Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

lunedì 8 giugno 2009

Politica e sentimenti: la certezza del dentifricio

Le classi dominanti hanno sempre mantenuto il potere con il consenso di buona parte delle classi dominate. Ci sono riuscite sempre in parte grazie all’ignoranza ed alla mancanza di organizzazione dei ceti più deboli, ma soprattutto appoggiandosi all’emotività confusa e distorta di tali ceti. La stessa tradizione (ormai rottamabile) marxista ha riconosciuto la “forza materiale” delle ideologie, ma non ha mai mostrato di capire la profondità delle radici emotive della sottomissione degli oppressi nei confronti degli oppressori.
Nessun signorotto medioevale, pur circondato dalle sue più fedeli guardie avrebbe mantenuto il suo potere per più di una settimana se non avesse potuto contare sulla paralisi di comportamenti antagonisti da parte delle masse dominate. Nessun capitalista ottocentesco avrebbe potuto gestire le sue fabbriche se non avesse potuto contare sia sul lavoro prestato dagli operai, sia sulla loro passività. Oggi, anche se le classi privilegiate sono divenute qualcosa di indefinito e sfuggente con la globalizzazione dell’economia, sono comunque in qualche modo identificabili e in parte anche identificate e costituiscono una minoranza della popolazione della terra. Eppure conservano il potere. Non sono più depositarie della conoscenza, perché la diffusione della cultura ha tolto ad esse questo privilegio, ma i dominati continuano a vivere con la testa bassa e semmai con il naso in su per ammirare i potenti che tali sono grazie al loro sudore. Qualcosa è cambiato: nel medioevo i poveri pensavano che i ricchi fossero tali all’interno di un piano divino, mentre oggi pensano solo che siano tipi “toghi”, ma resta il fatto che la debolezza dei deboli è da sempre essenzialmente qualcosa che assomiglia alla stupidità pur manifestandosi anche in persone intelligenti e colte.

A cosa si può ricondurre questo “quid” se non può essere semplicisticamente ricondotto alla mancanza di intelligenza o di cultura? Sono convinto che questa “impercettibile” ma efficacissima spinta alla sottomissione sia essenzialmente una incompiutezza mentale, una “miseria dei sentimenti” che oltre a disturbare la sfera delle relazioni personali disturba la partecipazione alla vita sociale.
Le persone sono “deboli” sul piano della dignità personale, sul piano dell’apertura mentale, degli interessi, della spontaneità, dei valori. “Dove li metti, stanno” perché comunque non vanno da nessuna parte. Non hanno una consolidata idea di sé e quindi stentano a vedere in modo appropriato il loro ruolo nella società. La qualità della vita delle persone in pratica non corrisponde alle potenzialità delle persone.
Questo ovviamente vale anche per gli individui appartenenti ai ceti privilegiati, ma proprio perché “dove li metti stanno”, se il caso li fa nascere fra i ricchi vivono una vita rattrappita da ricchi, comunque più comoda di una vita rattrappita da poveri.
Io non ho mai invidiato i ricchi perché non ho mai dato valore al denaro. Ho avuto la fortuna di essere stato sia abbastanza povero, sia abbastanza ricco, in momenti diversi della mia vita da non essere né spaventato da ciò che non ho (o dalla possibilità di perdere ciò che ho), né troppo attaccato a ciò che ho (o ansioso di avere di più). Mi sono sentito perfettamente a mio agio (con me stesso, con le persone care che frequentavo e con gli estranei che incrociavo) in entrambe le circostanze. Prima di convincermi dell’irrilevanza del denaro per la felicità ho “respirato” questa convinzione nella mia famiglia: fin da bambino ho sempre toccato con mano che le cose importanti erano altre, anche se molte di queste mi sono risultate chiare solo fuori dagli schemi mentali della mia famiglia.
I ricchi quindi, per me vivono male come i poveri, ma vivono comodi grazie al fatto che i poveri sono poveri e restano tali. Ora, posto che i ricchi, per la loro miseria emotiva vivono abitualmente delle vite miserabili e comode, e che i poveri, per la loro miseria emotiva restano aggrappati alle loro vite miserabili e scomode, dobbiamo concludere che un cambiamento sociale dipende dalla possibilità che la maggioranza (quella più povera e più scomoda) si riprenda dalla sbornia. Anche i ricchi a volte si svegliano, ma sono pochi e sono circondati da ricchi: Bob Kennedy parlava da uomo, non da uomo ricco e toccava la mente e il cuore di tutti perché viveva in un mondo personale più ampio di quello delimitato dalla sua classe sociale. Gli è però mancata la forza dei tanti. Quindi, per i cambiamenti sociali serve la forza dei tanti.
I movimenti politici progressisti (democratici, liberalsocialisti, comunisti, libertari, ecologisti) sanno da sempre che occorre che i tanti si uniscano in un progetto comune, ma hanno immaginato questo progetto comune essenzialmente come una trasformazione economica più che culturale della società e hanno analizzato “il male da curare” essenzialmente come uno squilibrio economico da modificare. Hanno anche fatto leva su sentimenti “unificanti” e quindi “destabilizzanti” (solidarietà, giustizia, libertà civili), ma fondamentalmente hanno cavalcato la tigre del buon senso che non funziona in un mondo di pazzi. Al buon senso i potenti rispondono con delle sciocchezze e i deboli preferiscono sentire e accettare le sciocchezze. Per questo motivo, credo, i movimenti progressisti hanno ottenuto sempre uno di questi tre risultati:
a)non hanno conquistato il potere
b)quando hanno conquistato il potere lo hanno perso
c)quando non lo hanno perso hanno alterato la loro conquista trasformandola in una nuova oppressione.

