Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

martedì 28 dicembre 2010

Pleasantville



Gary Ross non è una figura di primo piano del mondo hollywoodiano, ma è un bravo e scrupoloso artigiano che usa testa e cuore per fare cose buone. Si è costruito una carriera come sceneggiatore e ha girato, come regista, solo due film: Pleasantville (1998) e Seabiscuit (2003). Ho visto entrambi i film con grande piacere, ma il primo mi ha dato … speranza. Sì, perché in un mondo in cui il buon senso, la comprensione dei sentimenti e l’amore per la vita non hanno molto successo, ho provato un senso di speranza vedendo queste tre caratteristiche ben espresse e ben amalgamate in una sola opera.


Il film è stato anche apprezzato, ma non è diventato un mito. Cercherò di sintetizzare il nocciolo della storia e soprattutto i contenuti di questo gioiellino che spero proprio venga visto in DVD dai lettori del blog.


L’inizio è bizzarro e, in sostanza, fantascientifico: due ragazzi (fratello e sorella) di oggi, vengono “risucchiati” in un mondo parallelo che è quello di una sit-com televisiva in bianco e nero degli anni cinquanta. Il ragazzo è un appassionato della serie che veniva riproposta ai telespettatori dopo mezzo secolo e quindi, trovandosi in quel “mondo”, conosce tutti e si muove con una certa familiarità. La sorella invece ci si sente come un pesce fuor d’acqua.


Vediamo ora di capire le coordinate di quel “mondo”. E’ il mondo del cosiddetto “uomo medio” in cui ogni personaggio non aspira a nulla di diverso da ciò che è previsto dalla tradizione e dal nascente consumismo. Un mondo in bianco e nero non solo sul piano dei colori ma anche su quello emozionale. Gli abitanti di tale mondo, infatti, essendo personaggi della sit-com e non persone, sanno solo ciò che in quanto personaggi possono pensare e sentire. Lavorano, cenano la sera, lavano la macchina la domenica. Sono sempre allegri, chiacchierano di banalità e non hanno alcun interesse per il mondo esterno alla loro cittadina. Il mondo dei giovani è il mondo pensabile in una sit-com dell’epoca e non include (come per i loro stessi genitori) né il sesso né una compiuta dimensione emozionale. I ragazzi nemmeno si baciano e parlano con i genitori dei loro vestiti o della partita di pallacanestro ma non di altro. In quel mondo semplice e rassicurante non ci sono problemi sociali, ma nemmeno incendi: i vigili del fuoco vengono chiamati solo per recuperare gatti smarriti.


A scuola si seguono programmi ultrasemplificati e non si apprende niente della storia della società in cui il paese è immerso. La geografia inizia e finisce con le strade di Pleasantville e quando Jennifer (che è calata nel personaggio di Mary Sue) chiede all’insegnante cosa ci sia “oltre” Pleasantville suscita solo un imbarazzo generale. I libri hanno le pagine bianche, dato che non si deve imparare nulla sul mondo, ma si deve solo confermare ciò che si già si conosce di quel microcosmo incantato. Tutto è così compatto, perfettino e “grigio” che non esistono conflitti di nessun tipo e nemmeno domande capaci di trascendere l’ordine dato.


In quegli anni, anche i nostri prodotti televisivi non sollevavano grandi problemi e non riflettevano abitualmente drammi sociali. Miravano quindi a rassicurare e distrarre le persone dai problemi della società; tuttavia veicolavano anche dei contenuti e toccavano lembi della nostra cultura. Negli Stati Uniti, invece, questi prodotti televisivi erano davvero ipnotici e risultavano banali in modo esasperato.


Ora, cosa si è proposto il regista costruendo questa situazione assurda con due ragazzi di oggi imprigionati in un mondo irreale popolato da semplici personaggi di una sit-com del passato priva di qualsiasi spessore umano? Il regista si è proposto di utilizzare quella situazione come una metafora adatta a rappresentare in modo “eccessivo” i riti ed i miti delle persone reali che nel mondo reale di oggi vivono “poco” perché sentono e pensano poco. Il regista ci lancia quindi un S.O.S. invitandoci a diffidare della tendenza presente in tutti noi a “perderci” nei rituali della vita quotidiana, nelle convenzioni, nelle chiacchiere, nelle abitudini condivise. Una tendenza che, in una gradazione meno accentuata di quella dei personaggi di Plesasantville, ci protegge dai sentimenti facendoci sentire poco dolore ma stroncando anche la nostra capacità di gioire e di essere davvero felici.


