’ in relazione agli umori dei legislatori di volta in volta pronti ad attivarsi, ma è una cultura dell’illusione soprattutto perché, paradossalmente, non può essere applicata proprio nell’ambito più importante, più gravido di conseguenze e più delicato di tutti.

La cultura del controllo gioca con l’idea di ridurre i tumori determinati dal fumo, di eliminare qualche incidente determinato da qualche sbronza, di tranquillizzare persone comunque agitate reprimendo gli schiamazzi dei bambini, ma non può far nulla e non tenta nemmeno (per fortuna) di fare alcunché per prevenire o limitare un fenomeno ordinario, tanto radicato da risultare inosservato, ma tanto grave da produrre risultati devastanti per tutto il pianeta.
Questo fenomeno è la libertà di fare figli. Una libertà che chiunque ha e che chiunque esercita, se vuole, appena ha raggiunto la maturità fisica, anche se non ha raggiunto un’adeguata maturità psicologica e se non ha alcuna effettiva capacità di accudire i figli.
Questa libertà assoluta e tale da produrre conseguenze gravissime non è regolata né regolabile e ciò rende assolutamente ridicole le manie ossessive di regolare quelle libertà che nel peggiore dei casi producono danni trascurabili se comparati a quelli prodotti dalla libertà di procreare.

Hanno liberamente procreato i genitori di tutti i dittatori, di tutti i papi, di tutti i mafiosi e di tutti i terroristi. Hanno liberamente procreato i genitori di tutti quelli che per paura e per mentalità hanno appoggiato e sostenuto dittatori, papi, mafiosi e terroristi.

In pratica, Gaspare deve stare molto attento a non bere due birre con le quali supererebbe il tasso alcolico consentito, mentre Pippo e Nina stanno liberamente scopando, faranno un figlio, lo faranno sentire solo, lo indurranno a diventare insensibile e questi, divenuto un adulto “normalmente insensibile”, inventerà il modello avanzato delle bombe a grappolo per sentirsi “qualcuno” facendo carriera nella sua azienda.

Faccio queste considerazioni da pacifista e da oppositore dell’industria bellica, ma anche da persona che non beve alcolici: non mi piacciono, ma penso possano piacere ad altri e penso anche di dover convivere con gli ubriachi. So di dover convivere anche con ministri e burocrati capaci di inventare leggi e norme peggiori di una brutta sbronza e quindi non mi illudo di cambiare il livello della politica né il gregarismo dei tanti rivolto alla politica dei pochi. Mi limito semplicemente a notare e a far notare alcune incongruenze nella cultura del controllo che è uno dei pilastri della filosofia contemporanea. Non si studia all’Università perché chi arriva all’Università è già rimbecillito e ferratissimo nella materia.

I disastri maggiori del pianeta non sono causati da terremoti, virus o animali feroci, ma dalla normale follia degli esseri umani. Esseri umani competitivi, rabbiosi, violenti, insensibili, ossessionati ed ossessivi, spaventati da loro stessi; esseri umani che litigano senza motivi, offendono, feriscono, tradiscono, deludono, fanno del male senza motivo e magari credono di fare del bene; esseri umani che cercano il potere, vogliono denaro, fama, gloria perché non sanno che fare della loro vita; esseri umani che sentono poco amore e che anche se non fanno niente di terribile, sostengono e appoggiano i grandi progetti distruttivi di chi non ama niente e nessuno.

Tutti i bambini soffrono in silenzio e in solitudine. E nessuna legge può imporre ai genitori una capacità di contatto che non hanno o un buon senso che non immaginano nemmeno. Nessuna legge può prevenire il dolore dei bambini e il fatto che cresceranno male e diventeranno adulti a loro volta violenti, sprezzanti, paurosi, insensibili.
Se i disastri maggiori sono fatti dalle persone, le cose più importanti da controllare sono proprio la nascita e lo sviluppo psicologico delle persone. Queste due cose non sono però controllabili. Per questo la vita umana è una vita pericolosa, non sicura, non regolabile. Siamo aggredibili da un fulmine, ma soprattutto dai nostri fratelli. Questa è la vita e questa è l’avventura di vivere.