Il peggio sta nel fatto che i movimenti politici progressisti non hanno mai capito le ragioni dei loro fallimenti, delle loro vittorie labili e delle loro “vittorie fallimentari”. Non hanno mai capito che le classi dominanti, oltre ad avere potere economico, politico e militare hanno soprattutto una quinta colonna nell’esercito degli oppressi costituita da mentalità ristrette, emozioni distorte, bisogni confusi. La quinta colonna che blocca le rivoluzioni o le rende inconcludenti è la paura. La gente ha paura: la gente, non “il proletariato”. Le masse hanno paura. Una paura di vivere che “pesa” più del bisogno di vivere bene e paralizza la possibilità di immaginare, volere e conquistare un mondo migliore.
Se i movimenti progressisti (tali sulla carta) non mobilitano i sogni, se non mettono in moto idee, aspirazioni, valori, progetti, passioni più grandi del mondo ristretto in cui poveri e ricchi vivono, non convinceranno mai i poveri a svegliarsi e a prendersi la fetta di ricchezza che si sono lasciati portar via.
I “partiti del cambiamento” parlano di “patria” come i nazionalisti, rassicurano i tradizionalisti come i bigotti, affermano il valore della famiglia anziché della persona, parlano di “sicurezza” come i fascisti (anche se con “equilibrio”), parlano di libero mercato anziché di libertà e basta. Se fanno qualche battaglia sul piano ideologico sono sempre a rimorchio di minoranze impegnate che le avviano. I partiti del cambiamento in realtà hanno in agenda il mondo di oggi amministrato in modo leggermente diverso. Non hanno in agenda un mondo diverso. E non capiscono che proprio per non impegnarsi in una grande guerra non riescono a vincere nemmeno la loro piccola battaglia. Solo “sconfiggendo la paura” potrebbero liberare le energie necessarie al cambiamento. Si ostinano a “rassicurare” chi ha paura e questa “gente spaventata” ovviamente si sente più rassicurata da chi fa leva proprio sulla paura per non cambiare nulla.
Con la paura non c’è rassicurazione che tenga. La paura, se non viene estirpata tira giù tutto come le sabbie mobili. L’antidoto della paura è il sogno. Sognare in grande fa inaridire il fiume della paura.
I partiti “progressisti” non osano sfidare la paura irrazionale con l’unico antidoto potenzialmente vincente: la voglia di vivere una vita buona, realmente dignitosa, creativa, appassionante, in armonia con gli altri. I movimenti politici progressisti contemporanei si sono utilmente lasciati alle spalle l’economicismo materialistico marxiano, ma solo per affermare un economicismo minimalistico demenziale.

