Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

mercoledì 5 maggio 2010

Pregiudizi e contro-pregiudizi



Quando si cerca di comunicare con una persona che non vuole ragionare correttamente e non ci si può nemmeno arrabbiare perché si vede che quella persona non è consapevole di arrampicarsi sugli specchi e, in fondo, sta facendo del suo meglio, si fa un’esperienza molto spiacevole: si vede morire tutta la fetta della propria vita che sarebbe stata arricchita da quella persona e anche tutta la fetta della vita di tale persona che si sarebbe egualmente arricchita da uno scambio costruttivo. La chiusura mentale infatti preclude l’intesa, il contatto, gli sviluppi di un rapporto.


Molti mantengono, senza avvertire alcun disagio, rapporti caratterizzati in questo modo, perché non sono interessati ad una reale vicinanza o perché non ne tengono conto (e quindi aggiungono alla chiusura mentale dell’altra persona una propria distanza sul piano umano). Ovviamente se il nostro tabaccaio è un po’ razzista e manteniamo il rapporto “lasciando perdere” qualsiasi chiacchierata di argomento politico, non turbiamo più di tanto la nostra serenità. Se invece il/la nostro/a partner ha pregiudizi svalutativi sul sesso dobbiamo fare dei salti mortali per far finta che tutto vada bene.


Una mentalità rigida o chiusa non dipende da una mancanza di intelligenza o di cultura. Dipende da una più o meno consapevole esigenza di escludere qualcosa. Quando una persona sente di non poter affrontare una certa situazione, pur affrontando razionalmente moltissime questioni, manifesta inevitabilmente dei pregiudizi su tutte quelle connesse a tale situazione “critica”.


La mente chiusa è una mente “a tesi”. Ha come sottotitolo “come volevasi dimostrare”, solo che non dimostra niente, ma semplicemente ribadisce e pretende di dimostrare. Chi ragiona così e non è stupido, molto probabilmente nutre una paura bestiale. Ci si affanna in modo confuso ad ammettere o negare qualsiasi cosa quando si è in uno stato di estrema soggezione: ciò si verifica facilmente, ad esempio, sotto tortura. Si verifica però anche nell’infanzia, quando il rapporto (evidentemente non sicuro) con un genitore deve essere mantenuto a tutti i costi e non può diventare conflittuale. Si determina un conflitto interno, una caduta nella “sragione” pur di evitare un conflitto con la figura genitoriale da cui si dipende totalmente. Dunque, se consideriamo la mole di irrazionalità che si manifesta a livello interpersonale e sociale, possiamo avere un’idea della drammaticità e della mancanza di sicurezza dei bambini nella nostra società.


La chiusura mentale, non è facilmente modificabile. Infatti, se le persone non hanno la più pallida idea di aver paura di qualcosa e sragionano per via di tale paura, non possono essere indotte a ragionamenti più accurati, dato che mentre dicono idiozie credono di seguire un ideale, di affermare dei “valori”, di comportarsi “come si deve”. L’irrazionalità si può prevenire, ma non modificare. Si può aggravare (come quando un uso spregiudicato dell’informazione alimenta le paure di persone comunque già terrorizzate) e si può contenere (ad esempio spiegando i fatti in modi obiettivi, per quel tanto che serve). Tuttavia, l’irrazionalità non può essere eliminata senza una disponibilità del soggetto a mettersi in discussione e a riesaminare tutta l'idea di sé e della propria vita. Il pregiudizio non nasce nel campo degli errori, ma in quello della paura e da ciò discende che non basta una verità per annullarlo.


Ci sono molti pregiudizi, e anche gli atteggiamenti “superstiziosi” possono essere considerati pregiudiziali, ma i pregiudizi più gravi e socialmente funesti sono quelli in base ai quali alcuni gruppi sociali vengono irrazionalmente svalutati e poi emarginati o perseguitati. Tali pregiudizi si manifestano soprattutto tra gli adulti, ma hanno le loro radici in una non consapevole e mai accettata esperienza di svalutazione e di esclusione nell’infanzia.