I due ragazzi (quelli reali) del film hanno inizialmente un atteggiamento diverso. Lui (David, interpretato da Tobey Maguire) cerca di non disturbare l’ordine costituito, accettando che in quel mondo i personaggi non potrebbero tollerare sollecitazioni estranee alla loro mentalità. Lei (Jennifer, interpretata da Reese Whitherspoon) invece è molto seccata dal perbenismo e dall’ottusità delle persone con cui è costretta ad interagire e assume atteggiamenti provocatori. Di fatto si realizza una reazione a catena, dovuta ai comportamenti “impensabili” di Jennifer; per questo, i personaggi della tranquilla cittadina si trovano a fare i conti con stimoli, domande e situazioni estranee alle loro coordinate mentali. Progressivamente nella realtà in bianco e nero della cittadina si fanno spazio i colori.


Il film si sviluppa su questa traccia iniziale, ma non resta in superficie: di fatto, i personaggi di Pleasantville non risultano genericamente turbati dalla “diversità” di queste sollecitazioni, ma vengono profondamente sconvolti proprio dagli stimoli che attivano in loro stessi quelle potenzialità espressive che, in quanto personaggi, reprimevano. E quando “recuperano” un aspetto della loro “interiorità inespressa”, prendono “colore”. Gradualmente Pleasantville diventa un mondo a colori, come quello reale e i personaggi di quel mondo diventano persone, con dubbi, speranze, gioie, sofferenze, voglia di porre domande, desideri sessuali, curiosità intellettuale.


Il film, quindi, non è schematico. Non ripropone in modo elementare il mito della rivoluzione culturale o sessuale e nemmeno suggerisce l’idea della rivolta generazionale o della critica del perbenismo. Tocca gradualmente tutti i nodi della nostra paura di vivere: dal piano emotivo a quello sociale a quello intellettuale. Rende per questo perfettamente l’idea del cammino che ognuno di noi ha bisogno di fare per liberarsi dalle proprie privatissime catene. L’espediente dei personaggi che diventano persone ha quindi una forza dirompente e ci consente di chiederci quanto siamo disposti a vivere la nostra vita e quanto siamo abituati a modellarci in modo da schivare esperienze intense ed autentiche.


Non solo. David, che non vuole inizialmente mettere in modo il processo di destabilizzazione, si trova comunque ad essere interpellato dai vari personaggi messi in crisi dalle situazioni determinate da Jennifer. Ciò che colpisce è la delicatezza con cui David risponde alle richieste (ed alle angosce) dei personaggi: non si propone come un paladino della loro “liberazione”, ma mostra attenzione e rispetto per la loro paura di cambiare ed anche per il loro bisogno di cambiare. Riesce cioè a comprendere sia il mondo in bianco e nero in cui i personaggi vivevano, sia il mondo a colori che gradualmente essi si stanno conquistando. Niente quindi di schematicamente “rivoluzionario” (come risultava quasi inevitabile alla fine degli anni ’60). Nel film alcuni escono dal bianco e nero e recuperano i loro colori liberando la loro sessualità, altri fanno lo stesso cambiamento dedicandosi alla lettura, altri ancora esprimendo la necessaria aggressività di fronte ai soprusi ed altri manifestando commozione. Nel film viene anche mostrata l’intolleranza dei personaggi più “impermeabili” ai cambiamenti, ma tale intolleranza è analizzata accuratamente come un riflesso della paura. Infatti, i personaggi che lanciano sassi contro una vetrina pitturata o svalutano le persone “a colori” o bruciano i libri (che ora non hanno più le pagine bianche), pur esprimendo tante emozioni (negative), restano in bianco e nero, prigionieri della loro paura di vivere e sentire.


Il film non contrappone uno schema ad un altro, ma mostra che possiamo fare a meno degli schemi. Il film, in pratica, è un omaggio alle nostre potenzialità e non un’incitazione a cambiamenti prevedibili e scontati. Il film sottolinea il valore della nostra dimensione interiore e riesce sia a trattare con discrezione la nostra abituale tendenza a vivere “da personaggi”, sia ad affermare la nostra esigenza di esprimerci compiutamente come persone.


Gianfranco



Per scriverci

Inviare eventuali commenti o contributi (senza allegati) scrivendo a:
many.bloggers@gmail.com

Note legali

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge 62 del 7/3/2001.

Questo blog non effettua trattamento di dati personali ai sensi della legge 196/2003.

(Copyright) Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.