In questa avventura terribile e dolorosa, dobbiamo accettare il dolore inevitabile e solo in questo modo possiamo apprezzare la bellezza delle persone: la luminosità, la dolcezza e la creatività sempre presenti, mai azzerate. Presenti anche nelle persone che mostrano soprattutto la loro distruttività.

In questo viaggio fra la sofferenza inevitabile e la felicità di esserci e di essere compagni di strada di altre persone possiamo imparare e insegnare a vivere. L’accettazione dei limiti nostri e dei nostri compagni di viaggio ci aiuta ad esprimere il meglio di noi stessi e a favorire l’espressione del meglio da parte degli altri, per quanto possibile. Al contrario, l’ostinazione a cancellare il limite, l’imperfezione, a prevedere l’imprevedibile e a controllare ciò che non è controllabile ci disturba l’avventura di vivere. Questa tendenza aggiunge infatti un po’ di morte alla morte inevitabile da accettare comunque.

Se non possiamo controllare ciò che determina nascite inopportune e forme demenziali di accudimento dei bambini, non andiamo molto in là imponendo ad una persona di non fumare in un treno, vietando gli “schiamazzi” dei bambini, imponendo il guinzaglio a un cucciolo di cane o imponendo un corso di aggiornamento ad un medico.

La cultura del controllo è solo l’espressione di una follia che, essendo endemica, produce il sogno di una sicurezza e un’armonia impossibile. La cultura del controllo è la manifestazione della voglia di vivere bene da parte di chi vive tanto male da non rendersene conto e che proprio per questo ha l’ansia di “mettere a posto le cose”.
Le cose sono a posto così. Ognuno di noi utilizza metà o un decimo del suo potenziale e questo è un fatto. Ciò che possiamo fare è dirigere le risorse ancora disponibili nella direzione di una maggior consapevolezza e di una maggior espressione di ciò che siamo, di una maggior indipendenza da pregiudizi e illusioni.

Credo sia poco sensato aspettare che partiti, movimenti, associazioni culturali di tipo “progressista” comincino a smantellare la cultura del controllo. Essa è ben radicata. I razzisti vogliono controllare gli immigrati, gli immigrati vogliono controllare le loro mogli e queste vogliono controllare i loro bambini. I bambini degli immigrati non controllano nessuno, come i nostri piccoli “indigeni bianchi”.
I progressisti non vogliono perseguitare gli immigrati, ma si sfogano sui fumatori e sui giovani. Gli ecologisti se la prendono con gli automobilisti che parcheggiano in città (come se in città si facesse solo shopping) o con chi ha dei SUV (come se fosse semplice vivere in montagna o in campagna senza contare sulle quattro ruote motrici). E anziché tentare di imporre la produzione di auto meno inquinanti e meno veloci tentano di esasperare i divieti di circolazione o di parcheggio o cercano di “perfezionare” i limiti di velocità.
La cultura del controllo è una cultura violenta e oppressiva. Seduce i fascisti, i bigotti e i conservatori, ma anche i progressisti, gli ecologisti, gli animalisti che hanno idee buone anziché cattive, ma vogliono tradurle in pratica escogitando nuove forme di repressione anziché proponendo cambiamenti davvero radicali.

Solo una cultura del rispetto può sgretolare in qualche misura la cultura del controllo. Può disturbarla, limitarla, metterla in discussione, anche se non ha alcuna possibilità di diventare cultura di massa.
Chi afferma una cultura del rispetto non può realisticamente darsi degli obiettivi politici. Può darsi altri obiettivi: la testarda affermazione del valore della persona in un mondo in cui le persone non valgono nulla e la realizzazione di esperienze circoscritte di incontro, di creatività, di buona socialità. E l’esercizio di un intransigente e dignitoso dissenso.

Gianfranco

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