Il pregiudizio è inconsapevolmente “rassicurante”, perché finché la persona disprezza o colpisce gli altri si sente “al sicuro” ribadendo la propria appartenenza al gruppo di quelli che “sono OK”. In pratica, il pregiudizio non si trasmette per "contagio" o grazie ad un semplice "apprendimento", ma dipende dall'esistenza di conflitti interiori. Consideriamo due esempi estremi. Se dei genitori, per semplice ignoranza, hanno un blando pregiudizio verso un gruppo sociale, ma sono sufficientemente attenti e rispettosi con i figli, difficilmente possono "trasmettere" tale pregiudizio, perché i figli, crescendo, "cambieranno idea" su quel gruppo sociale confrontandosi razionalmente con la realtà sociale. Se, al contrario, dei genitori tendono a squalificare i figli, pur non avendo pregiudizi rigidamente ideologizzati, possono facilmente favorire nei figli manifestazioni di intolleranza; infatti, i figli, crescendo con una sensazione interiore di "inadeguatezza", potranno sviluppare autonomamente dei pregiudizi attribuendo a certi gruppi sociali il proprio "carico di inaccettabilità" allo scopo di sentirsi "a posto". Se teniamo conto del fatto che i genitori emotivamente disturbati sono spesso anche portatori di pregiudizi, possiamo capire come i loro atteggiamenti irrazionali associati alle loro idee irrazionali possano "rovinare" i figli.

Un pregiudizio può “evolvere” in vari modi, sia estendendosi (includendo nuovi “nemici”), sia rovesciando i criteri di (s)valutazione. Nel primo caso un’insofferenza verso i meridionali può estendersi agli africani ed ai cinesi che in precedenza non erano colpiti da emozioni negative. Nel secondo caso, un atteggiamento (pseudo)religioso carico di ostilità verso “i miscredenti” può trasformarsi in un atteggiamento rigido (pseudo)laicista tale da comportare la stessa ostilità nei confronti dei "bigotti". Ovviamente, queste trasformazioni del pregiudizio sono del tutto superficiali. Vanno considerate solo per capire che il pregiudizio può “sostenere” anche delle idee che in sé non sono sballate. Se ciò accade, però, i contenuti vengono espressi in modalità rigide e soprattutto vengono alimentati dall’odio e dalla paura e non dal rispetto per le persone e per la conoscenza.

Quando ci si libera da un pregiudizio ci si sente leggeri, liberi. Ci si sente addolorati, con il cuore spezzato per la perdita di un’illusione, ma anche con il cuore caldo per il senso di compassione e di amore per sé e per la propria sofferenza: quella sofferenza che il pregiudizio copriva. Quando si passa da un pregiudizio ad un altro pregiudizio, ci si sente invece “euforici”, perché si ha la sensazione di togliersi dal groppone qualcosa , ma anche di non perdere alcune sicurezze illusorie. Se si passa da un pregiudizio sessuo-repressivo (“sono accettabile SE nascondo i miei desideri e li condanno negli altri”) ad un pregiudizio opposto, come quello dell'esaltazione (pseudo)erotica ("sono accettabile perché posso essere molto sexy") non ci si libera dal vissuto di rifiuto, che continua a spaventare e ad alimentare comportamenti non costruttivi nel presente.

Ora, poiché la paura è endemica e il cuore delle persone è raramente sfiorato da emozioni profonde, capita normalmente (nel senso della “normale follia”) che quando un pregiudizio “ha fatto il suo tempo” dia luogo ad un “contropregiudizio”, cioè ad un’idea altrettanto balorda che nega “meccanicamente” quella precedente.

La cosa da sottolineare è che chi afferma idee pregiudiziali ha il terrore di essere svalutato. Le persone di questo tipo non pensano che il mondo è vario e quindi, inevitabilmente, molte persone le svaluteranno, altre le ammireranno e altre se ne fregheranno. Nella mentalità rigida di chi è affetto da pregiudizi, il mondo “vero”, quello “che conta” è solo il mondo delle persone che condividono le idee pregiudiziali in questione. Ad esempio, un elegantone si sentirebbe “nudo” e “inadeguato” ad uscire di casa senza la cravatta, come se tutti lo “aspettassero al varco” per giudicarlo sciatto; egli non pensa proprio che altre persone, vedendolo un po' meno "tirato a lucido" del solito, potrebbero pensare che “finalmente ha smesso di fare il fighetto”.

Ai "razzisti padani" non importa nulla di non essere stimati da gente che fa volontariato con i rom, da persone di cultura che studiano usi e costumi di popolazioni lontane o da politici che non riconoscono alcun "primato" alla “loro terra”. Anzi, se vengono additati come rozzi, quasi ci godono, perché si sentono ricompattati nel proprio "mondo padano". Quello che temono è piuttosto di provare simpatia per un marocchino, o di sentire attrazione fisica per una persona di etnia gitana, perché tali sentimenti li renderebbero disprezzabili da parte del loro gruppo di riferimento.