Oltre a fallire nel compito di tutelare davvero le classi deboli sul piano materiale (anche quando nei paesi europei governano un po’, prima di fare autogol), falliscono nel compito di catalizzare consensi attorno ad un progetto positivo. Dallo slogan urlato negli anni ’60 - “la fantasia al potere” - si è passati allo slogan implicito di oggi: “la noia al governo”.
In un mondo di persone spaventate, chi promette sicurezza e ordine sociale o chi alimenta illusioni infantili riscuote più simpatie di chi invita ad affrontare problemi reali. Da qui il successo dei fascisti di ogni epoca ed il successo recente dei politici capaci di sedurre gli elettori con un’immagine costruita a livello pubblicitario.

Solo il sogno di un mondo realmente più bello da costruire giorno per giorno può competere con la favola di un mondo grigio ma sicuro. Solo un sogno collettivo può rendere sbiadite le favole inventate dai ricchi per i poveri e dai potenti per gli ignoranti.
Il potere a volte minaccia e reprime con il pugno di ferro, a volte seduce con piccole concessioni (facendo diventare classe media una parte della classe lavoratrice), a volte intontisce con lo sport-spettacolo, con la politica-spettacolo, con la cronaca nera-spettacolo. Il potere di pochi è allenato a contrastare il bisogno di cambiamento di tanti. Il potere sa far leva sulla paura del cambiamento, sulla rassegnazione, sul ripiegamento delle persone entro un orizzonte mentale ristretto, fatto di abitudini e svaghi. Se il potere mette in circolazione favole sciocche (e gradite), l’unico antidoto possibile è costituito dall’esplosione di sogni realizzabili. Sognare attivamente è più appassionante che recepire favole passivamente. Unirsi ad altri per costruire nella realtà un bel sogno di tutti è più appassionante che distrarsi dalla realtà e alimentare privatissime illusioni.

Le “forze del cambiamento” stentano a toccare i sentimenti profondi, spesso letargici, ma non morti, delle persone. Annoiano a morte le persone con le loro rassicurazioni. Giurano che non vogliono mettere in discussione i diritti della classe media, i privilegi delle classi alte, i privilegi della chiesa, la stabilità della famiglia, l’ordine, la pulizia, la certezza di avere il dentifricio e la carta igienica. In questo modo contano di governare con il consenso delle masse spaventate anziché guidare un processo di cambiamento sociale, economico e culturale con il consenso e il pungolo di persone consapevoli, sveglie e determinate a vivere meglio, a vivere assieme. Pessima scelta (se scelta è, e non è semplice ottusità), perché chi è ossessionato dal disordine o sogna di cantare in TV anche se solo per cinque minuti, ovviamente si fida maggiormente di chi si occupa di queste stronzate da sempre.

Un cupo senso di prudente realismo caratterizza i messaggi di chi rappresenta i movimenti politici progressisti. L'entusiasmo e la forza che nascono dalla compassione, che calamitano la voglia di vivere anziché di vivere un po’ meglio sono l'unica carta vincente da giocare in un mondo in cui l'indifferenza e la violenza sono parte della normalità di ogni giorno.
La spinta nella direzione di cambiamenti profondi è sempre vincente perché tutte le rivoluzioni riuscite sono state idealmente molto coinvolgenti: Lenin e Gandhi toccavano, anche se in modi diversi, i cuori e non si limitavano a considerare gli interessi immediati delle persone.
Inoltre, tale spinta è vincente anche quando non si traduce in cambiamenti politici e istituzionali, dato che migliora immediatamente la qualità della vita di chi si impegna in questa direzione, perché modifica nelle persone la qualità dei sentimenti, dei valori e delle aspirazioni.
Barack Obama ha parlato di “una fede antica, che non era né nera né bianca, né cristiana né musulmana, ma che pulsava nel cuore del primo villaggio africano e della prima casa colonica del Kansas; la fede negli altri” (I sogni di mio padre, Roma, Nutrimenti, 2008, p. 447). Un buon inizio di un modo umano di pensare alla politica.

Gaetano

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