Apro a secco con una citazione di Baricco (Next, 2002): «Ho in mente questo bellissimo paragrafo di un autorevole libro sulla globalizzazione. Sentite qui: "Si è spesso argomentato che nei paesi più poveri gli investimenti stranieri avrebbero favorito un aumento dei salari, ma un'indagine del 'Boston Globe' sul comportamento delle grandi imprese americane all'estero ha dimostrato che 'lungi dall'elevare i livelli di vita, tali imprese sembrano per lo più adottare delle paghe che non superano il minimo salariale già esistente localmente'". Un'indagine del "Boston Globe" (con tutto il rispetto, non è propriamente l'ONU; e poi di cosa stiamo parlando, un'inchiesta, un giro d'opinioni, e chi l'ha fatta, chi era il giornalista, era un giornalista?) ha dimostrato (ha dimostrato?, espressione un po' fortina, no?) che le grandi imprese americane (grandi quanto? Stiamo parlando di due, tre aziende, o di cento?) sembrano per lo più adottare (alè, hanno dimostrato che sembrano, ma cosa vuoi dire?, o hanno dimostrato che sono o non hanno dimostrato proprio niente, possono giusto ventilare delle ipotesi; per tacere del "per lo più", cosa vuoi dire "per lo più"?, sono faccende importanti, non puoi dire che "per lo più" le grandi aziende americane [?] sfruttano la gente, non lo puoi dire).
Va be'. Volevo solo far notare come sia diventata inusuale l'abitudine a chiedersi: ma è vero?
Senza questa desuetudine, sarebbe mai passata la parola: globalizzazione?».
Per inciso tengo a precisare che, come all'autore della citazione, non mi risulta nemmeno la tesi opposta, cioè che gli Americani stiano facendo arricchire il terzo mondo. Il punto della questione non è questo, ma come a volte invece idee plausibili e ragionevoli vengano presentate in modi offensivi per la ragione. Una leggerezza, eufemisticamente parlando, che coltiva il vizio, non solo di normali lettori o studenti, ma anche di studiosi e "professionisti del pensiero", di credere a qualsiasi sciocchezza se lo ha detto (o "dimostrato") qualcuno.
Va be'. Volevo solo far notare come sia diventata inusuale l'abitudine a chiedersi: ma è vero?
Senza questa desuetudine, sarebbe mai passata la parola: globalizzazione?».
Per inciso tengo a precisare che, come all'autore della citazione, non mi risulta nemmeno la tesi opposta, cioè che gli Americani stiano facendo arricchire il terzo mondo. Il punto della questione non è questo, ma come a volte invece idee plausibili e ragionevoli vengano presentate in modi offensivi per la ragione. Una leggerezza, eufemisticamente parlando, che coltiva il vizio, non solo di normali lettori o studenti, ma anche di studiosi e "professionisti del pensiero", di credere a qualsiasi sciocchezza se lo ha detto (o "dimostrato") qualcuno.
Per riprendere: senza quella desuetudine quante altre "cose" sono passate e sono diventate valori, idee, principi senza averne titolo?
Tra quelle con titolo che trovo fondamentali ce n'è una che mi sta a cuore, un po' per motivi professionali ed un po' perché attraversa la vita di tutti noi. Ed è la scienza.
Questa, per rimanere sintetici, a parte l'ovvia presenza della tecnologia, fin dall'inizio stabilisce le modalità con cui nasciamo (è dimostrato che in certe situazioni conviene il parto cesareo?) e ci cura mentre siamo in vita (è dimostrato che in certe situazioni conviene assumere il tal farmaco?). Non solo: ci spiega da dove veniamo (l’evoluzione della specie?) e definisce anche il senso che abbiamo di noi stessi (la mente cosciente è un prodotto dei circuiti neuronali del cervello?).
Chiedersi se è vero, è possibile; più difficile darsi una risposta. Per questa occorrerebbe una competenza diretta, ma anche il solo porsi la domanda è un buon esercizio di igiene mentale. Sebbene non ce la poniamo così spesso però, amiamo vantarci di vivere, rispetto al passato, in un’epoca scientifica, fuori dall’oscurantismo dei dogmi religiosi e della superstizione. Chiediamo (spesso invano) che la politica e l’economia tengano conto degli elementi di efficienza e razionalità scientifica. Anche le Lettere ormai non sono più "arti" ma "scienze letterarie".
Abusando del termine "scientifico" possiamo quindi tranquillamente dire che la nostra vita, in senso esteso, è (quasi) tutta scientifica e la nostra cultura è (quasi) tutta scientifica, così come durante il Romanticismo era, appunto, romantica.
Non ho ovviamente nulla in contrario al fatto che la conoscenza in ogni campo proceda con rigore, né sono convinto che la matematica sia fredda e sterile. Anzi potrei lamentarmi del fatto che si viva in un’epoca scientifica ma che faccia molto più "cultura" un sonetto di Shakespeare, o un romanzo (d’autore, s’intende) su amori travagliati e impossibili, piuttosto che qualche rudimento di logica matematica, che invece fa "secchione rigidino". E mi lamento, infatti.