Ciò si verifica anche nell'ambito dei contro-pregiudizi. Una persona non ostile ad altre culture non teme di sfilare in piazza reggendo uno striscione assieme ad un algerino; ne può essere, anzi, orgogliosa. Se però tale persona è solo "contro-razzista", cioè non è davvero libera da pregiudizi, ma soltanto "razzista al contrario", continua ad avere paura di qualcosa e ad agire soprattutto per paura. Può aver paura di “sembrare troppo diffidente” se sull’autobus tiene la mano sul portafogli quando entrano delle donne rom; può aver paura di perdere la calma se si sente infastidita da una persona nera come il carbone che gli dà del “tu” e insiste per vendergli dei fazzolettini ignorando il suo primo “no, grazie”; può anche provare una sorta di vergogna se sente l'impulso di mandare a quel paese un rumeno che senza chiedergli il permesso gli sporca il vetro ad un semaforo, per poi pretendere soldi in cambio del “servizio di pulizia”.

Ricordo una scena di circa venticinque anni fa, prima che il razzismo tornasse di moda. Un uomo gridava parole (irripetibili) contro una zingara che si allontanava; poi faceva alcuni passi verso di lei inducendola ad allontanarsi ancora. La scena aveva tutte le caratteristiche di un rozzo episodio di intolleranza. Le cose, però non stavano in questi termini. O almeno, l’etnocentrismo si era manifestato, ma dalla parte meno sospettabile. Quella persona infuriata ero io e avevo i miei buoni motivi per aggredire (verbalmente) quella donna che, tra l’altro, mi era risultata all’inizio simpatica. Spiego l’antefatto: stavo per scendere dall’auto e vedendo la mano tesa di una donnona rom pensai che forse mille lire potessero servire più a lei che a me. Nessun ringraziamento, peraltro da me non atteso, ma un invito a comprare per cinquemila lire un cornetto fatto apposta per portare fortuna. Non credendo alla fortuna, respinsi gentilmente l’offerta, pensando, a quel punto, che forse cinquemila lire potessero servire più a me che a lei. La risposta della donna si articolò in una sequenza di frasi sibilline sul malocchio che avrebbe potuto colpire quelli sprovvisti di cornetto. Io non credevo nemmeno al malocchio, ma già allora non sopportavo le prepotenze. In un attimo immaginai tutte le brave persone più tonte di me che per paura del malocchio avevano già dato soldi ad una persona che in quel momento, per me, non era più una zingara (simpatica) ma una brutta, grassa megera razzista: una persona per cui non contava nulla come potessi sentirmi io, dato che io contavo solo come un oggetto da spremere giocando anche la carta del terrorismo psicologico. In un attimo pensai che facendo (senza troppo sforzo) la parte del pazzo furioso avrei potuto spaventarla e farle provare un disagio simile a quello che lei, da brava razzista, non si preoccupava di indurre negli altri. Fui contento di vederla scappare a gambe levate.

C’è un libro molto bello (Antonio Moresco, Zingari di merda, Effigie edizioni, Milano, 2008), scritto da una persona piena di umanità e di compassione per se e per gli altri, compresi gli zingari. Il titolo non è scritto in spregio a questo popolo, perché le parole del titolo sono quelle usate scherzosamente proprio da un amico zingaro dell'Autore, per sdrammatizzare la condizione dei rom in una società che non vuole capirli. E’ la storia di un viaggio in Romania in cui Moresco, e un suo amico impegnato socialmente a favore degli zingari vengono guidati dallo zingaro loro amico. Leggendo quel libro con occhi liberi da pregiudizi, si capisce sia la bellezza della concezione della realtà di quel popolo, sia la durezza e la violenza di quella cultura, sia anche la presenza di una chiusura mentale in virtù della quale noi (i “gagé”) siamo “altro”, siamo “non zingari” prima di essere ciò che siamo. Questo “contro-razzismo”, che ovviamente non riguarda tutti i rom o i sinti, così come il “nostro” razzismo non riguarda tutti gli italiano o i francesi o gli svedesi, è un problema. E’ un problema che nasconde un dolore non accettato, così come i nostri più “consueti” pregiudizi. E’ un problema che è difficile discutere con persone “politicamente corrette” che evitano chiusure mentali razziste solo ricorrendo a chiusure mentali contro-razziste.

E’ un problema che può essere posto solo fra persone che detestano le dicotomie irrazionali. Me ne presentate qualcuna? Io reggo bene la solitudine, ma non ci sto bene. Sono un po’ stufo di bandiere nere o verdi sostituite da altre bandiere adatte a celare in altri modi la stessa stupida paura. Ciò che caratterizza la chiusura mentale è l’intolleranza per la riflessione, per la conoscenza e per la realtà. Chi mantiene su un tema qualsiasi una chiusura mentale non è disposto a cambiare idea e questo atteggiamento, per me, è semplicemente un incubo. Ho cambiato tante volte le mie idee sentendomi ogni volta liberato da un guinzaglio e sto male vedendo gente che si affanna per indossare un guinzaglio all’ultima moda.

La prova della mia lacerante e disperata consapevolezza del fatto che spesso chi molla un incubo ne abbraccia un altro mi è stata data di recente da una persona che non nomino. Mi sono riproposto di non citare mai in questo blog i nomi dei politici attualmente impegnati a demolire la società. Alcuni giornalisti parlano ogni giorno di processi, di leggi-truffa e cose del genere; devono quindi fare i loro nomi. Io però non sono un giornalista e non sono nemmeno pagato per scrivere. Voglio tenere i miei post “puliti”. La ministra in questione non è mai stata una studiosa o una militante dedita a qualche “causa”. Nella vita ha cercato soprattutto di “farsi vedere”. Ci ha provato con servizi televisivi di intrattenimento e ci ha provato con calendari abbastanza gradevoli. Ci ha provato (ed è riuscita nell’intento) entrando in politica “dal niente” o da qualche frequentazione discutibile. Insomma, a parte “farsi vedere” non ha fatto cose che i posteri ricorderanno. Recentemente ha immaginato di risolvere il dramma della prostituzione con delle multe. In ogni caso ha un ruolo di prestigio e qualcosa deve fare. Sente il polso della situazione e cerca di fare cose adatte al ruolo che ricopre. Si è quindi accorta che gli omosessuali sono vittime di aggressioni. Recentemente ne hanno parlato i giornali e di questo si sono accorti tutti. In realtà i pregiudizi contro gli omosessuali e la violenza nei loro confronti è una storia vecchia e riguarda anche il terzo Reich e l’Inquisizione, ma oggi ne parlano i giornali. Si è quindi accorta anche del fatto che chi non è d’accordo con le discriminazioni nei confronti degli omosessuali è definito “omofobo” e che oggi quasi tutti (anche a destra) accettano questa definizione. Ha quindi deciso di fare un intervento adatto ai tempi e (in un mondo di matti) è riuscita nell’intento. Ha prodotto uno slogan. Solo una riga. Si dirà che anche E=mc2 è una “roba corta” che però va “strabene”! Invece la ministra in una riga (corta) è riuscita a mettere un errore gravissimo. Di quelli rossi, blu e magari anche color celsestinorosapallido. Non parlo di un errore di grammatica (anche se il punto esclamativo ci sarebbe stato bene alla fine), ma di un “errore di mentalità”.

Lo slogan della campagna ministeriale promossa contro l’omofobia è il seguente: “Rifiuta l'omofobia, non essere tu quello diverso”. Ora, il motivo razionale per respingere la cosiddetta "omofobia" (che include sia espressioni oltraggiose, sia atteggiamenti emarginanti e purtroppo persino violenze personali) non è e non deve essere la paura di essere giudicati omofobi, ma la comprensione dell’odio e della paura che caratterizzano tutti i comportamenti finalizzati ad una emarginazione e ad una squalificazione di ciò che non rientra nella norma. La ministra ha quindi lanciato il messaggio secondo cui “i veri diversi” sono ormai gli omofobi. A livello psicologico, l’implicazione è terrificante, dato che equivale al suggerimento di continuare a prendersela con qualcuno, ma di prendersela con gli omofobi anziché con gli omosessuali. A discriminare, cioè, chi “non si è aggiornato”. In pratica, un cambiamento gattopardesco che non cambia nulla e che non mi risulta sia stato stigmatizzato dalla “cultura di sinistra”.

Questo “svarione” di una singola persona, non sarebbe significativo, anche se manifestato da un personaggio pubblico. E’ però, purtroppo, significativo di una mentalità diffusa che resta immutata proprio cambiando. La superficialità con cui le persone aderiscono a ideologie, rituali sociali, abitudini senza essersi mai chieste se sono davvero interessate alle questioni in ballo è spaventosa. Quante persone fanno vacanze all’estero per dei veri motivi, dopo aver razionalmente vagliato il motivo per cui non vanno in Sardegna o a Cesenatico? Quante persone l’anno prossimo si vestiranno di verde marcio per una reale predilezione per quel colore (nel caso diventi di moda)?

Posso, a questo punto chiudere il cerchio riportando un altro fatto spiacevole (anzi, un paio di fatti) a riprova di ciò che sto scrivendo (con il cuore a pezzi e la consapevolezza di non piacere a tanta gente se dico ciò che penso, sulla base di fatti e ragionamenti rigorosi).