Per esperienza diretta nella scuola so di classi di geometria in cui non si dimostrano più i teoremi e di classi di italiano in cui non si fa più analisi logica e grammaticale. I ragazzi balbettano e il ragionamento si dissolve. Fatevi un giro nelle aule universitarie a sentire gli esami dei ventenni. La futura classe dirigente.
"Ah, i giovani di adesso.." fa ridere ed è la risposta sbagliata. Ogni generazione lo dice di quella successiva che si sta formando, per il semplice motivo che i tempi cambiano. Sempre Baricco, in un saggio sulla mutazione sociale (I barbari, 2006), fa rilevare come la quantità di conoscenza prodotta oggi sia gigantesca anche solo rispetto a cento anni fa e che questo impone delle diverse modalità di accesso, non solo tecniche (il librone che si legge dall’inizio alla fine; o i frammenti del web tra cui si salta in continuazione) ma anche intellettive (la concentrazione persistente; o l’attenzione divisa che si sposta in continuazione) e di temperamento (la resistenza alla noia e alla fatica, cioè la disciplina; o vivacità e agitazione, cioè l'indisciplina). Quindi i nuovi modi di imparare e insegnare conoscenze sono e saranno diversi dai vecchi.
"Ah, non si insegna più come una volta.." invece fa un po’ meno ridere, perché qui stiamo parlando dell’abitudine al ragionamento, della capacità di discernimento come requisito minimo per non perdere il senso di realtà. Altrimenti quale conoscenza, quale coscienza e quale consapevolezza si può sviluppare?
Non c'è modo nuovo che tenga: il buon vecchio senso critico non deve morire.
Marcello
Tra quelle con titolo che trovo fondamentali ce n'è una che mi sta a cuore, un po' per motivi professionali ed un po' perché attraversa la vita di tutti noi. Ed è la scienza.
Questa, per rimanere sintetici, a parte l'ovvia presenza della tecnologia, fin dall'inizio stabilisce le modalità con cui nasciamo (è dimostrato che in certe situazioni conviene il parto cesareo?) e ci cura mentre siamo in vita (è dimostrato che in certe situazioni conviene assumere il tal farmaco?). Non solo: ci spiega da dove veniamo (l’evoluzione della specie?) e definisce anche il senso che abbiamo di noi stessi (la mente cosciente è un prodotto dei circuiti neuronali del cervello?).
Chiedersi se è vero, è possibile; più difficile darsi una risposta. Per questa occorrerebbe una competenza diretta, ma anche il solo porsi la domanda è un buon esercizio di igiene mentale. Sebbene non ce la poniamo così spesso però, amiamo vantarci di vivere, rispetto al passato, in un’epoca scientifica, fuori dall’oscurantismo dei dogmi religiosi e della superstizione. Chiediamo (spesso invano) che la politica e l’economia tengano conto degli elementi di efficienza e razionalità scientifica. Anche le Lettere ormai non sono più "arti" ma "scienze letterarie".
Abusando del termine "scientifico" possiamo quindi tranquillamente dire che la nostra vita, in senso esteso, è (quasi) tutta scientifica e la nostra cultura è (quasi) tutta scientifica, così come durante il Romanticismo era, appunto, romantica.
Non ho ovviamente nulla in contrario al fatto che la conoscenza in ogni campo proceda con rigore, né sono convinto che la matematica sia fredda e sterile. Anzi potrei lamentarmi del fatto che si viva in un’epoca scientifica ma che faccia molto più "cultura" un sonetto di Shakespeare, o un romanzo (d’autore, s’intende) su amori travagliati e impossibili, piuttosto che qualche rudimento di logica matematica, che invece fa "secchione rigidino". E mi lamento, infatti.
Per esperienza diretta nella scuola so di classi di geometria in cui non si dimostrano più i teoremi e di classi di italiano in cui non si fa più analisi logica e grammaticale. I ragazzi balbettano e il ragionamento si dissolve. Fatevi un giro nelle aule universitarie a sentire gli esami dei ventenni. La futura classe dirigente.
"Ah, i giovani di adesso.." fa ridere ed è la risposta sbagliata. Ogni generazione lo dice di quella successiva che si sta formando, per il semplice motivo che i tempi cambiano. Sempre Baricco, in un saggio sulla mutazione sociale (I barbari, 2006), fa rilevare come la quantità di conoscenza prodotta oggi sia gigantesca anche solo rispetto a cento anni fa e che questo impone delle diverse modalità di accesso, non solo tecniche (il librone che si legge dall’inizio alla fine; o i frammenti del web tra cui si salta in continuazione) ma anche intellettive (la concentrazione persistente; o l’attenzione divisa che si sposta in continuazione) e di temperamento (la resistenza alla noia e alla fatica, cioè la disciplina; o vivacità e agitazione, cioè l'indisciplina). Quindi i nuovi modi di imparare e insegnare conoscenze sono e saranno diversi dai vecchi.
"Ah, non si insegna più come una volta.." invece fa un po’ meno ridere, perché qui stiamo parlando dell’abitudine al ragionamento, della capacità di discernimento come requisito minimo per non perdere il senso di realtà. Altrimenti quale conoscenza, quale coscienza e quale consapevolezza si può sviluppare?
Non c'è modo nuovo che tenga: il buon vecchio senso critico non deve morire.
Marcello