Il primo fatto spiacevole riguarda un’altra “onorevole” che (come ho spiegato poc’anzi) non voglio nominare. Ha la fissa di liberare le donne islamiche dal maschilismo degli uomini islamici. Non le sfiora la mente l’idea che ci possano (almeno a volte) essere islamici che non hanno bisogno del suo prezioso contributo, né l’idea che quando le donne islamiche occultano i loro corpi siano persone adulte responsabili di un comportamento sessuofobico analogo e complementare a quello dei loro mariti. Per lei, sono semplicemente delle vittime e lei ha deciso di “liberarle”. Oltre a scrivere libri “improbabili” è andata (non ricordo bene se nel Settembre o nell’Ottobre 2009) ad una festa o raduno islamico a contestare il velo delle donne. Tafferugli, scambi di accuse, ma soprattutto il (giustissimo) disprezzo di tutti i partiti democratici.

Il secondo fatto riguarda un analogo episodio di violenza, sul quale ho conservato il link, per chi volesse controllare (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/10/06/egitto-la-svolta-di-al-azhar-scuola.html): Mohammed Said Tantawi, imam dell’università Al Azhar, ha urlato a delle studentesse che il niqab non ha a che fare con l’islàm, ma solo con una tradizione che non sarà più tollerata. Ha urlato perché una studentessa ha titubato (comprensibilmente!) in risposta al suo ordine di scoprirsi il viso. Questa scena davvero patetica e disgustosa include una ragazza cresciuta in un ambiente ideologicamente violento e ovviamente spaventata a morte all’idea di girare a viso scoperto, ed un uomo autorevole che le impone di scoprirsi il volto. Se un camionista ubriaco strillasse di togliersi il reggiseno ad una donna che al bar sta sorseggiando un caffè sarebbe molto meno violento, dato che compirebbe un’aggressione solo verbale nei confronti di una persona probabilmente abituata ad abbronzarsi al mare senza reggiseno e ad indossare minigonne. Non sto dicendo che si comporterebbe da gentiluomo o che non mi farebbe venire la voglia di dargli un cazzotto. Sto dicendo che donne islamiche, cattoliche, femministe e di semplice buon senso considererebbero, come me, quell’uomo come uno stronzo. Quelle più intellettuali ci farebbero un articolo per “collocare” la questione nel “contesto socioculturale maschilista”, ecc. Su quell’imam invece non si sono sollevate ondate di indignazione, nonostante la gravità del fatto (un fatto pubblico dovuto all’intervento di una guida spirituale e subìto da una ragazza indifesa intellettualmente). Ho letto solo un paio di giornali, quel giorno (Repubblica it. e Il fatto), ma senza notare alcuna indignazione. Si rilevava, semmai (dato che ciò è politicamente corretto) che l’islàm non è così reazionario e che si sta "aprendo".

Queste cose mi creano sconforto. Due persone fanno più o meno la stessa cosa. La deputata fascista viene massacrata dai giornali “di sinistra”, mentre l’imam “progressista” viene presentato come il portavoce di un rinnovamento culturale. Ciò dimostra che i giudizi in circolazione sono davvero soffocati dai pregiudizi (o meglio, dai contro-pregiudizi). La cultura mediatica è fatta di banalità, quella reazionaria è fatta di pregiudizi tradizionali e la cultura “di sinistra” è spesso fatta di contro-pregiudizi politicamente "corretti".

Per come la vedo io, la religione islamica, come quella cattolica e come quasi tutte le religioni è intrinsecamente violenta nei confronti dei bambini, della femminilità, della sessualità maschile e femminile e della stessa spiritualità. Il fatto che le suore italiane girino vestite come delle “non donne” o che le donne islamiche girino vestite come delle “non donne” mi fa lo stesso effetto: anche se le suore sono poche, a mio avviso la violenza è un fatto qualitativo e non si misura in base alle statistiche, se no dovremmo dare la medaglia a chi ha rapinato “solo” una banca. Il disprezzo religioso per il sesso mi inquieta e mi addolora (come, d’altra parte, l’esibizione consumistica della sessualità). A mio avviso, questo incubo è dovuto sia alla chiusura mentale dei maschi, sia alla chiusura mentale delle femmine (che non considero "vittime"), sia alla chiusura mentale dei cattolici, sia a quella degli islamici, sia a quella dei “progressisti per partito preso”. La via d’uscita (non gradita alle "masse”) comporta dolore. Infatti è doloroso riconoscere il fatto indiscutibile che tante persone per bene facciano con tanta facilità del male. Con le migliori intenzioni fanno del male a sé, ai figli e agli altri, spinte da paure ingiustificate, ma presenti e operanti.

Gianfranco

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